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Le parole per raccontare la bellezza del mondo

di Jean Starobinski - 07/11/2010



Come dire e descrivere la bellezza del mondo? Per far questo, afferma Proust alla fine di Combray, bisogna superare «il disaccordo tra le nostre impressioni e la loro espressione». Ma che cosa significa accordo tra impressione ed espressione? In base a quale criterio si può apprezzarne la giustezza? Proust sa bene che l’emozione non si comunica in virtù della sua sola intensità. Essa deve conquistare i mezzi, verbali o pittorici, che la interpreteranno per manifestarla. Per nascere, i poteri della parola richiedono un percorso di apprendistato, un progresso iniziatico. Il romanzo di Proust, come è ben noto, ripercorre, con gli strumenti della maturità infine raggiunta, tutta la serie semi-fittizia dei tentativi ingenui, degli errori, dei traviamenti, delle ferite che precedettero la chiara consapevolezza del compito da svolgere. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo. La padronanza tardiva è stata pagata con l’accettazione di molte perdite, e soprattutto con l’ammissione del soccorso della memoria involontaria che va di pari passo con l’ascesi volontaria e con il rifiuto di ogni «idolatria». Solo una volta invecchiato, l’adolescente esaltato che avrà ormai attraversato tanti paesaggi, tanti lutti, tante futilità mondane, potrà descrivere con ironia l’emozione provata nei dintorni di Combray alla fine di una giornata in cui il mondo aveva svelato davanti ai suoi occhi un fugace sprazzo della sua bellezza: «Il tetto di tegole creava nello stagno, che il sole aveva reso di nuovo specchiante, una marezzatura rosa alla quale, prima, non avevo mai fatto attenzione. E vedendo che sull’acqua e sulla superficie del muro un pallido sorriso rispondeva al sorriso del cielo, gridai in preda all’entusiasmo, brandendo il mio parapioggia arrotolato: "Accipicchia, accipicchia!" Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto».
Pierre-Auguste Renoir «L’Estaque» 1882. All’inizio degli anni 80 dell’Ottocento, Renoir e Cézanne dipingono talvolta insieme in Provenza. Affrontano il medesimo soggetto paesaggistico da angolazioni diverse e in ore diverse
La testimonianza del ricordo porta con sé, nello stesso istante, un compito etico: il senso di un dovere, e un imperativo di conoscenza, «vedere più chiaro», vengono distintamente percepiti, al di là del trasporto estetico. Il narratore se ne rende conto solo molto più tardi: una sensazione di inquietudine aveva accompagnato l’ebbrezza, incapace di manifestarsi se non attraverso un’esclamazione ripetuta, quasi un grido di dispetto. Il giovane del passato era stato il testimone — affascinato, inerme, colpevole — della bellezza, apparsa tra cielo e terra in un gioco di immagini e di luci. Attraverso la memoria riflessiva, in risposta al ricordo di quella visione, il narratore riconquista lo spettacolo a cui aveva assistito allora e insieme il turbamento che la bellezza del luogo e del momento aveva suscitato in lui. Retrospettivamente, comprende che il dispetto, le esclamazioni banali, il gesticolare ridicolo, erano stati solo gli antecedenti amorfi di ciò che, più tardi, si sarebbe dispiegato, sulla pagina che stiamo leggendo, in una scrittura «letteraria» perfettamente articolata. Il dovere viene tardivamente soddisfatto, la conoscenza è acquisita: giustizia è infine resa a quell’istante miracoloso del passato, quando gli «ori» del sole, succedendo alla pioggia, avevano fuggevolmente rischiarato un angolo di campagna francese quale avrebbe potuto portarlo sulla tela il pennello di Théodore Rousseau o di Claude Monet.
Il primo saluto alla bellezza del mondo, per il giovane Marcel, ha dunque rotto a mala pena il silenzio, o per meglio dire lo ha rotto in maniera così rumorosa da entrare in dissonanza con esso. Fu solo l’esplosione di una gioia confusa, attraversata da un sentimento di insufficienza, e dalla delusione di riuscire a dare a quella bellezza soltanto una risposta afasica. Una risposta del corpo al paesaggio, risposta pienadistupore macieca,prigioniera dell’opacità interiore e di conseguenza incapace di costruire la minima frase simile alla luce esterna. La narrazione offerta ai lettori del testo romanzesco paga dunque un debito antico, consegnando al nostro sguardo la descrizione un tempo impossibile e, contemporaneamente, la raffigurazione ironica di un «io» anteriore, ignorante e meravigliato. Proust fa uso, qui, di una figura retorica di cui si può dire che tutto il suo romanzo è l’illustrazione: la preterizione. Ma si tratta di una preterizione di un tipo molto particolare. Nel suo uso tradizionale, la preterizione consiste nel dire una cosa dichiarando di non volerla dire. È un’astuzia dell’arte oratoria che così finge di giungere più in fretta al termine: «Non ti dico…». Il narratore della Recherche, da parte sua, pratica la preterizione al passato. Descrive un paesaggio, poi una scena, mentre dichiara di non essere stato, allora, in grado di descriverli, di comprenderli, di dargli il loro vero significato. Gli erano sfuggiti. «Non ho saputo dire…». La parola letteraria cerca di riparare una perdita ritrovando (o dichiarando ritrovato) il «tempo perduto» che raccoglie luoghi e persone. L’opera letteraria salda un debito. Espia, in un certo senso, un tempo in cui la verità della sensazione non era stata riconosciuta, e dà voce a una percezione che sul momento non aveva potuto incarnarsi in un’espressione.
Ma esistono descrizioni del paesaggio che non siano preteritive? L’espressione è sempre in ritardo sull’impressione. Proust lo rivela accentuando lo scarto tra i due momenti. Il presente della sensazione non può essere descritto che al passato. E per giunta questo passato è una finzione: quello che leggiamo è un romanzo. Il supremo miraggio letterario consiste nel rendere credibile il gesto che ricattura, nel far credere che lo scrittore non sia interamente passato accanto alla vita, e alla verità.
 Proust non è stato il primo né il solo a sperimentare il «disaccordo» tra ciò che si offre allo sguardo e ciò che il linguaggio è in grado di dire. La distanza è troppo grande, la bellezza troppo inafferrabile, e lo spirito, per quanto faccia esso stesso parte di quel mondo che lo incanta, sente di non avere la forza di registrarlo e di fissarlo. Nella sua Histoire des artistes vivants, Théophile Silvestre riporta un’affermazione di Corot che esprime questa delusione con forza e semplicità: «Quando mi trovo in mezzo alla natura, provo rabbia verso i miei quadri».
La retorica dell’ineffabile, il ricorso sistematico ai prefissi negativi degli epiteti (inesprimibile, indicibile, inaudito...) appartiene sia alla teologia negativa sia al vocabolario che celebra la bellezza del mondo dichiarandola fuori portata per i nostri mezzi espressivi. Questo vocabolario ha l’evidente effetto di segnalare un limite: designa l’ostacolo che ci vieta di metterci sullo stesso piano dell’essere che si manifesta a noi nella sua magnificenza o nella sua estrema delicatezza. Ha la funzione di segnalare che ci sentiamo votati allo scacco perché siamo sensibili a ciò che ci eccede. Ma ricorrendo al prefisso di negazione, che umilia il linguaggio, il nostro spirito si attribuisce implicitamente il potere di riconoscere l’insuperabile, e in tal modo di superarlo. «Saper salutare la bellezza», secondo l’espressione di Rimbaud, significa saper conservare nelle parole stesse il silenzio che ci è imposto da quanto va al di là della nostra esistenza. La descrizione del paesaggio è una delle occasioni in cui la parola letteraria può fare l’esperienza del proprio limite e allo stesso tempo elevarsi fino al «sublime». In Proust, il grido di dispetto è un momento preliminare, che si apre verso il futuro. Ma Proust conosce anche, come molti altri artisti, un grido finale: quello del Marsia scorticato che si intravede in secondo piano in una delle più belle scene pastorali di Claude Lorrain.
Ricordiamo l’ultima frase del poema in prosa intitolato Il confiteor dell’artista: «Lo studio della bellezza è un duello in cui l’artista grida di sgomento, prima di essere vinto». Baudelaire introduce, in un poema in prosa, ovvero nell’opera d’arte stessa, il grido che confessa la disfatta dell’arte. È la versione moderna di ciò che, al di là dell’ineffabile, ritrova l’infandum: l’impronunciabile perché sacro.
 Traduzione di Monica Fiorini