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Campi di battaglia: il dibattito sugli OGM

di Chiara Certomà - 05/05/2006




Se fino a poco tempo fa sembrava un argomento per addetti ai lavori, l’attenzione dedicata
dai media al problema degli Organismi Geneticamente Modificati sta rapidamente aumentando
perché con sempre maggior evidenza il nostro panorama comune sembra essere quello
biotecnologico. L’immaginario sociale è infatti permeato, soprattutto nei paesi “occidentali” ma
non solo, da suggestioni hight tech: dalla pubblicità, alla letteratura, dalle pratiche medi che
alla progettazione degli spazi abitativi, al cinema. In questa fantomatica “società ad alta
definizione” il cibo stesso non può che diventare tale, e, per quanto nel nostro paese sembra
resistere un certo attaccamento a tradizioni alimentari ritenute più "salutari", è evidente in
qualunque supermercato che anche gli alimenti tendono alla standardizzazione, sterilizzazione
e funzionalità. E se questo può accadere nella presentazione e nella preparazione perché non
potrebbe accadere anche nella produzione e prima ancora nella creazione degli alimenti? Sposa
meglio il nostro “immaginario matrix” una purea di (forse) mele in lattina ergonomica che una
mela bacata biologica.
Almeno sembrerebbe, ma forse le cose non stanno proprio così.
Due parole su scienza e società
Su questo si gioca la partita degli OGM: su quale umanità scegliamo di essere. Molto più di
quanto finora abbiamo creduto, le nostre scelte quotidiane pesano sulle sorti di tutto il pianeta
non solo in senso filosofico ma in un senso assolutamente pratico che si concretizza in
meccanismi di mercato internazionale, manovre politiche e condizioni ambientali. Nel mondo
della responsabilità, non vige certo alcun determinismo ma una forte rete di causalità
interconnesse che tracciano i percorsi evolutivi di società e ambienti in maniera imprevedibile,
ma sicuramente conseguente. Siamo dunque di fronte a quello che può essere definito il
dilemma fondante del pensiero non tecnico: “imparare a vivere senza la certezza ma senza
essere paralizzati dall’esitazione” (Russel, 1970, p.11). A questo dilemma sono riconducibili
tutte le paure e i nodi gordiani di una società che cerca la certezza nel sapere tecnico e nella
scienza, a cui chiede non di fornire risposte contingenti ma certezze eterne.
I rischi sono al cuore del funzionamento tecnologico e politico di questa società
dell’incertezza:
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“mostrano una tendenza alla globalizzazione, che comprende produzione e
riproduzione, sfuggono ai confini nazionali, e in questo senso producono minacce
globali sovranazionali indipendenti dall’appartenenza di classe, con un’inedita
dinamica sociale e politica” (Beck, 2000, p.18).
L’esperienza mostra che i pericoli ambientali non conoscono barriere politiche e che non
soltanto sono incontrollabili ma anche imprevedibili: mettono in discussione qualsiasi
sicurezza e la validità di qualsiasi controllo, rendono instabile il confine delle certezze generate
dalla scienza e dalla tradizione, disegnano il quadro di un futuro minaccioso e, soprattutto,
inimmaginabile. I rischi sono “conseguenze non volute”, “effetti collaterali” cui la politica e la
scienza cercano a posteriori di dare una risposta convincente, definendoli “rischio calcolato”,
“scotto da pagare per…”, in un’epoca in cui “la progettazione del futuro avviene in modo
indiretto e cifrato nei laboratori di ricerca e nei consigli direttivi, non nel Parlamento o nei
partiti politici” (Beck, 2000, p. 308).
Dunque, quanto è richiesto al singolo individuo è scegliere essendo consapevole della
parzialità della sua conoscenza e assumersi i rischi connessi con la decisione presa, a livello
privato ma anche pubblico. Ma non solo: è richiesto, in maniera il più delle volte velata, di
definire con la sua scelta anche il futuro degli altri uomini e del pianeta. Scegliere quando
nessun tipo di calcolo probabilistico è attendibile e nessuna informazione esaustiva, significa
fare una scelta morale, nel senso di una scelta che si basi sul proprio vissuto, sul sistema di
valori etici cui ci si riferisce e sulle congetture che si è in grado di fare (ma non di confutare in
maniera definitiva) con i dati a propria disposizione. Dunque una scelta che, per quanto
ponderata, non può certo essere definita eminentemente razionale.
Il dibattito e le posizioni relative agli OGM esemplificano in maniera chiara proprio quanto e
come queste caratteristiche del nostro tempo siano sottese ad ogni comunicazione e scambio
d’opinione, disegnando campi di battaglia e fazioni schierate con le armi della dialettica. Forse,
più di molte altre questioni d’attualità, il dibattito sugli OGM rappresenta, nella sua forma
ideale, un esercizio di cittadinanza attiva impegnata in un dibattito che occupa un’agorà senza
confini fatta di stanze dei bottoni, come di piccole aziende agricole, di mass media come di
supermercati. Uno spazio di confronto estesissimo, affascinante quanto incontrollabile, ma
anche uno spazio in cui il problema chiave del rapporto tra scienza e società, mediato
attraverso la comunicazione, diventa essenziale. La scienza, quando non è più pensata come
dispensatrice di verità assolute al si sopra della contingenza, mostra la sua capacità di
costruzione ideologica e la sua stretta relazione con il potere politico e il clima culturale in cui
opera.
“Le forze sociali ed economiche dominanti nella società determinano in larga misura
ciò che la scienza fa e come lo fa […]E’ a questo duplice processo- da una parte,
l’influenza e il controllo sociale su ciò che gli scienziati fanno e dicono e dall’altra, l’uso
di quel che gli scienziati fanno e dicono ad ulteriore sostegno delle istituzioni e della
società- che ci si riferisce quando si parla di scienza come ideologia” (Lewontin,1997,p.
2).
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La scienza è, come ogni attività umana, prodotto di un sapere (e sentire) storico: un
“fenomeno sociale” la cui metodologia della ricerca e la nozione stessa di razionalità sottesa, è
condizionata dalle circostanze in cui opera, cioè da fattori extra-metodologici spesso considerati
esterni, non essenziali o accidentali (Amsterdamski, 1992). Le tecniche, gli strumenti, i rapporti
all'interno delle comunità scientifiche e con la società caratterizzano la ricerca e permettono di
considerare l’operato della scienza da un punto di vista etico, sociale e politico oltre che
epistemologico. Questo rapporto complesso con il proprio presente è molto problematico per
scienziati che risentono fortemente del clima culturale e politico, e le cui possibilità di ricerca si
collocano spesso ben lontano da postazioni “indipendenti” e “asettiche” dove esercitare una
pratica di ricerca “pura”.
Si evidenziano quindi alcuni punti su cui vale la pena spendere due parole.
Da una parte la percezione pubblica dell’attività scientifica che oscilla tra delega e
diffidenza, in perenne attesa di analisi che siano attendibili sia dal punto di vista scientifico che
etico. Dall’altra la percezione degli scienziati di una avversione isterica alla ricerca e al
“progresso” alimentata, si crede, della mancanza di cultura scientifica della società civile e
dalla deformazione mediatica. In realtà bisognerebbe considerare che si sta ragionando ad un
livello più profondo di percezione del reale che va ben oltre la carta stampata (la quale, semmai,
ne è un effetto e non una causa): il livello degli archetipi e delle mentalità, molto più radicate
della fiducia- tutta moderna e tutta occidentale- nelle boccette di un laboratorio.
Oltre a questo non va sottovalutata la distinzione che s’impone, con sempre
maggiore forza, tra scienze “legittime” e scienze “spurie” di cui, per prima, la
ricerca agroecologica risente fortemente perché, nell’esercitare il ruolo
essenziale che le spetta nel garantire lo sviluppo agricolo e la sostenibilità delle
pratiche colturali e di allevamento, ragiona su tempi lunghi e spazi estesi
secondo la logica sistemica dei processi ecologici. Al contrario di questa scienza
“spuria” che si presenta come soggetta all’imprevedibilità essenziale dei
fenomeni viventi, la ricerca biotecnologica si presenta come inserita nell’ambito
del definibile, della scienza legittima.
Nel corso degli anni Settanta alcuni ricercatori si accorsero che le nuove
tecnologie biologiche a cui lavoravano nei loro laboratori potevano costituire un
rischio sia per gli operatori che per la sicurezza sociale ed ambientale. La
metafora allora più in voga era quella del “vaso di Pandora”: la sperimentazione
biotecnologica, a torto o a ragione, veniva rappresentata come l’apertura di un
contenitore da cui si sarebbero riversati sull’umanità guai imprevedibili. Così
nel 1975 ad Asilomar , in California, scienziati di tutto il mondo si riunirono
per stabilire le misure di sicurezza necessarie (che in alcuni paesi diventarono
poi normative) basate sul contenimento fisico, per mantenere in un ambiente
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confinato i nuovi prodotti, e biologico, per indebolirli strutturalmente non
consentendogli di vivere al di fuori dei laboratori.
“E’ probabile che questi esperimenti favoriranno la soluzione
d’importanti problemi biologici teorici e pratici, e, pur tuttavia,
creeranno nuovi tipi di elementi di DNA infetto, le cui proprietà
biologiche non possono essere previste in anticipo. Vi è la forte
preoccupazione che alcune di queste molecole di DNA ricombinante
artificiale possano dimostrarsi biologicamente a rischio” (Conferenza di
Asilomar, Shiva, 1995, p.120).
Decisero, inoltre, di astenersi volontariamente da alcuni esperimenti
difficilmente controllabili. Negli anni successivi, però, l’avanzare della ricerca
biotecnologica, oltre a modificare la percezione interna del lavoro scientifico,
produsse uno slittamento epistemologico ad ampio raggio: le spiegazioni socioambientali
vennero sostituite da spiegazioni biologico-genetiche (Terragni,
Collettivo di fisica e filosofia, 1997). Tutt’oggi questa tendenza non si limita a
permeare l’ambito scientifico ristretto ma informa di sé l’intero ambito
culturale, accompagnata da tendenze riduzionistiche che sottovalutano il ruolo
dell’ambiente a vantaggio del gene:
“Si è creduto che il tutto si sarebbe compreso solo facendolo a pezzi, che
i pezzi e pezzetti individuali, gli atomi, le molecole, le cellule e i geni,
fossero le cause delle proprietà degli oggetti interi e dovessero essere
studiati separatamente per comprendere la complessità della natura”
(Lewontin, 1997, p. 11).
Al riduzionismo si associano le idee di analisi locale, monocausalità,
normatività, determinismo; mentre al suo opposto concettuale,
l’antiriduzionismo, quelle di sintesi globale, causalità non lineare, contingenza,
storicità, indeterminismo. Mentre i riduzionisti cercano di ridurre la
molteplicità e la varietà a modelli astratti con poche variabili identificabili,
attraverso la scomposizione dell'oggetto studiato in costituenti ultimi, al fine
d'individuare leggi universali e atemporali, gli antiriduzionistisi propongono
una visione gerarchica e integrata dei livelli del vivente in cui i singoli elementi
acquistano significato solo in una rete di relazioni e l'unità d'analisi è
inevitabilmente costituita da una “molteplicità”. L’ingegneria genetica è basata
sul determinismo e la prevedibilità, e stabilisce un confine netto tra ciò che è
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utile in natura e ciò che non lo è: attribuisce quindi un valore strumentale a
tutte le altre specie, fatta salva quella umana e riduce il comportamento di tutti
gli organismi viventi ai loro geni, percepiti come al di fuori dell’organismo nella
sua interezza (Shiva, 1999).
OGM
Le biotecnologie cui comunemente si fa riferimento sono quel complesso di pratiche
tecnologiche volte ad operare una selezione biologica fondata sullo studio e manipolazione (non
necessariamente attraverso transgenia o ingegneria genetica) del genotipo di un organismo.
Vengono utilizzate in tantissimi settori, da quello ambientale a quello zootecnico, farmaceutico,
medico, industriale ed energetico ma in questa analisi si considerano in particolare le
agrobiotecnologie.
Seppure è vero che l’uomo ha sempre operato una selezione nell’ambito dei sistemi viventi
che riteneva funzionali per produrre beni o servizi, questa selezione per ibridazione si è sempre
basata sullo studio del fenotipo già costituito e non sul patrimonio genetico della struttura in
formazione. Questa differenza stabilisce il confine tra le antiche e moderne biotecnologie:
l’ingegneria genetica non è un’estensione degli incroci naturali perché non si fonda sulla
riproduzione sessuale (Smith, 2004). In particolare, le antiche biotecnologie si basano sulla
variabilità naturale di una popolazione, o indotta mediante mutagenesi (come nel caso del
grano “creso”, ottenuto per esposizione del grano a radiazioni e oggi ampiamente diffuso), o
attraverso incrocio e selezione; mentre quelle moderne fanno uso delle tecniche di ingegneria
genetica basata sul DNA ricombinante e sulla fusione cellulare.
A partire dagli anni Sessanta, furono scoperti metodi che consentivano di “tagliare” il DNA e
unire fra loro frammenti di specie filogeneticamente anche molto distanti: in tal modo si può
trasferire nella cellula ospitante di un determinato organismo geni che sviluppino le
caratteristiche desiderate. Attraverso l’introduzione mirata nel genoma di geni che controllano i
caratteri ricercati si possono accelerare notevolmente i tempi di selezione e la precisione del
risultato. Le biotecnologie dette di prima generazione sono quelle che hanno un marcato
interesse in ambito agronomico, come la resistenza a parassiti e la tolleranza a erbicidi. Nelle
piante è possibile compiere questa operazione a partire da una cellula qualsiasi e non
necessariamente durante la fase di riproduzione o sviluppo, come invece è necessario negli
animali. Per trasferire geni nelle cellule vegetali si fa ricorso a tre differenti tecniche:
? Agrobacterium tumefaciens, un batterio esistente in natura capace di
trasferire materiale genetico;
? tecniche biolistiche, attraverso le quali vengono sparati nella cellula
proiettili di oro o tungsteno ricoperti di DNA trasformante;
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? oppure attraverso la trasformazione di protoplasti (cellule vegetali prive
della parete cellulare mantenute in sospensione in colture liquide)
ricorrendo a metodi chimici e fisici.
E’ del 1987 la prima pianta transgenica prodotta: tabacco resistente ad agenti
patogeni, e del 1994 la prima autorizzazione alla commercializzazione,
concessa negli Stati Uniti, di un prodotto transgenico: il pomodoro Flavr Savr,
con frutti che si mantenevano compatti anche a maturazione avanzata.
Attualmente la ricerca si sta orientando verso la seconda generazione di OGM,
piante in cui le modifiche sono preposte al miglioramento delle caratteristiche
qualitative e nutrizionali, e la terza generazione per la produzione di composti
ad alto valore aggiunto da utilizzarsi nell’industria chimica o farmaceutica
(Cdg, in corso di stampa).
Le principali caratteristiche transgeniche oggi sul mercato sono due: la
tecnologia Roundup-Ready che conferisce tolleranza ad un erbicida prodotto
dalla stessa multinazionale che detiene il breve tto sui semi OGM, il Roundup; e
la tecnologia Bt che conferisce resistenza ad un insetto, il Bacillus thuringensis.
Entrambe le tecnologie vengono applicate a diverse specie vegetali e diverse
varietà per ogni specie.
Questioni aperte
Il dibattito sull’utilizzo delle agrobiotecnologie investe moltissimi ambiti
d’interesse collettivo ed è alimentato dalla produzione di dati a favore o contro
il loro impiego, perché il problema fondamentale è l’alto grado di imprevedibilità
derivante dal rilascio di organismi transgenici in un sistema complesso. Il
problema degli OGM investe l’economia come la medicina, l’agronomia come la
politica e infine chiede conto direttamente ai valori etici della nostra società.
Dal punto di vista economico le colture GM dovrebbero presentare una
produttività maggiore di quelle convenzionali con minori costi di produzione,
data la maggiore efficienza nell’impiego di input esterni (pesticidi, fertilizzanti,
manodopera…) e minori costi per il risanamento ambientale, dato il
cambiamento delle pratiche agricole. Alcuni studi, però, mettono in discussione
i dati degli incrementi produttivi mostrando come siano tali solo se paragonati
con i dati sulle colture convenzionali in situazioni di massicci attacchi di agenti
patogeni.
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Il cambiamento delle pratiche agricole dovrebbe portare vantaggi per l’ambiente e
l’ecosistema, soprattutto per quanto riguarda le colture tolleranti ad erbicidi, gestite secondo
modelli conservativi, prevenendo l’erosione del suolo e dunque migliorando la qualità delle
acque e dell’aria grazie alla diminuzione di emissioni di CO2 dovuta all’attività agricola e,
fornendo agli animali un riparo costante e sicuro, dovrebbero incrementare la biodiversità
dell’agroecosistema. Molti di questi benefici, però, non risultano avere luogo nella realtà e il
consumo di erbicidi, come nel caso dell’Argentina, grande produttrice di soia trangenica, può
aumentare tanto da produrre un inquinamento maggiore di quello prodotto con sistemi
convenzionali. Ma il problema ecologico maggiore consiste nel fatto che gli OGM sono organismi
viventi e come tali una volta rilasciati nell’ambiente possono riprodursi e diffondersi
autonomamente, dando luogo a squilibri irreversibili, soprattutto in un arco temporale
abbastanza lungo. La maggior parte degli esperimenti sono condotti in laboratori o in piccoli
campi sperimentali dove è difficile stabilire gli effetti su larga scala. I rischi maggiori sono
dunque dati dalla possibilità che la pianta diventi infestante o invasiva oppure possa inquinare
geneticamente altre cultivar della stessa specie, essendo interfecondi, o piante selvatiche
sessualmente compatibili, dando origine a nuovi organismi vitali. A questo si aggiunge la
possibilità, molto frequente nei batteri, di trasferimento orizzontale di frammenti di DNA tra
individui appartenenti a specie diverse e così è possibile che batteri patogeni per l’uomo o gli
animali acquistino resistenza agli antibiotici impiegati per combatterli. E’ possibile inoltre, dato
che la pianta si trova al centro di un complesso sistema di relazioni biotiche e abiotiche, che
l’introduzione di specie GM possa portare danni a specie non-target (organismi del suolo, insetti
non nocivi, uccelli, e altri animali), mentre la popolazione target, sottoposta a pressione
selettiva su pochi fattori ma con costanza nel tempo, potrebbe indurre a sviluppare
meccanismi di resistenza o tolleranza.
Lo sviluppo di colture transgeniche inoltre può provocare la perdita o la diminuzione di
biodiversità con cambiamenti irreparabili nella diversità di specie e nella diversità genetica
all’interno delle specie, oltre che nell’ecosistema tutto. Questo significherebbe perdere la
capacità di adattamento dei biosistemi alle perturbazioni climatiche o ai fattori abiotici, finora
alimentata dal vasto serbatoio genetico. Inoltre si aggiungano gli effetti sull’equilibrio edafico
che potrebbero influenzare, tra l’altro, le funzioni di depurazione delle acque.
Per quanto riguarda la salute umana ed animale, non costituisce un obiettivo primario
dell’attuale ricerca agrobiotecnologica e i benefici possono dunque essere indiretti e riguardare
la riduzione dell’uso e della presenza di fitofarmaci, con minor contenuto nel prodotto finale, la
diminuzione delle micotossine (tossine naturali) e maggiori controlli sul prodotto. A questo
proposito molti sollevano dubbi sulla sicurezza degli OGM, dal momento che allo stato attuale
delle conoscenze non è possibile dare una risposta definitiva, e inoltre l’ampliamento della
gamma e la qualità delle modificazioni genetiche (magari con l’introduzione o il potenziamento
di un particolare nutriente in un alimento) amplia ulteriormente il quadro del problema.
Comprensibile quindi la costante richiesta di maggiore documentazione prodotta con
metodologie di valutazione scientificamente valide. Tra i rischi maggiormente temuti vi è la
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possibilità, ancora da studiare, di trasferimento di geni di resistenza agli antibiotici da alimenti
transgenici a batteri del tratto gastro-intestinale (trasferimento orizzontale), o di rischi di
interferenze significative con il DNA quando i transgeni vengono introdotti con la dieta o
attraverso somministrazioni intramuscolari. A questi si aggiungono, a seguito di casi
effettivamente verificatesi, il timore che gli OGM possano provocare allergie o intolleranze
alimentari oltre alla vera e propria tossicità del nuovo alimento.
Bisogna considerare inoltre l’impatto delle colture GM sulle colture
convenzionali: all’ordine del giorno sono i dibattiti su contaminazione delle
sementi e coesistenza, vale a dire, data l’evidenza scientifica dell’incorporazione
di transgeni nelle varietà non modificate a contatto con quelle modificate: quali
sono i limiti di ammissibilità e le condizioni per farle convivere su un medesimo
territorio? I riflessi economici sono notevoli: prevenzione, monitoraggio,
certificazione... Problemi ancora più gravi verrebbero a interessare i produttori
biologici che per legge non possono utilizzare semi GM.
L’impatto sui sistemi economici e sociali dell’introduzione di colture GM
presenta una molteplicità di sfaccettature, dal momento che una pluralità di
soggetti sono coinvolti nella loro produzione e consumo: laboratori di ricerca,
industria sementiera, agricoltori, industria di trasformazione, addetti alla
distribuzione e consumatori. A questo si aggiunge l’insieme delle attività di
comunicazione, pianificazione e sensibilizzazione cui le biotecnologie hanno
dato origine. Le questioni eminentemente economiche s’intrecciano, in ambito
di finanza e politica internazionale, con quelle sociali e ambientali in uno
scenario di difficile definizione dove tutti sono attori e spettatori al contempo. I
trattati internazionali tentano di normare gli intensi traffici e le sempre nuove
esigenze di tutela, ne sono esempio il Protocollo sulla Biosicurezza dell’ONU sul
transito di organismi viventi modificati, o il Trattato internazionale sulle risorse
fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura della FAO che definisce gli
obblighi degli Stati e il riconoscimenti per le comunità agricole del loro lavoro
di tutela dell’agrobiodiversità. Nel frattempo in senso opposto si muovono
negoziati e procedimenti promossi in seno all’Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO). Al piano internazionale, ovviamente va aggiunto un piano di
politica interna e locale che in maniera autonoma e con sempre maggiore
partecipazione dichiara i suoi territori indisponibili a colture GM.
Il dibattito sugli OGM investe un altro tema di grande rilevanza sociale e mediatica: quello
della sicurezza alimentare, non solo dal punto di vista della salute, come abbiamo visto, ma
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anche dal punto di vista dell’accesso al cibo, compromesso dal cambiamento della struttura e
della titolarità dei sistemi produttivi. Le innovazioni biotecnologiche non sono certo alla portata
dei piccoli coltivatori dei Sud del mondo e l’uso propagandistico della povertà delle popolazioni
rurali per giustificare i cibi geneticamente modificati vela in realtà o un grossolano errore di
valutazione soci-economica, difficilmente ascrivibile ai vertici delle grandi multinazionali, o una
mal celata cattiva fede, dato che il problema della fame è un problema non di risorse ma di
accesso alle risorse, non di scarsità ma di iniquità, un problema di carattere politico e non
agronomico. Non solo: la biodiversità agricola rappresenta un patrimonio inestimabile
strettamente connesso con i saperi tecnici tradizionali e con i vari aspetti della cultura e
dell’etica minacciati dal sistema dei brevetti sugli OGM (Colombo, 2002). Appunto i brevetti
costituiscono una delle pietre dello scandalo più grandi in fatto di biotecnologie, perché
rappresentano simbolicamente una mercificazione del vivente e la creazione di un monopolio
per proteggere gli investimenti delle aziende produttrici. La protezione dei semi attraverso i
brevetti significa la cancellazione dei diritti degli agricoltori, che hanno il diritto di usare il
prodotto acquistato ma non di produrlo, quindi il diritto di ripiantare i semi ottenuti l’anno
successivo. Poiché, inoltre, si tratta di risorse biologiche, molte delle quali provenienti dal Sud
del mondo, finora liberamente accessibili e dalle quali dipende la sopravvivenza di intere
popolazioni, alcuni non esitano a definire i tentativi di aumentare con i brevetti le entrate delle
multinazionali del Nord come una vera e propria biopirateria:
“I brevetti, sono oggi come ieri, lo strumento per difendere questa biopirateria della
ricchezza delle popolazioni non occidentali come un diritto delle potenze occidentali”
(Shiva, 1999, p. 75).
I diritti di proprietà intellettuale sono uno strumento per esportare in tutto il mondo un
sapere uniformato, trasformando i diritti comuni in diritti privati e riconoscendo innovazione e
creatività come tale solo quando generano profitto, e sono quindi uno strumento di controllo
del mercato. L’agricoltore del Sud è così sia fornitore, che concorrente, che consumatore dei
prodotti delle multinazionali, ma nessuno di questi ruoli gli porta un vantaggio effettivo.
All’universo di implicazioni pratiche che si presentano in tema di OGM si
aggiungono una serie di considerazioni filosofiche, che qui accenneremo
solamente, ma che costituiscono il quadro fondamentale per comprendere
quale sia l’immaginario che motiva le scelte, le passioni e i timori di tante
persone. Bisogna, ovviamente distinguere tra un piano consapevole della
riflessione e un piano immediato dove a incidere sono soprattutto archetipi,
metafore e modelli culturali dominanti. I dubbi legati alla questione
biotecnologica si connettono idealmente ad una serie di concetti che
riguardano, in termini molto generali, la vita e la libertà. L’assegnazione di un
brevetto di proprietà intellettuale sancisce un diritto di proprietà su un
qualcosa che è un codice o un procedimento ma che al contempo è materia
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vivente. Significa ammettere che esiste qualcosa che nasce, cresce, si riproduce
(ancora) e muore, e qualcuno, non solo ne è il creatore, o meglio l’ ”inventore”
(il che evidenzia l’atto di ingegno), ma anche il beneficiario economico della sua
esistenza, e da questo si origina una subordinazione tra chi ha prodotto una
forma di vita e chi la lavora. Questi ultimi, pur essendo coloro che
quotidianamente hanno una relazione diretta con essa non hanno il diritto di
intervenire sulle sue caratteristiche: il loro lavoro comincia dal seme ma non
interviene più su di esso. Il modello generativo non è quello della creatività
basata sull’esperienza del luogo, ma quello della creatività astratta che dal
laboratorio crea un prodotto destinato a diventare merce primariamente e che
quindi non integra la ricchezza ecologica ma l’offerta del mercato.
A confrontarsi sono dunque due contrapposte visioni del mondo, una
ingegneristica e una ecologica, l’una adatta ai sistemi deterministici della
scienza esatta, l’altra ai sistemi complessi della biologia.
Inoltre per i paesi del Sud del mondo c’è un serio pericolo di diventare luogo di
sperimentazione e quindi di veder distrutto l’equilibrio ecologico (fatto di erbe
infestanti, insetti, semi molto produttivi o raccolti scarsi, ma anche conoscenze
empiriche e socializzate, e secoli e secoli di incroci) in nome di una tecnologia
che stabilisce un confine netto tra ciò che è utile e ciò che non lo è con il
risultato di creare uniformità e offerta monopolistica laddove era il regno della
varietà, unica in grado di assicurare la sopravvivenza delle specie sul lungo
periodo. Dunque proprietà privata contro patrimonio comune che significa, nelle
logiche attuali del mercato internazionali anche minaccia dei sistemi culturali
che non creano profitto, attraverso l’ingerenza degli istituzioni finanziarie
internazionali nel determinare le politiche economiche (e non solo) dei singoli
stati. Il brevetto è presentato come garanzia di trasparenza dal momento che
deve garantire, per essere autorizzato, la riproducibilità, ma d’altro canto
questo sistema riconosce creatività solo la dove vi sia la possibilità di richiedere
un brevetto negando tradizioni e saperi indigeni, e al contempo risultando
l’unico mezzo efficace per lo sfruttamento commerciale.
Pro e contro
Il Rapporto sulle biotecnologie vegetali della Commissione mista delle
Accademie Nazionali dei Lincei e delle Scienze (Accademie Nazionali dei Lincei e
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delle Scienze) mostra in maniera chiara ed essenziale quale percorso
argomentativo è sotteso alla posizione di chi è favorevole alle biotecnologie
agro-alimentari.
Il progresso scientifico è il concorso al miglioramento della condizione umana
fisica e sociale. Pur differenziandosi nei metodi di lavoro, ingegneria genetica
molecolare e metodi convenzionali di miglioramento genetico hanno lo stesso
obiettivo: migliorare la sicurezza alimentare in quantità e qualità per tutto il
genere umano. A fronte del costante aumento della popolazione mondiale, la
necessità di cibo impone la scelta tra il mettere a colture nuove terre,
deforestando territori ricchi di biodiversità ed essenziali per il mantenimento
degli equilibri climatici, o rendere più produttivi gli attuali agro-ecosistemi,
con il minor impiego possibile di prodotti di sintesi chimica (fertilizzanti,
diserbanti, fitofarmaci) attraverso l’uso di OGM. Poiché l’uso di queste varietà
può comportare dei rischi, è necessario un monitoraggio e una valutazione
attenta, pur non essendo stato nessuno, finora, in grado di dimostrare la loro
pericolosità (argomento della presunta innocenza). Al contrario, l’insostenibilità
di alcune tecniche agricole attualmente in uso sembra dimostrare che la
ricerca deve continuare (argomento del male minore), avendo sempre cura di
tenere informata con giudizi scientifici e tecnici l’opinione pubblica e l’autorità
politica. A tal fine gli investimenti nella ricerca scientifico-tecnologica devono
essere potenziati, perché i progressi ottenuti sono un elemento necessario,
anche se non sufficiente, per tentare di fornire una risposta al problema della
fame nel mondo.
Le argomentazioni contrarie (Madhav, 2003; Giovananza, 2000; Lynas, 2004)
puntano piuttosto a sottolineare il carattere non definitivo delle conclusioni
scientifiche e parziale della conoscenza acquisibile in fatto di sistemi complessi,
quali sono gli agro ed ecosistemi. In tal senso la valutazione del rischio e la
valutazione dell’impatto ambientale in campo aperto attualmente sono poco
soddisfacenti perché troppo generiche e carenti nella considerazione
dell’impatto delle mutate pratiche agricole e l’invasione di habitat naturali o
seminaturali limitrofi. Finché queste interazioni non sono state ampiamente
approfondite si chiede l’applicazione del principio di precauzione, definito nel
vertice di Rio de Janeiro del 1992 e ribadito nella conferenza internazionale
sulla biodiversità di Montreal del 1999, che esige la massima prudenza
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nell’applicazione, al di fuori dei laboratori di ricerca, delle conoscenze tecniche
e scientifiche della cui non pericolosità si abbia una ragionevole certezza.
Questo significa stabilire norme di legge che impediscano l’uso e il rilascio di
OGM, e che tramite un sistema di etichettatura rendano edotti i consumatori
della composizione e provenienza del cibo. Lasciare che siano i comitati
scientifici delle grandi imprese private a condizionare la politica agricola degli
stati significa negare i principi democratici a cui l’occidente mostra d’ispirarsi
ed attentare al diritto alla salute, all’integrità dell’ambiente e all’informazione,
facendo prevalere le regole del mercato e del profitto sul bene comune. Oltre a
ciò non va sottovalutato l’impatto sociale planetario dell’impiego di OGM e del
sistema brevettuale che, lungi dal rendere autonomi gli agricoltori ed
ecologicamente sostenibili le loro tecniche, risolvendo al contempo la piaga
della fame, li lega a doppio vincolo alle sorti delle multinazionali sementiere,
disconoscendo il loro sapere agricolo, la loro conoscenza delle peculiarità
ambientali e la loro cultura materiale.
Di notevole interesse è il parere del Comitato Nazionale di Bioetica espresso in
un documento datato 28 maggio 1991 che verte sulla sicurezza delle
biotecnologie. In esso il Comitato esprime la necessità di estendere la
riflessione sull’agire umano, di pertinenza dell’etica, anche alle moderne
strategie di sviluppo. I punti evidenziati riguardano la necessità di un
intervento da parte del legislatore in materia di sicurezza delle biotecnologie,
che promuova la protezione contro i rischi per l’ambiente e la salute dell’uomo.
Il Comitato riconosce l’esistenza di rischi non associati alle tecniche stesse ma
legati ai prodotti intermedi e finali, auspicando un maggiore impegno
scientifico in aree come l’ecologia per migliorare le nostre capacità previsionali;
riconosce il ruolo dell’opinione pubblica nell’accettare le biotecnologie e
incoraggia la massima diffusione dell’informazione; conferisce priorità a quelle
innovazioni che dimostrino una evidente utilità sociale, e ritiene necessario che
vengano garantite misure di valutazione del rischio e controllo uniforme.
Inoltre ritiene non etico che sperimentazioni ritenute troppo rischiose in patria
vengano svolte dalle aziende in altri paesi, magari più poveri, stabilendo così
una differente soglia di accettabilità del rischio per diverse popolazioni umane
(Comitato Nazionale di Bioetica, 1991).
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L’opinione pubblica
Il dibattito che si svolge sulla stampa tra sostenitori e detrattori delle
coltivazioni GM si riflette nell’opinione pubblica in posizioni altrettanto nette
quanto istintive. Da diversi rapporti svolti in università e istituti di ricerca (De
Cinis, Capogna, 2002; Fondazione Bassetti 2002; Giarè, 2003; Osservatorio
Pavia, 2002) emerge che se l’informazione è pre-giudicata , come la maggior
parte di quella prodotta, va a rafforzare l’atteggiamento iniziale del lettore, e, in
generale, una maggiore informazione sul tema più che spostare le preferenze di
chi ha già un atteggiamento radicato tende a far diminuire gli incerti. Ciò
nonostante vi è da parte di tutta l’opinione pubblica una chiara richiesta di
aumento di informazioni e di una più chiara regolamentazione che possa
tutelare la libertà individuale di scelta, messa a repentaglio da innovazioni
biologiche potenzialmente incontrollabili. La divulgazione più efficace, dal
punto di vista informativo, è svolta a mezzo stampa, che prevale sul mezzo
radiotelevisivo, dove le informazioni sono invece di carattere valutativo. Tra gli
attori del dibattito a ispirare maggiore fiducia sono, prima di tutto, le
associazioni di consumatori, percepite come molto vicine alle esigenze dei
singoli cittadini, quindi gli scienziati, verso cui una gran parte dell’opinione
pubblica nutre una sorta di fideismo acritico, dal momento che l’accettabilità
morale delle biotecnologie è legata alla loro utilità scientifica. In una diatriba
dai toni accesi, caratterizzata da forti avversità e da un’estensione, nello spazio
geografico e in quello concettuale, sempre maggiore, in cui fatti avvenuti in
luoghi distanti dal tema in oggetto e apparentemente non pertinenti, entrano a
pieno titolo tra i fattori determinanti, la comunicazione stampa risulta il mezzo
per eccellenza di condivisione delle conoscenza diretta ad una comune
progettualità sociale.
Gli elementi chiave della comunicazione sono metafore, esempi, slogan e
appelli che si presentano riuniti in cluster interpretativi che fanno appello alle
nostre credenze anche meno razionali (Mini, 2003). Nella maggior parte dei
casi, infatti, l’obiettivo non è quello di contribuire alla formazione di idee, cioè
pensieri che formuliamo, ponderiamo e accettiamo, che conducano ad una
valutazione della vicenda, quanto alla consolidazione di atteggiamenti
attraverso l’alimentazione di credenze (Cerroni). Le credenze possono essere
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definite come “attribuzioni di significati usati cognitivamente come base dei
nostri comportamenti”. In genere sono basate su teorie ingenue fatte di
prototipi, modelli, analogie: routine epistemiche che segnalano dei criteri di
rilevanza nelle euristiche o nelle immagini integrate della mentel. Su questa
base si sviluppano le questioni legate alla responsabilità per la salute
dell’individuo e della biosfera. Ci sono rischi sociali reali, che implicano delle
deleghe alle autorità competenti ma anche delle scelte individuali, e rischi
simbolici, che si traducono in paure legate al mito della Natura nelle sue
molteplici valenze simboliche: la Natura come sapiente contrapposta ad una
tecnologie che ne altera l’equilibrio, la Natura come Madre con una
connotazione di sacralità.
Di questi archetipi una grande famiglia è quella che fa riferimento al mito di
Prometeo e al sentimento di colpa che deriva dal trasgredire gli ordini di una
divinità e subirne la punizione, topos presente in moltissime religioni,
compresa la cattolica. Affine alla disobbedienza di una legge c’è il tentativo di
sostituirsi alla divinità nella sua opera creatrice, da cui derivano i molteplici
riferimenti alla storia di Mary Shelley, Frankstein. La divinità è rappresentata
dalla Natura che conosce in maniera insondabile i tempi propri dell’esistente,
benevola finchè l’uomo si conforma alle sue leggi ma potenzialmente terribile
nel momento in cui queste vengano infrante. Proprio l’incognita di quello che
seguirà allo sconvolgimento umano dell’ordine divino, mitologicamente
rappresentato dall’ apertura del vaso di Pandora, è il nodo della questione
OGM, in termini archetipici piuttosto che scientifici, in quel piano profondo
dell’immaginario collettivo su cui lavora la comunicazione.
Le questioni centrali sono due a seconda che il dibattito s’imperni su questioni
di politica nazionale o internazionale. Nel primo caso la sicurezza del
consumatore è al centro dell’attenzione, su cui poco possono le certezze, o
presunte tali, della scienza, come anche la legislazione sporadica e
frammentaria. Si aggiunge la questione della scarsa qualità dei prodotti GM
posti a confronto con i nostri tradizionali, magari biologici o certificati, sentiti
come una tradizione da salvare di fronte all’avanzata del cibo industriale, frutto
degli interessi delle multinazionali.
Nel dibattito a sfondo internazionale, invece, il nodo diventa quantitativo e non
più qualitativo: possono gli alimenti biotech aumentare la produttività e
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risolvere i problemi legati alla fame nel mondo e le ristrettezze idriche? I toni
del dibattito si infuocano delineando un conflitto ideologico che va ben oltre
questioni agronomiche o alimentari: da una parte un “capitalismo vorace”,
dall’altra un terzo mondo affamato ma deciso a difendere i suoi diritti e la sua
cultura, da una parte i sostenitori dell’economia globalizzata, dall’altra i suoi
detrattori, da una parte l’ideologia occidentale, dall’altra il terzomondismo.
In tutto ciò si nasconde un essenziale “non detto”: la convinzione che
accademie e istituti di ricerca non si muovano in maniera indipendente, fedeli
ad un astratto ideale di scienza pura, ma nascondano ragioni politiche ed
economiche dietro le loro scelte. Riportare la scienza nella società sarebbe forse
il primo passo proficuo per avviare una riflessione serena sulla spinosa
questione degli OGM.
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Inserito nel sito
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