Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Pitagora e la Magna Grecia: il tabù della fava

Pitagora e la Magna Grecia: il tabù della fava

di Franzina Ancona - 05/10/2010


“Pitagora e La Magna Grecia” di Mario Moretti proposta dal Centro Teatrale Meridionale è uno spettacolo fortemente voluto dal suo direttore, Domenico Pantano, qui anche protagonista. In scena al Quirino, un teatro che sotto l’impulso di Geppy Gleijeses ha trovato un nuovo inserimento nella realtà culturale più vitale di Roma, fucina di idee che attrae irresistibilmente fasce di pubblico nuovo, con gli spazi che diventano flessibili e si aprono ad una fruizione totale, luogo di sosta praticamente sempre aperto (18 ore al giorno) con novità inedite per la nostra Capitale, un café bistrot, ampie e comode poltrone, libri messi a disposizione per chi vuole approfondire le propria conoscenza.
Uomo paradosso, Pitagora, personaggio tra realtà e mito, la cui esistenza si invera nelle memorie di una scuola, quella dei pitagorici - medici, scienziati, filosofi, matematici -, che a lui fa riferimento e nelle memorie di alcuni studiosi del tardo neoplatonismo e neo pitagorismo che contribuiscono a creargli addosso la leggenda, e affermano che egli era addirittura figlio di Apollo. Memorie che sono diventate scrittura solo secoli dopo la sua morte, vera o presunta che sia. Allora, Pitagora sarebbe nato a Samo nella prima metà del VI° secolo avanti Cristo, e lì sarebbe stato discepolo del celebre Anassimandro, il filosofo allievo di Talete che aveva individuato l’origine di tutte le cose nell’apeiron, l’infinito. Dalla sua Samo, Pitagora si sarebbe in seguito trasferito a Crotone, una delle più stimolanti città della Magna Grecia dove intorno al 530 a.c. avrebbe fondato la sua scuola. Nel suo nome prende l’avvio tutta una fenomenologia filosofica/ religiosa, e un  approccio matematico nuovo che permette una lettura dell’universo su basi allora sconosciute. Il numero allora diventa elemento essenziale di tutte le cose, fondamento dell’armonia, notazione della musica che circonda l’essere vivente e via privilegiata per la purificazione spirituale. Un pilastro del suo pensare è l’antitesi soma/sema che collega la pesantezza con il corpo materiale e la vuole tendente alle supreme ed eccelse vette indicate dall’armonia musicale dell’universo. E c’è il Pitagora misterico,  collegato ai culti dionisiaci fra le menadi eccitate di sangue che straziano le carni, e il supremo cantore Orfeo, martire, elemento di congiunzione fra le tradizioni greche e il culto barbarico di Dioniso, che, in una speculazione che fa protagonista la metempsicosi, favorisce l’ascesi e libera l’anima dalle trasmigrazioni successive. C’è ancora il Pitagora matematico che si esalta delle scoperte e può alla fine affermare che l’universo è costruito sulla geometria e allora eccolo puntare il faro della speculazione sul triangolo rettangolo del celebre teorema che per primo postula come la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è equivalente all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa. E dà la stura a ben 370 dimostrazioni che diventano il fil rouge che dall’antica epoca si snoda fino ad oggi, da Euclide (il primo che ne diede dimostrazione), passando per Fibonacci, Leonardo da Vinci, fino a James Garfield (il 20° presidente degli Stati Uniti nato nel 1831 e morto nel 1881), e alle più recenti messe a punto da alcuni adolescenti. “La figura di Pitagora emerge dal passato con la prepotenza del mito in un mondo che non ha mai fatto a meno di santi e di eroi come di profeti veri e di profeti falsi, di guru autentici e di cialtroni truccati da guide spirituali”, scrive Mario Moretti nelle note che accompagnano il testo teatrale. E racconta di come si sia immerso spesso nel mare delle biografie dando vita teatrale a personaggi come Campanella, Socrate, in comunione con Domenico Pantano, che ha vocazione specifica ad interpretarli, a farli rivivere. Il lavoro su Pitagora, reso difficile dalla mancanza di notizie documentate, dà a Moretti l’estro di un incipit abbastanza inconsueto. Egli fa un rivoltamento storico, se così si può dire, e, poiché una tradizione racconta che Pitagora sarebbe morto per un attacco di favismo, fa partire il suo dramma proprio dalla fava, dai suoi significati estesi in un rigoglioso campo semantico che la vede emblema della sessualità femminile/maschile rappresentandone i genitali, ma anche forte stimolo scatologico, collegato con le viscere e l’espulsione delle feci. Perché Pitagora avversava fortemente le fave fino al punto da non volerne toccare i frutti e si ammantava della sua superstizione costringendo gli allievi a constatare la natura eretta della pianta e speculare sui suoi significati più segreti. Sul palcoscenico, dove Mario Moretti si muove come regista, troneggiano due scale identiche di rame, elementi che muovendosi permettono di creare continuamente spazi nuovi. Qui si svolge una sorta di metateatro con tale prof. Bellarmino che fa una lezione ai suoi allievi con l’ausilio di proiezioni in movimento. Con loro dovrà ricostruire la vita del filosofo. Lo spettacolo pesca nella cinematografia, da Stanlio e Ollio ad Avatar (parola sanscrita che vuol dire “discesa in terra di una divinità”).
Protagonista è naturalmente Domenico Pantano, bravissimo a sdoppiarsi per dar corpo anche a Pitagora, attorno una serie di personaggi Eraclito, la dolce Timica che si strappa la lingua per non svelare al tiranno di Siracusa Dionigi i segreti del tabù della fava. E poi Teano, la moglie di Pitagora, Eraclito (il caratterista Marcello Perracchio reso popolare al grande pubblico televisivo della serie sul Commissario Montalbano, dove interpreta il medico legale), Cilone, Salmossi, Giordano Bruno, Deino e tanti altri ancora. La compagnia, 11 attori in scena, tutti bravi e fortemente motivati, fra i quali spiccano la bellezza e la qualità interpretativa di Grazia Schiavo e la presenza di Saverio Vallone, è costretta ad indossare più ruoli e lo fa magistralmente. Lo spettacolo è denso di significati, di colpi di scena, di musiche ben scelte, di proiezioni accurate, evocative e fantasiose, a volte di opere pittoriche, altre di paesaggi in movimento. Non c’è un attimo di sospensione, né di pesantezza. Tutto questo alla fine produce la giusta mercede di lungi e convinti applausi.
“Pitagora e La Magna Grecia” di Mario Moretti proposta dal Centro Teatrale Meridionale è uno spettacolo fortemente voluto dal suo direttore, Domenico Pantano, qui anche protagonista. In scena al Quirino, un teatro che sotto l’impulso di Geppy Gleijeses ha trovato un nuovo inserimento nella realtà culturale più vitale di Roma, fucina di idee che attrae irresistibilmente fasce di pubblico nuovo, con gli spazi che diventano flessibili e si aprono ad una fruizione totale, luogo di sosta praticamente sempre aperto (18 ore al giorno) con novità inedite per la nostra Capitale, un café bistrot, ampie e comode poltrone, libri messi a disposizione per chi vuole approfondire le propria conoscenza.
Uomo paradosso, Pitagora, personaggio tra realtà e mito, la cui esistenza si invera nelle memorie di una scuola, quella dei pitagorici - medici, scienziati, filosofi, matematici -, che a lui fa riferimento e nelle memorie di alcuni studiosi del tardo neoplatonismo e neo pitagorismo che contribuiscono a creargli addosso la leggenda, e affermano che egli era addirittura figlio di Apollo. Memorie che sono diventate scrittura solo secoli dopo la sua morte, vera o presunta che sia. Allora, Pitagora sarebbe nato a Samo nella prima metà del VI° secolo avanti Cristo, e lì sarebbe stato discepolo del celebre Anassimandro, il filosofo allievo di Talete che aveva individuato l’origine di tutte le cose nell’apeiron, l’infinito. Dalla sua Samo, Pitagora si sarebbe in seguito trasferito a Crotone, una delle più stimolanti città della Magna Grecia dove intorno al 530 a.c. avrebbe fondato la sua scuola. Nel suo nome prende l’avvio tutta una fenomenologia filosofica/ religiosa, e un  approccio matematico nuovo che permette una lettura dell’universo su basi allora sconosciute. Il numero allora diventa elemento essenziale di tutte le cose, fondamento dell’armonia, notazione della musica che circonda l’essere vivente e via privilegiata per la purificazione spirituale. Un pilastro del suo pensare è l’antitesi soma/sema che collega la pesantezza con il corpo materiale e la vuole tendente alle supreme ed eccelse vette indicate dall’armonia musicale dell’universo. E c’è il Pitagora misterico,  collegato ai culti dionisiaci fra le menadi eccitate di sangue che straziano le carni, e il supremo cantore Orfeo, martire, elemento di congiunzione fra le tradizioni greche e il culto barbarico di Dioniso, che, in una speculazione che fa protagonista la metempsicosi, favorisce l’ascesi e libera l’anima dalle trasmigrazioni successive. C’è ancora il Pitagora matematico che si esalta delle scoperte e può alla fine affermare che l’universo è costruito sulla geometria e allora eccolo puntare il faro della speculazione sul triangolo rettangolo del celebre teorema che per primo postula come la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è equivalente all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa. E dà la stura a ben 370 dimostrazioni che diventano il fil rouge che dall’antica epoca si snoda fino ad oggi, da Euclide (il primo che ne diede dimostrazione), passando per Fibonacci, Leonardo da Vinci, fino a James Garfield (il 20° presidente degli Stati Uniti nato nel 1831 e morto nel 1881), e alle più recenti messe a punto da alcuni adolescenti. “La figura di Pitagora emerge dal passato con la prepotenza del mito in un mondo che non ha mai fatto a meno di santi e di eroi come di profeti veri e di profeti falsi, di guru autentici e di cialtroni truccati da guide spirituali”, scrive Mario Moretti nelle note che accompagnano il testo teatrale. E racconta di come si sia immerso spesso nel mare delle biografie dando vita teatrale a personaggi come Campanella, Socrate, in comunione con Domenico Pantano, che ha vocazione specifica ad interpretarli, a farli rivivere. Il lavoro su Pitagora, reso difficile dalla mancanza di notizie documentate, dà a Moretti l’estro di un incipit abbastanza inconsueto. Egli fa un rivoltamento storico, se così si può dire, e, poiché una tradizione racconta che Pitagora sarebbe morto per un attacco di favismo, fa partire il suo dramma proprio dalla fava, dai suoi significati estesi in un rigoglioso campo semantico che la vede emblema della sessualità femminile/maschile rappresentandone i genitali, ma anche forte stimolo scatologico, collegato con le viscere e l’espulsione delle feci. Perché Pitagora avversava fortemente le fave fino al punto da non volerne toccare i frutti e si ammantava della sua superstizione costringendo gli allievi a constatare la natura eretta della pianta e speculare sui suoi significati più segreti. Sul palcoscenico, dove Mario Moretti si muove come regista, troneggiano due scale identiche di rame, elementi che muovendosi permettono di creare continuamente spazi nuovi. Qui si svolge una sorta di metateatro con tale prof. Bellarmino che fa una lezione ai suoi allievi con l’ausilio di proiezioni in movimento. Con loro dovrà ricostruire la vita del filosofo. Lo spettacolo pesca nella cinematografia, da Stanlio e Ollio ad Avatar (parola sanscrita che vuol dire “discesa in terra di una divinità”).
Protagonista è naturalmente Domenico Pantano, bravissimo a sdoppiarsi per dar corpo anche a Pitagora, attorno una serie di personaggi Eraclito, la dolce Timica che si strappa la lingua per non svelare al tiranno di Siracusa Dionigi i segreti del tabù della fava. E poi Teano, la moglie di Pitagora, Eraclito (il caratterista Marcello Perracchio reso popolare al grande pubblico televisivo della serie sul Commissario Montalbano, dove interpreta il medico legale), Cilone, Salmossi, Giordano Bruno, Deino e tanti altri ancora. La compagnia, 11 attori in scena, tutti bravi e fortemente motivati, fra i quali spiccano la bellezza e la qualità interpretativa di Grazia Schiavo e la presenza di Saverio Vallone, è costretta ad indossare più ruoli e lo fa magistralmente. Lo spettacolo è denso di significati, di colpi di scena, di musiche ben scelte, di proiezioni accurate, evocative e fantasiose, a volte di opere pittoriche, altre di paesaggi in movimento. Non c’è un attimo di sospensione, né di pesantezza. Tutto questo alla fine produce la giusta mercede di lungi e convinti applausi.