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«A me par d’esser morto da secoli»: invito alla lettura di Mihail Eminescu

di Francesco Lamendola - 19/09/2010


Mihail Eminescu (Botosani, Bucovina - 1850 - Bucarest, 1889) è  considerato il più grande poeta romeno di tutti i tempi, ma il grosso pubblico italiano lo conosce ben poco; così come, del resto, ben poco conosce gli altri scrittori e poeti romeni e, in genere, quelli dell’Europa centro-orientale: ungheresi, polacchi, ucraini.

I nostri professori universitari, in genere, non sono disposti a perdere troppo tempo con gli autori che scrivono in lingue parlate “solo” da alcuni milioni di persone; succubi anch’essi del «regno della quantità» (come direbbe Guénon), concentrano tutto il loro interesse sulle “grandi” letterature, l’inglese, la francese, la tedesca, l’anglo-americana, tutt’al più la russa: come se, in queste cose, la vera grandezza avesse a che fare con le cifre.

Da parte nostra, saremmo contenti se anche un solo lettore si sentisse invogliato a cercare le poesie di Mihail Eminescu per scoprire, in esse, quei tesori di liricità, d’immaginazione, di sogno potente e malinconico che le pervadono e che rapiscono il lettore in una dimensione “altra”, fatta di pura bellezza e di contemplazione.

Bisogna sfatare, comunque, il luogo comune secondo cui la poesia di Eminescu sarebbe tutta romanticamente triste e schopenhauerianamente pessimista; anche il paragone con Leopardi, consueto e perfino abusato, rende solo una parte dell’animo del grande artista romeno, il quale, benché nutrito di severi studi filosofici a Vienna e a Berlino, sa essere anche incantato come quello d’un fanciullo davanti alla bellezza della natura, dei monti, della foresta, delle acque, del cielo stellato; e che, inoltre, non perde mai la sua profonda fede nella missione del popolo, dei pastori, dei contadini, di quegli umili eroi che, lottando per secoli, hanno saputo conservare la propria lingua e le proprie tradizioni contro mille invasioni e contro mille dominazioni.

«Il poeta romeno della foresta e della polla», lo chiama un insigne studioso italiano e traduttore delle sue poesie, Ramiro Ortiz; non senza averne rilevato anche l’elemento non romeno, ma piuttosto slavo (il suo vero cognome era Eminovici), derivatogli forse dalle ascendenze paterne e materne e che si concreta in quella diffusa malinconia che pervade in sottofondo tutta la sua produzione, e che lo avvicina a talune atmosfere del Puškin.

Il tragico destino di Eminescu - che impazzì nel 1883 e morì in manicomio, sei anni dopo, con il cranio sfracellato a colpi di pietra da un altro ricoverato, dopo una vita errabonda e infelice, pur riscaldata dalla calda amicizia di persone di valore, come il politico conservatore Titu Maiorescu, lo scrittore Ion Creanga e la confidente e ammiratrice Veronica Micle - getta una luce sanguigna sulla sua figura, ma si presta ad una inconscia operazione anacronistica, vale a dire leggere le sue poesie con le lenti deformanti di quel tremendo finale.

È una operazione illegittima, perché proietta sul passato il riflesso di un evento futuro o addirittura, come pure si è tentato di fare per Friedrich Nietzsche, suggerisce una interpretazione di tipo psicopatologico che farà la delizia dei freudiani e, in generale, di tutti gli psicanalisti, ma non aiuta per niente la comprensione di questo grandissimo artista e non sposta di una virgola la sola cosa che conta per leggere una poesia: lasciarsi interrogare, con semplicità e con stupore, dalla suggestione inesprimibile dei suoi versi.

Il tempo della critica, per quanto doveroso, viene dopo (a meno di voler fare come tanti cattivi critici, saccenti e presuntuosi, che non sanno ascoltare, ma solo sentenziare ad ogni pie’ sospinto); e quello della critica psichiatrica, bene sarebbe che non venisse mai.

 

Con ciò, non vogliamo certo negare che un profondo malessere esistenziale albergasse da sempre nell’animo del poeta, e che sia uno dei motivi ispiratori delle sue liriche: quel suo vagabondare inspiegabile per i campi, fin da bambino; quel tenersi lontano dai giochi dei coetanei; lo sprofondarsi inumano nel lavoro giornalistico (ma per ragioni di sopravvivenza economica) che, da ultimo, portò al tracollo il suo fragile equilibrio, sono spie di un tormento che getta come un’ombra anche sui momenti più felici della sua vita e che sgorgherà infine dalla sua mente ormai devastata in quel sospiro straziante, che tanto avrebbe colpito il poeta Vlahutza, recatosi a trovarlo in manicomio: «Oh Dio! Oh Dio!».

Però, esattamente come per Leopardi, tentare di leggere la poesia di Eminescu alla luce della sua malattia (fisica per l’italiano, mentale per il romeno) significherebbe commettere una forzatura vera e propria, tale da sminuire la portata universale di quelle voci poetiche, riducendole entro gli angusti schemi di una “ragione” innalzata arbitrariamente a norma suprema.

Per accostare l’opera in versi di Eminescu (quella in prosa meriterebbe altro discorso, che questa non è la sede per fare), suggeriamo il lettore italiano non specialista di partire da una poesia scelta apposta tra le meno famose e “importanti” (come «Venere e Madonna», «L’astro» e «Lucifero»), ma altrettanto fresca d’ispirazione e altrettanto rappresentativa del mondo dolcemente sognante del suo Autore, come questa «Malinconia», che riportiamo nella bella traduzione del già citato Ramiro Ortiz, cui si deve anche una preziosa introduzione al volume dedicato al poeta romeno (Mihail Eminescu, «Poesie», Firenze, Sansoni, 1927):

 

«MALINCONIA

 

Sembrava che nelle nubi si fosse aperta una porta,

per cui passava la bianca regina della notte morta.

 

Oh dormi, dormi in pace tra mille fiaccole,

e nella tomba azzurra, tra le bende d’argento,

 

nel tuo mausoleo splendido sotto la cupola del Cielo,

tu, adorata e dolce regina delle notti!

 

Solennemente vasto dorme il mondo sotto la neve

Co’ suoi villaggi e  campi, che un lucido velo ricopre.

 

Il sereno sfavilla, e, quasi spalmati di calce,

brillano i muri e i ruderi nel pian solitario.

 

Il cimitero veglia colle sue croci sghembe

E su una di esse sta una civetta grigia;

 

scricchiola il campanile di legno, il vento sbatte

contro i pilastri della “tóaca” (1), e il diafano demonio, quando per l’aria passa,

 

lieve tocca il metallo con l’ala sua di pipistrello,

sì che dalla “tóaca” odi partire un luttüoso lamento.

 

                                            La chiesa in rovina

Sta pia, triste colle sue mura scalcinate

 

E il vento soffia attraverso gli usci e le rotte finestre

E par che faccia incantesimi e tu ne ascolti le parole.

 

Dentro la chiesa, sulle colonne, le icone e il paliotto

Appaiono a mala pena, scolorite come ombre;

 

unico prete un grillo fila un canto fine e oscuro,

unico sagrestano il tarlo suona la “tóaca” sotto il muro in rovina.

 

……………………………………………………………..

 

La fede sola dipinge nelle chiese le icone

E nel mio spirito faceva fiorir fole meravigliose;

 

ma della vita i flutti, ma l’urlo delle tempeste

a mala pena tristi contorni e ombre ci han lasciato;

 

invano cerco il mio mondo nel cervello stanco,

poi che rauco un grillo vi fa melanconici sortilegi;

 

sul mio cuore inaridito invano poso la mano:

lento esso batte come il tarlo in una bara.

 

E quando penso alla mia vita, mi par che essa scorra

narrata lentamente da una bocca estranea,

 

come se non fosse la mia vita, come se io non fossi mai stato.

Chi è mai quegli che me ne ripete a memoria il racconto,

 

se tendo a lui l’orecchio e rido di quanto ascolto

come di dolori altrui? A me par d’esser morto da secoli.»

 

1)      La “tóaca” è una semplice tavola di legno con un martello, in uso nelle chiese e nei monasteri greco-ortodossi per chiamare a raccolta [nota nostra].

 

Due sono i momenti poetici più intensi di questa composizione: il paesaggio notturno del cimitero abbandonato e della vecchia chiesa in rovina, che richiama più il tono pensosamente malinconico di un Thomas Grey che quello cupamente “gotico” alla Caspar David Friedrich; e quello della scoperta finale da parte del poeta di non essere più vivo, ma morto, e morto da un tempo infinito, che sembra riecheggiare la famosissima fiaba popolare romena «Giovinezza senza vecchiaia e vita senza morte» (riportata in: «Fiabe romene di magia», a cura di Marin Mincu, Milano, Bompiani, 1989), ma in cui si colgono anche toni quasi pirandelliani «ante litteram».

In particolare, i versi « E quando penso alla mia vita, mi par che essa scorra / narrata lentamente da una bocca estranea, / come se non fosse la mia vita, come se io non fossi mai stato», sembrano anticipare il noto aforisma di Pirandello (e che avrebbe sottoscritto anche Svevo): «La vita, o la si vive o la si scrive»; intendendo che lo scrittore, e specialmente il poeta, è colui che si aliena dalla vita vera per ripiegare in un mondo illusorio ed evanescente, dal quale si osserva intensamente, ma, proprio nell’atto di osservarsi, si separa irrimediabilmente da se stesso e si rende conto di essere divenuto estraneo al proprio io.

Forse, la radice ultima del dramma umano di Eminescu, nonché della diffusa, insopprimibile malinconia che pervade i suoi versi (benché, come si è detto, non sarebbe giusto farne quasi l’unico elemento ispiratore) risiede proprio in questa contraddizione: da un lato, la tendenza insopprimibile alla contemplazione ed al sogno; dall’altro, la disposizione a vedere in tali stati dell’essere non un salto qualitativo verso i livelli superiori dell’esistenza, ma solo una copia, pallida ed elusiva, della realtà “vera”, vale a dire della vita quotidiana colta nella sua immediatezza.

Da ciò nascono la frustrazione, il disinganno, la disperazione; e, in questo senso, possiamo vedere nella poesia di Eminescu una anticipazione di temi tipicamente novecenteschi, come il disagio per la condizione del poeta, caratteristico dei Crepuscolari (ma che ha il suo “padre nobile” ne «L’albatro» di Baudelaire); e, più in generale, l’impossibilità di conciliare la dimensione estetica della vita con quella pratica e quotidiana, come nel «Tonio Kröger» di Thomas Mann (a sua volta anticipato dal «Niels Lyhne») di Jens Peter Jacobsen.

Il male, dunque, è sempre lo stesso: vedere nello straniamento del poeta ed, in genere, della persona spiritualmente ricca e dotat - ma “diversa”, proprio per questo, dall’uomo comune - non qualche cosa di più, ma qualche cosa di meno di una condizione esistenziale pienamente realizzata; il tutto, ovviamente, in un contesto sociale che non sa cosa farsene dei poeti o, quanto meno, che sembra non sapere più che farsene.

È il senso di vuoto, di abbandono, di inutilità che caratterizza la condizione dell’artista nella società della tecnica; la condizione del poeta, uomo della memoria, nella società della fretta, del rapido consumo e dell’altrettanto rapido oblio di tutte le cose.

Ecco allora che quel desolato lamento, «a me par d’esser morto da secoli», acquista, fuori di ogni enfasi romantica, il suo vero significato: quello di un grido d’allarme per un mondo che cambia troppo in fretta, mentre il mondo interiore della singola persona, con tutta la sua immensa ma delicata ricchezza, rischia di venire continuamente cancellato, come lo è un nome tracciato sulla sabbia dalle onde del mare.