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La naturalità della caccia

di Massimiliano Viviani - 20/09/2010

 






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In questo periodo sta per cominciare la stagione venatoria. Come ogni anno questa ricorrenza riapre eterne ferite tra cacciatori, ambientalisti e animalisti, ma se alcune di esse sono fondate, altre lo sono meno. Noi in questa sede non prenderemo in considerazione tutte quelle critiche che mirano a correggere alcune distorsioni o eccessi della caccia -come l'utilizzo di strumenti quali le tagliole, la durata della stagione, il numero di specie cacciabili o l'estensione delle aree di caccia, per non parlare dei casi di morti accidentali dovute ad errori dei cacciatori- che sono argomenti che meritano riflessione e sono passibili di discussione, ma intenderemo valutare quelle critiche di principio che mirano in definitiva a dipingere la caccia come atto barbaro in sè e pretendono di giungere alla sua completa abolizione. Sebbene queste voci siano assolutamente minoritarie, sono tuttavia sintomatiche di una sensibilità distorta, tipicamente moderna, che in verità si sta diffondendo in larghi strati della popolazione.
La sensibilità moderna vede la caccia come un atto immorale. Si dice che essa fu giustificata in epoche passate e presso certe popolazioni per ragioni di sussistenza, ma che oggi l'uomo civile dovrebbe farne a meno: il cacciatore moderno infatti vede l'atto di caccia come una forma di divertimento, ma ciò sarebbe inammissibile in quanto compiuto a spese della sofferenza di altri esseri viventi.
In realtà le obiezioni a questa visione sono molteplici. Quella più immediata verte sulla considerazione che il cacciatore si diverte sì a scovare e cacciare gli animali, ma va anche detto che egli stesso di tali animali si ciba. Il dato morale quindi si sovrappone a una dimensione di sussistenza da cui evidentemente nessuno, nemmeno il cacciatore, può prescindere. Del resto, non sono proprio gli ambientalisti e gli animalisti che auspicano un deciso ritorno dell'uomo a sentirsi parte della natura? E all'interno della natura non è prevista forse la predazione, pratica a cui del resto pure la vecchia civiltà contadina dei nostri avi ricorreva senza farsi troppi problemi?
Più in generale, tenendo per buona la sensibilità moderna che reputa inaccettabili le sofferenze degli animali -quindi ponendoci dal punto di vista dei detrattori della caccia- cerchiamo di vedere quali potrebbero essere le alternative ai fini della sussistenza dell'uomo. E vediamo soprattutto se tali alternative siano realmente meno disumane della caccia. La nostra tesi infatti è che non sia affatto così, e che nessuna delle alternative alla caccia sia naturale quanto la caccia stessa. Anche partendo quindi dal punto di vista di chi la caccia reputa inaccettabile, vedremo che -ugualmente- la caccia risulta essere la pratica meno disumana che c'è.

Le alternative alla caccia sono sostanzialmente due: o l'allevamento o l'abolizione del consumo di carne. L'allevamento industriale non può essere certo ritenuto un'alternativa morale in quanto esso è molto più disumano della caccia: l'animale viene ucciso ugualmente -e spesso da macchine e con sofferenze molto peggiori dell'animale che viene abbattuto con il fucile- ma in compenso vive in condizioni disumane, aberranti, maturando disturbi psichici e del comportamento che non sono certo tipici degli animali. L'animale cacciato invece fino al momento della sua morte vive secondo natura nel suo habitat naturale. Che l'allevamento intensivo sia di gran lunga più disumano della caccia pare evidente, e non vale la pena dilungarsi oltre. Esiste però anche l'allevamento al pascolo, che però per la nostra questione non si presenta molto differente: la vita "bucolica" lo avvicina alla condizione dell'animale selvatico, e per quanto riguarda il consumo di carne, neppure in questo caso l'animale si offre volontario per la propria macellazione. Fin qui, in niente la pratica della caccia è più crudele.
Abolire del tutto il consumo di carne e rendere vegetariana l'umanità intera è la seconda alternativa. La motivazione più diffusa consiste nel recuperare un senso di appartenenza alla natura, all'ecosistema, che dal mondo moderno è stato stravolto. In effetti che il consumo di carne abbia raggiunto negli ultimi decenni livelli patologici è ormai chiaro, e sarebbe auspicabile una sua drastica diminuzione. Ma lo scenario della sua completa eliminazione non rappresenta certo il ritorno ad una condizione naturale: le società a contatto con la natura -dalle civiltà contadine ai popoli primitivi- prevedono, oltre all'agricoltura, anche pastorizia e caccia, e non conoscono certo la loro rinuncia, nè per motivi salutistici nè per motivi etici. La contaminazione dell'etica con la vita agreste invece non ha nulla di naturale, bensì rappresenta la sovrapposizione della sensibilità artificiale moderna al mondo contadino e la sua indebita estensione: se il contadino del passato non eccedeva nel disboscare e nel cacciare, non è certo per motivi etici nè per presunti diritti degli animali o delle piante, ma per il buon senso che gli suggeriva che se si stravolge la natura con i suoi cicli, poi sarà essa a stravolgere noi!
Il vegetarianesimo universalista trova però recentemente un maggiore fondamento nell'affermazione per cui l'uomo per natura sarebbe erbivoro e non onnivoro, sicchè il consumo di carne avrebbe un'origine esclusivamente culturale, sulla base dell'eredità delle sue abitudini da cacciatore. Infatti confrontando le caratteristiche fisiologiche di erbivori e carnivori, l'uomo per alcuni aspetti avrebbe più somiglianze con gli erbivori che con i carnivori o gli onnivori (vedi per esempio la lunghezza dell'intestino). Qui in realtà la questione si fa delicata e nei contenuti e nei princìpi: intanto, ammesso che si tratti solo di cultura, l'uomo vive di cultura tanto quanto di natura, e non è che la cultura la si possa cambiare a piacimento! La cultura dell'uomo -come ogni sua eredità- contribuisce all' "essere uomo" tanto quanto la sua natura, e l'uomo moderno dovrebbe imparare a rispettarla tanto quanto venera le scoperte "naturali" della scienza, che invece vengono imposte con una violenza che di naturale non ha nulla.
L'uomo è oltretutto un essere troppo complesso perchè lo si possa comprendere sulla base di semplici -e semplicistiche- analogie fisiologiche. Tralasciando il fatto che la salute e il benessere dell'uomo contemplano anche aspetti psicologici e culturali, e non solo materiali e biologici -e questo basterebbe a giustificazione del fatto che ognuno mangi quello che gli pare, essendo libero anche di fregarsene dei parametri salutistici- resta da considerare che l'uomo si è evoluto nel corso dei millenni come raccoglitore e cacciatore insieme, cioè come onnivoro. Le somiglianze con gli erbivori sono sempre dati parziali e interpretabili: l'uomo si è evoluto mangiando carne cotta, non cruda, ed è forse per questo che, pur restando onnivoro, non ha denti come quelli dei carnivori nè il loro intestino corto.
In ogni caso, non è certo perchè ce lo dicono i tecnici che noi cambieremo le nostre abitudini alimentari: non ha niente di naturale cambiare il proprio menu perchè me lo dice un esperto quando magari la mia sensibilità e il mio gusto mi porterebbero a fare il contrario! (e questo anche se dovesse saltare fuori dalle ricerche scientifiche che il vegetarianesimo migliora la salute...). Anzi, semmai questa è l'esaltazione dell'artificialità tecnocentrica tipica della modernità, utilitarista ed efficientista, che vuole ottimizzare tutto spostando in continuazione i suoi eccessi da un ambito all'altro.
E alla fine un'umanità di vegetariani integrali -vi siano alla base motivazioni etiche o salutistiche, non cambierebbe nulla- non avrebbe nulla di naturale, e risulterebbe essere disumana non meno delle odierne nevrosi carnivore, perchè costringerebbe l'uomo, magari con massicce opere di "sensibilizzazione" da parte di scuola e mass media, a comportamenti artificiali, indotti e condizionati dall'esterno, certamente non naturali, assai meno che inseguire e cacciare un animale, e poi mangiarselo.
Appare chiaro da quanto detto sopra, che è difficile attribuire alla pratica della caccia più crudeltà di quanta ve ne sia nelle sue presunte alternative. La caccia è forse la pratica più naturale che esista per quanto riguarda la sussistenza umana, oltre ad essere la più antica. Questo poi senza considerare tutte le implicazioni sociali, culturali e religiose che tale pratica ha sempre avuto nella storia dell'umanità (e di cui dalla modernità è stata in buona parte svuotata).
In ogni caso, resta inteso che la nostra è una difesa di principio: ci rendiamo conto che un ritorno indiscriminato alla caccia è improponibile ai nostri giorni, per vari motivi, ed è giusto che a tutt'oggi venga regolamentata. La nostra invettiva però è rivolta a tutti coloro che vorrebbero eliminarla, e, per questo, è importante essere consapevoli della battaglia ideologica che viene portata contro tutte le pratiche che moderne non sono, e difendersi dalle menzogne che ne conseguono. Per fare un esempio, l'uomo comune è convinto che la responsabilità della distruzione dell'equilibrio dell'ecosistema animale sia da attribuire alla caccia, mentre in realtà il grosso è dovuto alla cementificazione, all'uso dei pesticidi e all'industrializzazione. Tuttavia, anche a seguito della conoscenza della verità, la caccia viene condannata, l'industrializzazione no.
L'avversione moderna verso la caccia è invece la conseguenza di un pregiudizio ideologico. L'uomo moderno rifugge dalla violenza, ma solo da quella visibile ed immediata, che in fin dei conti è quella meno pericolosa: la violenza nascosta, subdola -il condizionamento indotto e il lavaggio del cervello quotidiano- che costringe a comportamenti innaturali e forzati, e che conduce ad esiti alla lunga più distruttivi, viene da lui tollerata. E questo perchè egli non è più in grado di sentire e vedere la natura in tutti i suoi molteplici aspetti, i quali, buoni o cattivi che siano, costituiscono sempre una guida; lasciata la quale, in buona o in cattiva fede, egli non fa altro che costruire mostruosità.