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La musica dance merita tutto il disprezzo che le riservano i critici «impegnati»?

di Francesco Lamendola - 07/11/2010


Esprimere giudizi di valore nella musica leggera contemporanea è una faccenda complicata; perché in essa non esistono delle categorie estetiche più o meno universalmente accettate, come per le altre forme di espressione artistica ormai codificate, cinema compreso.
Si tratta di una galassia di fenomeni in continua espansione, rielaborazione e trasformazione, inestricabilmente legata, da un lato, a uno specifico settore industriale (ma la stessa cosa si potrebbe dire del cinema e, in parte, dell’editoria), dall’altro alla fruizione di massa e quindi alle mode, specialmente quelle del tempo libero, nonché a problematiche generazionali legate al bisogno psicologico di costruzione dell’identità, soprattutto in fase adolescenziale.
Separare tutti questi fattori dall’aspetto propriamente estetico è cosa estremamente ardua, per non dire impossibile; sarebbe come pretendere di valutare la dimensione artistica di una scultura egiziana o di una pittura etrusca, estrapolandole completamente dal loro contesto culturale - ciò che in verità facciamo impunemente nei nostri tristissimi ed asettici musei che, appunto, odorano di cose morte e che accatastano, con involontario surrealismo, le produzioni più disparate dal punto di vista storico, geografico ed estetico, e il risultato è quello che sappiamo: una tremenda indigestione che ha ben poco di culturale e assolutamente nulla di artistico.
In particolare, è difficile esprimere un giudizio sulla musica dance, ossia su quel sottogenere musicale che, derivato dalla disco music elettronica degli anni Ottanta del secolo scorso, è genericamente orientata alla fruizione come musica da ballo in discoteca e non come musica da ascoltare semplicemente. Le sue caratteristiche sono un po’ quelle stesse della musica pop, di cui rappresenta uno dei filoni principali: spiccata orecchiabilità; uso predminante della melodia; ritmica semplice e altrettanta semplicità dei testi; sottofondo poco elaborato; strofe alternate al ritornello (il cosiddetto “formato canzone”).
Si tratta, evidentemente, di un genere musicale senza pretese di profondità e originalità; ragion per cui, da sempre, i critici musicali “seri” e “impegnati”, culturalmente sofisticati, non lesinano nei suoi confronti il più superbo disprezzo, quasi fossero infastiditi dai momenti di serenità che esso può regalare alla gente; e gli rovesciano addosso tutti gli insulti possibili, in particolare quello di essere fondamentalmente stupido, grossolano, insignificante, banale e intollerabilmente kitsch.
D’altra parte, è piuttosto chiaro che non si può criticare qualcosa o qualcuno, né tanto meno sparare a zero, se non si è prima stabilito un criterio di valutazione o, più in generale, un sistema valoriale in base al quale distinguere nettamente ciò che ha significato da ciò che ne è privo o ne difetta gravemente. Vogliamo dire che non si può giudicare inutile e stupido uno schiaccianoci, per il fatto che non si presta a spremere gli agrumi; né si può giudicare banale e insulso un giornalino a fumetti, per il fatto che non si innalza ai livelli di significato della «Divina Commedia».
Ebbene, a noi sembra che, di fronte a fenomeni come la musica pop o la musica dance, non si debba adottare un criterio di valutazione facente riferimento alla musica d’autore e, in generale, alla musica colta contemporanea, perché si tratta chiaramente di due generi diversi; bensì un criterio che tenga conto solo ed esclusivamente della sua musicalità nell’ambito che le è proprio, ossia quello dell’intrattenimento e, appunto, del ballo.
Bisogna essere chiari su questo punto e, soprattutto, onesti. Quello che conta non è se la musica pop o la musica dance possano veicolare elaborazioni musicali di alto livello e impiegare testi letterari di elevata qualità: non è quello il loro scopo e non è quella la loro natura; quello che conta è se essa espleti degnamente, cioè dignitosamente dal punto di vista della musica da intrattenimento, la propria funzione nell’ambito che le compete.
Quello su cui abbiamo da ridire, e su cui crediamo sia legittima una critica anche molto severa, è la mancanza di onestà intellettuale, in questo come in ogni altro campo. Pertanto troviamo che sia criticabile una musica leggera che ostenti le forme esteriori, sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista dei testi, della musica d’autore: la ricercatezza formale, il rifiuto della melodia, la profondità e l’originalità letteraria; ma che, in realtà, si caratterizzi come una astuta contraffazione della musica d’autore e come una caricatura del discorso musicalmente impegnato.
Un tipico esempio di questa disonestà intellettuale, che generalmente sfrutta e cavalca i momenti storici di trapasso e, più specificamente, di “riflusso”, è offerto, a nostro avviso, dalle canzoni della coppia Battisti-Mogol; alla quale si contrappone la serietà autentica, sofferta, poetica, di cantautori come Luigi Tenco. Ne abbiamo già parlato a suo tempo, per cui rimandiamo il lettore desideroso di approfondire la questione a quei nostri precedenti lavori, e specialmente all’articolo «Dalla sofferta poesia di Tenco ai lazzi furbeschi di Battisti-Mogol» (apparso sul sito di Arianna Editrice in data 27/12/2007).
Fissato questo criterio fondamentale, semplice ma chiaro e trasparente, resta da vedere, ovviamente, caso per caso, quale sia la qualità specifica dei singoli artisti e dei singoli brani che rientrano nelle generiche definizioni di musica pop o di musica dance. Si tratta di un tipico fenomeno mainstream e, come tale, sostanzialmente ambiguo: perché da un lato ricerca il massimo della fruibilità nel pubblico più ampio possibile; dall’altro, tende a scivolare nel “genere” e, pertanto, a scadere, dal punto di vista della critica “esigente”, al livello del prodotto di facile consumo, un po’ come il “giallo” o il” rosa” nel caso della letteratura.
In ogni caso, la domanda che ci si dovrebbe porre non è se questo genere di musica “popolare” sia profonda o banale, se sia intelligente o stupida; ma se la sua orecchiabilità e la sua “facilità”, volute programmaticamente, debbano necessariamente corrispondere ad una insignificanza musicale e ad una inevitabile povertà dei testi.
Perciò, senza timore di esagerare, e volendo scendere sul terreno degli esempi concreti, riteniamo che chi non abbia mai apprezzato la scioltezza, la leggerezza e la freschezza di canzoni come «I love you baby» di Gloria Gaynor, «Doctor’s order» di Carroll Douglas, «Rock your baby» di George McCrae e «Never too late» di Kylie Minogue (la Minogue “prima maniera”, a nostro avviso molto più interessante di quella che, negli ultimi anni, è giunta ad uno strepitoso successo mondiale, ma perdendo quella gradevolissima patina di nostalgica ingenuità anni Cinquanta), non si pone in modo onesto di fronte al fenomeno della moderna musica popolare: pretende, cioè, consciamente o inconsciamente, di valutarlo, giudicarlo e condannarlo in base a categorie, estetiche e culturali, che non le sono proprie.
Più in generale, crediamo che sarebbe ora di veder scendere i nostri superciliosi critici musicali - così come, del resto, quelli letterari e cinematografici - giù dalla loro «turris eburnea» ed avere l’umiltà di mettersi un poco in sintonia con quel che piace alla gente, beninteso entro i limiti del buon gusto, della professionalità e della limpidezza e coerenza del discorso musicale.
Il paragone con la pop art sorge spontaneo, ma rischia di essere fuorviante; perché, in quel caso, non si tratta di un’arte senza troppe pretese, che voglia semplicemente intrattenere e che sappia farlo in maniera trasparente, ma di una furba operazione pseudo culturale, intesa a spacciare per prodotti artistici delle tecniche grafiche e pittoriche che si limitano a ricalcare i moduli pubblicitari, aggiungendovi solo la malizia di una pretesa rivisitazione in chiave ironica o addirittura di critica sociopolitica.
Andy Warhol, ad esempio, non è un artista, ma un astuto impresario di se stesso, che, prendendo a prestito la poetica del gioco di parole derivante da alcuni aspetti dell’opera di René Magritte, impresta una vernice di rivisitazione “colta” ai prodotti seriali del genere pubblicitario: la sua non è, pertanto, una critica del kitsch o una poetica dello straniamento, ma una banale ripetizione dei procedimenti stereotipati della grafica pubblicitaria, contrabbandati per chissà quale formula capace di far esplodere le contraddizioni inerenti a quel tipo di linguaggio.
E la ragione per cui la critica “alta”, e, più in generale, gli intellettuali politicamente corretti e debitamente progressisti, amavano la pop art e andavano in visibilio per la sua pretesa “demistificazione” delle vuote categorie estetiche dell’arte “borghese”, era esattamente la stessa per cui detestavano la disco music e, in genere, tutta la musica pop: perché essi partivano da una concezione impegnata, o piuttosto pseudo-impegnata, del fatto estetico e non potevano ammettere che si potesse essere più onesti nel fare una musica dichiaratamente “leggera” e disimpegnata politicamente, piuttosto che fingendo chissà quali profondità ma, intanto, strizzando l’occhiolino ai gusti più corrivi di un pubblico con qualche insincera pretesa di originalità e profondità, come faceva, appunto, la coppia Battisti-Mogol.
Il vero kitsch, e l’unico realmente imperdonabile, non è, infatti, quello di chi onestamente si presenta per quello che è, e riesce a fare bene quello che deve fare; ma quello di chi si spaccia per ciò che non è, e tenta di sfruttare sia i vantaggi derivanti dal gradimento di un vasto pubblico, sia quelli inerenti all’essere apprezzato dalla critica di élite.
Insomma, pane al pane e vino al vino: e meglio un discorso cultuale volutamente umile, anzi, un discorso musicale che non abbia alcuna pretesa culturale, ma di semplice intrattenimento, e che tuttavia sappia tenersi su un registro dignitosamente “medio”; piuttosto che un discorso musicale velleitario e insincero, tutto giocato nella zona grigia dove s’incontrano e si sovrappongono le ambizioni di originalità e profondità con la ricerca intenzionale e ammiccante del successo di cassetta.
Quanto a noi, nessuna esitazione nel preferire un brano come «The winner takes it all», degli Abba, che, pur nella sua orecchiabilità e semplicità musicale e testuale, si può considerare un vero e proprio piccolo classico, pieno di poetica malinconia e di nostalgico rammarico, ad uno come «Che ne sai» di Battisti, dove le  magniloquenti astruserie del testo fanno da contraltare alla leccata pretenziosità dell’arrangiamento musicale.
Facendo un discorso di portata più vasta, crediamo sarebbe opportuno che il mondo della cultura “alta”, a cominciare dalla critica, si ponesse con più coerenza, con più lealtà e anche con maggiore umiltà, di fronte alle manifestazioni della musica leggera, deponendo il pregiudizio che solo la musica d’autore sia degna di rispetto o che, in mancanza di questa, lo sia la musica che più tenta di somigliarle, anche se la somiglianza è del tutto furbesca e strumentale.
Tutti sappiamo quale parte politica e culturale abbia fatto recentemente ammenda per il disprezzo a suo tempo riservato alle canzoni di Claudio Baglioni, a causa del loro disimpegno, della loro orecchiabilità e infine, «horribile dictu», del loro “scandaloso” successo di pubblico. Già, perché in Italia vige lo stranissimo pregiudizio per cui, se qualcosa piace alle masse, deve trattarsi per forza di robaccia; mentre, viceversa, per essere un prodotto di qualità, deve piacere solamente a pochi.
Gira e rigira, è sempre il vecchio aristocraticismo deteriore, schifiltoso e supponente, di Petrarca («il vulgo, a me sempre odioso et inimico»), ma condito in salsa progressista e, possibilmente - almeno fino a due decenni fa - marxista: ciò che dimostra, ancora una volta, tutta la miseria di un ceto intellettuale che storceva il naso davanti ai libri di Cassola, autenticamente “popolari” e perciò belli e ben scritti, ma al tempo stesso schivi ed alieni da ogni demagogia, anzi volutamente minimalisti; mentre andava in estasi per quelli di Moravia, che, da autentico progressista, toccava impunemente tutte le corde del kitsch, dal ribellismo velleitario de «I conformisti», al drammone storico e psicologico de «La ciociara», alla pornografia pura e semplice di «Io e lui», senza peraltro disdegnare l’abile contaminazione di tutti questi generi, come in «1934».
Questo è un problema specificamente italiano, anche se si propone, magari in forme meno stridenti, anche negli altri Paesi occidentali.
Il fatto è che la cultura della modernità, pur essendo giunta alle battute finali, non è stata capace di guardarsi dentro con onestà intellettuale e di riconoscere ciò che andava valorizzato e ciò che meritava di essere gettato, di tutta quella disordinata marea di prodotti e sottoprodotti da essa scaraventati sul mercato; né interrogarsi fino in fondo, per comprendere che cosa veramente odiava e che cosa le piaceva, e perché.
Forse, se lo avesse fatto, avrebbe scoperto qualche verità di troppo su se stessa.