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Noi che amiamo solo… Endrigo

di Marco Iacona - 26/09/2010


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Nato a Pola, in Istria, quando la cittadina era italiana (ora, come si sa, è croata), ad appena 14 anni, nel fatale 1947, Sergio Endrigo sarà sfortunato protagonista di quella pagina nera della storia nota come “esodo istriano” (in poche parole: l’abbandono delle terre da parte degli italiani del confine orientale dopo il trattato di pace). Anche da adulto Endrigo non dimenticherà mai quanto penoso fosse stato il suo destino, insieme a quello dei familiari e di migliaia di corregionali sfuggiti al nuovo regime jugoslavo. La canzone che dedicherà alla storia della sua famiglia alla fine degli anni Sessanta (il titolo è emblematico “1947”), è colma di tristezza (ecco: è la parola giusta), una poesia semplice e diretta che arriva al fondo del cuore di chi la ascolta, ancora oggi: «Come vorrei essere un albero / Che sa dove nasce e dove morirà…». Endrigo non aveva neanche quarant’anni quando scriveva versi carichi di nostalgia verso i luoghi d’infanzia che simboleggiarono, per anni, una nazione ferita dalla guerra: «Da quella volta non l’ho rivista più / È troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più mi riconoscerà…». Da bambino era stato mascotte della X-Mas come molti ragazzini della zona di confine orientale, da adulto però si avvicinerà alla sinistra, ma anche qui, come molti, non per convinzioni ideologiche (non amava Marx e figliocci vari), ma per ragioni di giustizia sociale e perché mal sopportava la verve bacchetona della Democrazia Cristiana. Sarebbe difficile fare di Endrigo un cantante fortemente politicizzato come ce ne furono tanti negli anni “caldi” della nostra storia.  
In precedenza era stato un profugo (parola orribile, che però rende chiara l’idea di una condizione di grande sofferenza) a Brindisi e poi nella vicina Venezia; ma non per questo, anzi, la sua sensibilità tarderà a esplodere. Alla fine degli anni Cinquanta comincerà a incidere dischi su dischi e il suo sguardo aperto sul mondo e alle culture del mondo – da quella sudamericana a quella orientale – lo condurrà alla collaborazione con Pier Paolo Pasolini, Rafael Alberti e il premio oscar Luis Bacalov. Scusate se è poco. A scoprirlo, lui poverissimo, era stato il “talent-scout” Nanni Ricordi. Inizialmente sconosciuto, Endrigo firmerà i testi con uno pseudonimo (è il caso della celebre “Io che amo solo te” del 1962), poi però a metà degli anni Sessanta giungeranno i primi veri riconoscimenti. Sarà un crescendo, anno dopo anno. I quaranta-cinquantenni lo ricorderanno bene.
E oggi? Oggi Endrigo viene considerato un autore serioso – poco brillante – i cui testi trattavano temi noiosi, per nulla “eccitanti”, intimisti. Un uomo sfiduciato. Nulla a che vedere con lo “ye ye” e filiazioni varie o con auto che viaggiavano a “cento all’ora” o baci “rock” o roba ritmata e apertamente “ribelle” che dai Sessanta in poi andava infiammando il pubblico giovanile. Un ambiente musicale e “culturale” che negli anni Settanta non apprezzava le espressioni sobrie e misurate finirà poi per non accettare più il suo stile garbato, la sua voce intonata. E quello che oggi potrebbe essere considerato l’Aznavour italiano o essere affiancato a Fabrizio De Andrè e Giorgio Gaber come un grande innovatore (ma nel solco di una “tradizione” ove non tutto era da buttare), col tempo cadrà quasi nel dimenticatoio. Incredibile. Ma accanto a canzoni (splendide!) come “Te lo leggo negli occhi”, Endrigo firmerà brani come “Teresa” (era il 1965), autentiche perle di un repertorio musicale senza barriere formali e “ideali”. In stile ancora tradizionale potremmo dire, ma di gran “peso” per il valore del testo. Non per niente, e la figlia Claudia lo ricorda spesso, censurata dalla Rai in anni nei quali una parola o un verso di troppo avrebbero significato guai seri per artisti di qualsiasi provenienza.
Di episodi da ricordare ce ne furono tanti altri nella carriera del cantautore di Pola. Nel 1968 vinse Sanremo con la canzone scritta da Sergio Bardotti “Canzone per te”. Fu una delle edizioni più difficili del “festival dei festival” (per la cronaca: la prima presentata da Baudo e la prima dopo la morte di Luigi Tenco). Per molto tempo girò voce che la vittoria di Endrigo fosse quasi un risarcimento per la canzone cosiddetta d’autore dato l’esito drammatico dell’anno precedente, in realtà il brano endrighiano del ’68 è uno degli ultimi testi sanremesi che il grande pubblico ricorderà a lungo, fino agli anni Ottanta di Eros Ramazzotti. Un brano semplice, con frasi semplici senza “effetti speciali” (che tanto sarebbero piaciuti negli anni a venire), come semplici furono, in periodi in cui la semplicità cominciava a essere un peso troppo grave da sostenere (quasi contro-rivoluzionario), i due brani coi quali Endrigo arrivò secondo e terzo a Sanremo, nel 1969 e nel 1970: “Lontano dagli occhi” e l’ancor più celebre “Arca di Noè”, che procurò un mezzo terremoto fra i critici. Non si trattava più di una canzone d’amore (una vera novità), ma di un brano per metà ecologista, per metà semi-apocalittico che tanto disturbò gli intellettuali del tempo, forse meno “preparati” di quel che si potrebbe pensare ai mutamenti nei costumi… Lietta Tornabuoni scrisse addirittura che la canzone era stata copiata da lavori di Marinetti e Garcia Lorca (pensa te però a quel tempo cos’era il festival di Sanremo…). Nel 1971 infine Endrigo (ma non sarà la sua ultima partecipazione al festival), presenterà “Una storia”; e proprio per evidenziare la sua apertura alle novità (mai stato un artista con la puzza sotto al naso, come ce ne sono tanti in giro), andò al festival in abbinamento ai grandi New Trolls che fecero della sua canzone anche una versione in rock progressivo (dati i tempi era abbastanza normale).
Gli anni Settanta, gli incredibili Settanta, sono gli anni in cui l’Endrigo autenticamente anticonformista (ormai possiamo dirlo) si occupa dei bambini (quello delle incisioni di dischi per l’infanzia è un altro bel capitolo della sua storia, ricordiamo fra tutte quella di Gianni Rodari: “Ci vuole un fiore”, per decenni quasi un “tormentone”) e di culture che possiamo definire alternative, “riscopre” difatti il dialetto e le realtà lontane come quelle dell’America Latina dove Endrigo gode peraltro di un grande successo. Nell’album del ’70 “La vita, amico, è l’arte dell’incontro” si celebra un matrimonio forse unico nella storia della musica leggera italiana. Con Toquinho, Vinicius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e naturalmente Endrigo e Bardotti. Ma l’unicità non può essere per tutti (naturalmente). Dimenticato negli anni Ottanta, nei Novanta Endrigo affiderà i suoi sfoghi a un’intervista all’“Unità” (contro l’industria musicale che lo trascurava), e a un romanzo provocatorio uscito nel 1995 (“Quanto mi dai se mi sparo?” – Stampa Alternativa). Nel Terzo millennio finalmente una luce di “riscoperta”, prima Franco Battiato che inciderà due brani di Endrigo inserendoli nel suo lavoro “Fleurs” (“Aria di neve”, “Te lo leggo negli occhi”), poi (2002) il club Tenco gli dedicherà un omaggio con la presenza di grandi artisti italiani (fra cui Roberto Vecchioni).
Endrigo si spegneva cinque anni fa, settantaduenne, per un tumore al polmone. È stato uno dei più grandi cantanti della nostra epoca. Quanto tempo ci vorrà per capirlo?