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Evviva la poesia (purché non sia porcheria)

di miro renzaglia - 14/09/2010


Tre milioni di italiani scrivono versi. Qualche lustro fa, venivano censiti circa trentamila titoli all’anno, nella quasi totalità auto edizioni. Ora, ho perso il conto. Anche se credo che con il sistema di self-publisching online, tipo quello del Gruppo editoriale l’Espresso “ilmiolibro.it”, la tendenza sia in forte recrudescenza. Il problema è che si scrive infinitamente più poesia (o presunta tale) di quanta se ne legga. Tanto che storiche collane di poesia contemporanea di grandi case editrici chiudono per evidente mancanza di richiesta dal mercato. C’è poco da stupirsi. Di fronte all’invincibile armata degli omeridi domenicali, beh! riesco persino a capire quella signora che, sfogliando a caso i volumi sul banco di una libreria, ha ritratto le mani come se, al contatto di una raccolta di versi, si fosse bruciata le dita.  Insomma, non è che manchino i poeti, manca semmai il lettore di poesia. Ed è in questa contraddizione che va sciolto il nodo: la poesia serve o non serve ancora a qualcosa?

Apparentemente, sembra essere ormai imperante la cognizione che la poesia non serva a niente. Tuttavia, anche se pensiamo di poterne e di farne effettivamente a meno, non è così. Senza esserne sempre consapevoli, certe tecniche pubblicitarie, certi headline di giornali, certi slogan e i versi di non poche canzoni d’autore (ma anche no, lo vedremo) veicolano poesia.

Ne volete un esempio commerciale? Nella librerie si vendono bene poesie stampate sulle T-shirt. Ma c’è di più. Qualche tempo fa, una casa produttrice di moda casual per avvertire la clientela della diffusione di false polo, lanciò una campagna pubblicitaria con lo slogan: “O è una Lacoste presa [qui] o è una presa in giro”. Dove il “qui” era sostituito dal noto coccodrillo, marchio di fabbrica. Tecnicamente,  “qui” escluso e sottinteso, si tratta di due ottenari: 1) O è u-na La-coste pre-sa 2) o è u-na pre-sa in gi-ro. Retoricamente, poi, il secondo verso è una perfetta anfibologia: “presa in giro” esprime, infatti, il doppio senso di merce acquistata da rivenditori non autorizzati e (quindi) di fregatura. Il collocamento, infine, della grafica al suo interno (il coccodrilletto al posto del “qui”), fa diventare il classico distico una figura di quella poetica sperimentale che va sotto il nome di “verbo-visiva”.

Dunque, la poesia sembrerebbe servire ancora a qualcosa. Certo, anche chi la crea in questi ambiti poche volte accetterà di confessarsi poeta e di battezzare la sua operazione come poesia. Gli è che, così come ce li hanno imposti a scuola, la poesia e i poeti  godono di una reputazione tanto pessima da disaffezionare, oltre al lettore, l’autore stesso che tende a mimetizzarsi sotto altri titoli. Fabrizio De André, per esempio,  schivava la definizione così: «Fino a 18 anni tutti scrivono poesie. Dopo quell’età continuano solo i poeti e i cretini. Io, precauzionalmente, preferisco considerarmi un cantautore». E De André, dato ormai acquisto anche dalla più avveduta critica letteraria, è considerato per i suoi testi (e musica a parte) poeta senza se e senza ma.  Un poeta, tuttavia, che resta legato ai canoni della struttura lirica tradizionale. Quella, cioè, che abbiamo imparato, volenti o nolenti, a masticare sui banchi di scuola e, quindi, a riconoscere. E, talvolta, perfino ad apprezzare.

Imprevedibilmente, invece, è capitato di veder nascere poesia sperimentale da chi non si era manco posto il problema di quel che stava a fare. Parlo di Adriano Celentano e della sua “Prisencolinensinalciusol”. La ricordate? «Prisencolinensinalciusol / in de col men  /  selvuan / prisencolinensinalciusol / ol rait…». Niente: il testo era composto di significanti senza significato. Forse, un calembour impastato di neologismi, onomatopee e inglese maccheronico. Sicuramente, un non-sense assoluto. Era il 1972. La poesia sperimentale, in Italia, era ancora legata ai Novissimi. Ottimi, per carità, ma con una poetica tutta incisa ancora dentro il significato, nonostante la materialità del testo. Il viaggio al termine della parola (lettrismo, poesia verbo-visiva, poesia fonetica, etc…) era ancora molto lontano dall’essere categorizzato criticamente da Renato Barillari (lo farà solo nel 1981 per la Feltrinelli). “Il re degli ignoranti”, intanto, con uno scarto degno della migliore avanguardia, bruciava tutti. Fu un successo enorme e popolare che raggiunse e invase persino le coste Nordamericane, non certo incline a fervorini ital-musicali.

Il tutto per dire, anzi: per ribadire, che la poesia, anche quella incomprensibile (cioè quasi tutta a giustificazione del disamore che soffre tra i lettori) passa dove meno te l’aspetti. L’obiezione, scontata, è che non di solo testo si tratti ma di un mix dove giocano a rimpiattino parole, musica e interpretazione. Yessss: è così. Se il testo di “Prisencolinensinalciusol” fosse stato lasciato scritto in un’antologia cartacea, nemmeno io oggi me ne ricorderei. A favore della sua memorabilità gioca, con ogni evidenza, il ritmo incalzante dello spartito musicale. Ma il supporto musicale non basta a spiegare il fenomeno. Roberto Benigni, senza musica di accompagnamento, ha riempito le piazze d’Italia con le sue letture dantesche. Ed è applaudito, con ottime probabilità che io dica il vero, anche da chi non si è mai sognato di aprire una pagina della Commedia in vita sua. Dove passa qui la poesia? Una risposta ce l’avrei: in questo caso gioca, oltre alla popolarità del dicente, il suo indiscutibile talento fisico-interpretativo nelle esposizioni pubbliche.

Rifacciamoci i conti. Non è vero che manchino i poeti: semmai ce ne sono a iosa. Non è vero che la poesia non serva a niente: le sue tecniche sono usate persino, ed efficacemente, a fini prioritariamente commerciali. Non è vero che la poesia sia di difficile comprensione: persino testi dichiaratamente incomprensibili possono diventare popolari, benché veicolati dalla musica. Non è vero che il pubblico snobbi la poesia pura: lo dimostrano le letture dantesche di Benigni. E, allora: che hanno da lamentarsi i poeti?

Il fatto è che a lagnarsi non sono i poeti, quelli veri, ai quali della popolarità e del successo, al limite al limite, non frega nulla. A lamentarsi sono i sedicenti poeti, gli aspiranti poeti, i partecipanti ai concorsi di poesia del comune di Vattelappesca. E, soprattutto, a gemere sono quei poeti falliti che, siccome nessuno se li caga, denunciano la morte della poesia. Avete mai sentito parlare Sanguineti, o Zanzotto, o Pasolini, o Pound di “morte della poesia”? A me non risulta. A lamentarsi, inoltre, sono critici come Franco Cordelli che dichiarano: «Sulla poesia non so che dire, ho smesso di leggerla – almeno quella nuova. Ma anche dei poeti che più mi piacevano non ho l’impulso a prendere in mano i libri, tranne, di tanto in tanto, i poeti meno poeti “di professione”». Proprio lui, fra gli altri, che promosse quel disgraziato Festival internazionale della poesia di Castel Porziano, nel 1979, passato ormai alla storia come evento degli eventi poetici. Perché disgraziato? Ma perché fu da allora che invalse l’uso di organizzare quelle sciagure che sono i  reading di poesia. Dove chiunque scrive andando a capo ogni tanto anziché a fine pagina, si sente conferita l’aura del poeta dal pubblico di altri sfigati come lui con i quali, alternativamente, scambia il posto fra palco e platea. Reading sta per: lettura pubblica di poesia. Roba che già Leopardi nelle Operette Morali bollava come insopportabile. E a poco vale il rinverdirne i fasti, aggiungendo all’evento (?) il pepe della gara, come avviene nell’insorgenza post-moderna degli Slam Poetry. Evitateli come la peste: per uno che avrà capito come proporre in pubblico un testo di poesia, ce ne saranno altri cento che vi ammorberanno con le sequenza lineare dei loro pensierini, con voce atona benché ispirata. O, al massimo dello splendore, insieme ai pensierini post lavorativi, vi tedieranno con una musica di accompagnamento completamente slegata dal testo. Per la gioia del vostro desiderio di fuga.

Nella mia visione della poesia in pubblico, oggi, non si può prescindere da una preparazione maniacale: prima sul testo (ma questo è ovvio: lasciate agli spontaneisti creativi ritenere che la poesia nasca «senza fatica, come il fiore da una pianta», mannaggia a Keats);  poi, con l’applicazione di tutti i sistemi  che la modernità mette a disposizione (dalle campionature dei suoni, alle distorsioni vocali, alla proiezioni delle immagine ed ultra), con il non secondario corollario del buttarsi in scena, pasolinianamente, in un viscerale corpo a corpo con la parola. Fondendosi in un tutto dove non sarà più distinguibile la separazione degli elementi. Ovvero: in un “coagula” dove la parola partecipa, come protagonista principale ma non unica, alla rappresentazione dell’altro da sé. In quell’altro da sé, ma in sé profondamente, che è sempre stato e sempre sarà il “solve” della poesia.

Resta il discorso aperto della poesia su pagina. Le vendite dei libri, è vero, allignano su indici irrisori. E non riguardano solo quella contemporanea: riguardano la poesia di ogni era. Personalmente, non ne farei un dramma. Nata storicamente in simbiosi con la musica, la sua traduzione su pagina bianca è opera successiva e limitante. Il che non esclude che, anche lì posta (sulla pagina) possa essere godibile. Serve però, è altrettanto vero, una certa educazione a fruirne. Cosa che la scuola dell’obbligo, con i suoi pruriginosi inviti a capire ciò che il poeta avrebbe voluto dire se si fosse espresso nella lingua dei comuni mortali, non riesce a fare. Il fatto è che  ha ragione Heidegger: la poesia esiste perché attraverso l’elaborazione del dicibile prorompa nella realtà l’indicibile. E fare la traduzione fra proposta dell’indicibile e il dicibile comunemente accettato annulla di fatto le potenzialità della poesia rendendola, questa volta sì: inutile.

E allora? Per quanto riguarda l’insegnamento a scuola, propongo l’abolizione. Più o meno come avviene per altre materie, tipo  la musica o l’arte che sono circoscritte nell’ambito di specifici istituti secondari. In alternativa, la poesia createvela da soli come, in arte, ha insegnato Graziano Cecchini con la sua ormai universalmente nota art-performing “Rosso Trevi”. Oppure, se ne sentite il bisogno, cercatela e prendetela dove vi pare e non necessariamente in un libro o nei reading. Male non vi farà. Purché sia poesia. Purché non sia porcheria.