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Amir, 10 anni, rapito dal suo letto da soldati israeliani

di Nora Barrows-Friedman - 14/03/2010


 

 

 

Amir al-Mohtaseb sorrideva teneramente mentre gli chiedevo quale fosse il suo colore preferito. Seduto nel soggiorno di casa sua lo scorso 4 marzo, giovedì pomeriggio, nella città vecchia di Hebron, il bambino, 10 anni, lentiggini e lunghe sopracciglia, rispose tranquillamente “il verde”. Poi proseguì descrivendo i dolorosi dettagli del suo arresto e detenzione e la seguente incarcerazione di suo fratello maggiore Hasan, 12 anni, da parte dei soldati israeliani occupanti, avvenuta lo scorso 28 febbraio.

Poche ore dopo la nostra intervista, alle 2 di notte, i soldati israeliani avrebbero fatto irruzione nella casa, strappando Amir dal suo letto, minacciando i suoi genitori di morte con le armi da fuoco se avessero provato a proteggerlo, e portandolo al piano di sotto nel pozzo delle scale. Lo avrebbero picchiato con tale ferocia da provocargli lesioni interne all’addome, rendendone necessario il ricovero in ospedale. Completamente scioccato e angosciato, non avrebbe più aperto bocca per un giorno e mezzo.

Nella nostra intervista di quel pomeriggio, prima del brutale assalto, Amir aveva raccontato che il giorno 28 febbraio stava giocando nella strada che costeggia la moschea Ibrahimi, mentre con suo fratello Hasam andavano a trovare la loro zia. “Due soldati ci hanno fermati e ammanettati“, racconta, “Ci hanno messi in due diverse jeep, poi mi hanno portato all’insediamento e mi hanno messo in un angolo, ancora ammanettato. Poi mi misero un cane accanto. Gli dissi che volevo andare a casa, mi risposero di no e che sarei rimasto là per sempre. Si rifiutarono di farmi andare in bagno. Non mi lasciarono chiamare mia madre. Mi bendarono e rimasi così finché mio padre non riuscì a tirarmi fuori a tarda notte“.

Il sequestro di Amir nell’insediamento è durato circa 10 ore. “Tutti i miei pensieri erano concentrati sul mio terrore, specialmente con il cane accanto. Volevo solo scappare e tornare a casa“, dice.

Mukarrem, la madre di Amir e Hasan, mi disse che Amir mostrò segni immediati di trauma, una volta tornato a casa. “Stava cercando di raccontarmi una barzelletta, e di riderne. Ma non era una risata normale: era felice e terrorizzato allo stesso tempo“, mi disse ,”Se l’è fatta addosso durante la detenzione, era estremamente impaurito“. Amir ci ha raccontato di non poter più dormire la notte, dopo la sua cattura, preoccupato per la sorte di suo fratello in prigione e terrorizzato dal timore che i soldati sarebbero tornati a prenderlo (come poi hanno effettivamente fatto). Ad oggi, circa 350 bambini palestinesi languiscono nelle galere e nei campi di detenzione israeliani, sottoposti ad interrogatori, torture e detenzione senza termini definiti, spesso senza alcuna accusa. Il numero varia di continuo, ma migliaia di ragazzini palestinesi tra i 12 ed i 16 anni sono passati per il sistema giudiziario israeliano nell’ultimo decennio, dopo lo scoppio della Seconda Intifada. I cittadini israeliani raggiungono la maggiore età a 18 anni, ma grazie ad un ordine militare contrario a qualsiasi norma del diritto internazionale, Israele considera maggiorenni i palestinesi che abbiano compiuto i 16 anni. In più, Israele ha adottato speciali ordinanze militari (n.1644 e n.132) per poter arrestare e sottoporre a giudizio i bambini palestinesi, chiamati “delinquenti minorili”, fin dai 12 anni d’età.

In questo modo si garantiscono una sorta di ‘copertura legale’ per quello che fanno, anche se ciò è contrario al diritto internazionale“, dice Abel Jamal, ricercatore presso l’ufficio di Hebron della Sezione Palestina di Defence for Children International. “Tuttavia, nel caso di Amir, hanno violato anche le loro stesse regole, arrestando e trattenendo un bambino di 10 anni. Leggi che ovviamente possono essere modificate in base al capriccio di Israele. E non abbiamo mai visto condannare nessuno per questi crimini“.

Ho chiesto a Fadel, padre di Amir e Hasan, di spiegarmi com’è essere genitore in questa costante situazione di assedio. “Per i ragazzi non è sicuro andare fuori perché subiamo continui attacchi sia da parte dei coloni che dei soldati” ci spiega “Già questo è inimmaginabile per noi. Ed ora abbiamo anche un figlio in prigione ed un altro traumatizzato… sono così giovani…“.

Domenica 7 marzo, esattamente una settimana dopo l’arresto di Hasan ed il sequestro di Amir, la famiglia e  alcuni membri dei media locali hanno compiuto un pellegrinaggio di buon mattino verso la prigione di Ofer, dove Hasan è stato detenuto dopo il suo arresto. Dopo un lungo processo durante il quale lo stesso giudice militare israeliano ha riconosciuto  che il ragazzo era troppo giovane per essere trattenuto in prigione, Hasan è stato rilasciato a condizione che sarebbe tornato in tribunale per concludere il processo in un secondo tempo. Questo processo è seguito all’udienza preliminare tenuta ad Ofer lo scorso mercoledì, durante la quale  il giudice avrebbe richiesto con insistenza a Fadel di versare alla Corte 2.000 shekel (circa 530 dollari) come cauzione, come riporta l’agenzia di stampa Maan News. Secondo la stessa agenzia, Fadel avrebbe chiesto pubblicamente alla corte “Quale legge consente ad un bambino di essere processato e di ingiungere al padre di pagare una multa? Non pagherò, e voi dovete rilasciare mio figlio… questo dice la legge dell’occupante israeliano“.

Distrutti dalla situazione dei loro figli, Mukarrem e Fadel dicono che stanno cercando di fare del loro meglio per la loro famiglia sotto attacco. “Cosa possiamo fare?” chiede Fadel. “Chiudiamo le porte a chiave, sbarriamo le finestre, non abbiamo nulla con cui proteggere la nostra famiglia ed i nostri vicini dagli attacchi dei coloni e dei soldati. Se un palestinese avesse rapito e picchiato un bambino israeliano, il mondo intero sarebbe sceso in armi contro di noi.  Sarebbe su tutti i media. Invece gli israeliani, arrivano nelle nostre comunità con le loro jeep, i carri armati ed i bulldozer, prendono i nostri bambini e li sbattono in galera, e  a nessuno importa.” [si chiama doppio standard, molto in voga nel democratico occidente, NdT]

Jamal del DCI ribadisce come le norme di diritto internazionale create appositamente per proteggere i bambini sotto occupazione militare siano state bellamente e sistematicamente ignorate da Israele, sin dall’inizio dell’occupazione nel 1967. “Il nostro impegno principale consiste nel fare del nostro meglio per usare le norme esistenti (la Convenzione di Ginevra, la Convenzione ONU per i diritti dei bambini) come armi contro questa brutalità“, dice Jamal. “Queste norme esistono, ma Israele usa le sue leggi militari come pretesti per sottrarsi al diritto internazionale. Come palestinesi, dobbiamo lavorare assieme per creare una rete di solidarietà contro questa brutalità. Col nostro lavoro, proviamo ad informare la comunità internazionale su ciò che succede ai bambini palestinesi, per costruire il più ampio sostegno possibile contro questa situazione. Siamo certi che l’unico modo per fermare tutto questo sia con il sostegno della comunità internazionale

Amir ha lentamente ricominciato a parlare, a 36 ore dal pestaggio subito dai soldati israeliani. Zahira Meshaal, assistente sociale di Betlemme specializzata negli effetti dei traumi infantili, dice che il “mutismo volontario” di Amir, sintomo di un grave shock psicologico derivante dal pestaggio e dalla detenzione, è una risposta piuttosto frequente, ma il fatto che abbia ricominciato a parlare è un segnale positivo. “Si tratta di una reazione dettata dal terrore a diversi livelli. La casa e la famiglia di Amir sono la sua unica fonte di sicurezza -dice Meshaal- sicurezza che gli è stata strappata nel momento in cui i soldati gli hanno invaso la casa. E’ facile curare gli effetti immediati del trauma, ma quelli di lungo termine saranno indubbiamente più difficili da affrontare. Avrà bisogno di costante assistenza psicologica da oggi in poi“.

Meshaal commenta la natura di questi attacchi nel contesto della intricata situazione di Hebron: “Stiamo parlando di un luogo in prima linea nel trauma -dice- Si tratta di un continuo e crescente danno per l’intera comunità. I genitori sono il riferimento centrale nella sicurezza dei propri bambini, ma tutto questo gli viene sottratto. Ad Hebron specialmente, i coloni ed i soldati lo sanno bene, ed utilizzano questa pratica per indurre la gente a lasciare la zona. E’ guerra psicologica. E’ un atto deliberato mirato a terrorizzare i bambini e forzare la gente a partire così da mettere i propri bambini al sicuro“.

Al termine dell’intervista martedì scorso, Amir ha mandato un messaggio ad un bambino americano: “Siamo bambini, proprio come te. Abbiamo il diritto di giocare, di muoverci liberamente. Voglio dire al mondo che ci sono così tanti bambini nelle prigioni israeliane. Vogliamo solo essere liberi di spostarci, di giocare“. Amir dice di voler fare il cardio-chirurgo da grande. Sua madre e suo padre mi hanno confidato di sperare che il cuore di Amir stesso, ed il loro, guarisca dai ripetuti traumi accumulatisi nella settimana trascorsa, a causa dell’interminabile occupazione israeliana.

Di Nora Barrows-Friedman – Hebron (Palestina occupata) – 8 marzo 2010
Dal sito Electronic Intifada
Traduzione di Freeman -
http://tinyurl.com/metablog