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Un testo letterario straordinario: la «Passione di Perpetua e Felicita»

di Francesco Lamendola - 15/11/2010


Una giovane donna che sogna, alla vigilia della morte sotto le mascelle delle bestie feroci, di essere spogliata e trasformata in maschio, in un gladiatore il cui corpo viene unto d’olio; e di affrontare in duello, davanti alla folla tumultuante, un terribile avversario, un Egiziano che sembra piuttosto una controfigura del Demonio: è solo uno degli elementi fortemente drammatici, fortemente surreali, fortemente - anche - sensuali, se è lecito fare un tale accostamento senza apparire irrispettosi, della «Passio Perpetuae et Felicitatis».

Si tratta di un testo letterario straordinario e assolutamente unico nel panorama della letteratura tardo-latina o, se si preferisce, paleocristiana; unico perfino all’interno di quel particolare genere che sono le «Passiones», narrazioni relative al martirio dei cristiani nel lungo arco di tempo che precedette l’editto di Costantino, che concedeva a questi ultimi la piena libertà di culto.

La sua unicità deriva sia da elementi stilistici e formali, sia da elementi contenutistici.

Sul pano letterario, si tratta di un’opera incentrata intorno al diario personale della protagonista, la nobile Perpetua, sposa e madre, processata a Cartagine al principio del III secolo, durante l’impero di Settimio Severo e condannata a morte insieme alla sua schiava Felicita, anch’ella sposa e in stato di gravidanza, per non aver voluto abiurare alla loro fede cristiana.

La lingua non ha alcuna pretesa letteraria, è molto vicina al “sermo plebeius” sia per la sintassi che per il lessico; eppure, proprio la sua immediatezza, la sua incisività, la sua mancanza di artifici stilistici le conferiscono una forza ed una immediatezza irresistibili, accentuate dalla netta prevalenza della paratassi sulla ipotassi, che conferisce al testo un tono secco, incalzante, efficacissimo sul piano narrativo e drammatico.

Insomma, una vera e propria anticipazione di quello che sarà il volgare della futura lingua italiana: l’italiano che parliamo e che scriviamo oggi è figlio diretto di quest’opera e di altre dello stesso genere, non certo del latino ben tornito e del fraseggiare opulento e risonante di Cicerone, di Plinio il Giovane o di Quintiliano.

Il contenuto è un susseguirsi di visioni, di sogni, di premonizioni pervasi da una potente tensione drammatica, ma anche permeati da una atmosfera onirica, mistica, allucinata, il cui parente più stretto va ricercato, a nostro avviso, in uno dei primi testi della letteratura in volgare, «La vita nuova» di Dante Alighieri, anch’essa intessuta di sogni, visioni, premonizioni: è come se la letteratura latina morente trasmettesse questi caratteri alla nascente letteratura in volgare, gettando un ponte inaspettato e sorprendente fra il III e il XIII secolo.

Ma di tutte le parti che la compongono - il diario di Perpetua; il resoconto di una visione del catechista delle due condannate, Saturo; il racconto delle visioni avute dalle due donne; la descrizione finale del supplizio - è la prima, quella scritta in prima persona da Perpetua (e, forse, ritoccata dallo stesso Tertulliano, che potrebbe essere l’autore della redazione complessiva) che s’impone al lettore per la sua sconvolgente modernità.

In essa, infatti, vediamo una donna di ventidue anni che fa la sua scelta con fermezza virile, uscendo decisamente dagli schemi sociali dell’antica Roma, pur restando nel solco di certe eroine come la virgiliana Camilla o la liviana Clelia; ma quelle erano, appunto, figure letterarie o semileggendarie, mentre Perpetua è una donna in carne ed ossa, che realisticamente si racconta.

A proposito di questa «Passio», così si esprimono Maria Pia Masi e Meri Massi in «Valori e società di Roma antica» (Alice di Orione, 2006, p. 119-20):

 

«Questo testo è considerato un capolavoro del genere e risulta eccezionale, perché nel mondo antico non è consuetudine che una donna parli di sé e scriva, come in questo caso, un breve diario della sua esperienza.

L’efficacia viene confermata dal successo presso i Cristiani e dai numerosi rifacimenti delle “Passiones” africane, tradotte a loro volta in greco: evento raro in quanto i testi greci costituivano un modello per quelli latini. Il genere subisce un’evoluzione accostandosi progressivamente ad altri componimenti narrativi, soprattutto al romanzo, del quale riprende il guasto dell’intreccio e il tono fiabesco. […]

Il linguaggio usato appartiene al latino cristiano e assume caratteristiche peculiari, perché nato all’interno di comunità isolate;  è solo tra il II e il III sec. D. C. che esso acquisterà dignità letteraria grazie alle opere di Tertulliano e di altri apologisti. Con il trionfo del Cristianesimo (IV sec. d. C.) diventerà poi la base linguistica dell’Occidente.

Tale lingua, dovendo esprimere nuovi concetti cristiani, ricorse a prestiti dal greco, come dimostrano le parole”baptista”, “episcopus” ed “ecclesia”, mentre per altri termini operò quello slittamento semantico  che è visibile, per esempio, in “anghelos” (gr.) che dal significato di “messaggero” passa a quello di “messaggero celeste” (“angelus”); “diabolos” (gr.), “calunniatore”, in latino “diabolus” “diavolo” e “martys” (gr.)”testimone”, in latino “martyr” “testimone con la propria vita”.

Altri termini sono mutuati dal latino militare a testimonianza del fatto che i Cristiani si ritenevano appartenenti all’esercito dei difensori di Cristo e combattenti per la fede. Infatti il termine “catecumeni”, con cui indicavano le reclute, designai nuovi convertiti, coloro che si preparavano a ricevere il battesimo [tale era il caso, appunto, di Perpetua e Felicita, nell’anno 203 d. C.].»

 

Ed ecco il brano più impressionante del diario di Perpetua; quello, cui già abbiamo accennato, nel quale ella descrive il sogno che la vede combattente nell’arena, trasformata in uomo:

 

«Pridie quam pugnaremus, video in horomate hoc: venisse Pomponium diaconum ad ostium carceris et pulsare vehementer. Et exivi ad eum et aperui ei; qui erat vestitus discincta candida, habens multiplices galliculas. Et dixit mihi: “Perpetua, te expectamus: veni”. Et tenuit mihi manum, et coepimus ire per aspera loca et flexuosa. Vix tandem pervenimus anhelantes ad ampitheatrum, et induxit me in media arena, et dixit mihi: “Noli pavere: hic sum tecum et conlaboro tecum”. Et abit. Et aspicio populum ingentem adtonitum; et quia sciebam me ad bestias  damnatam esse, mirabar quod non mitterentur mihi bestiae. Et exivit quidam contra me Aegyptius, foedus specie, cum adiutoribus suis, pugnaturus mecum. Venerunt et ad me adolescentes decori, adiutores ef fautores mei. Et expoliata sum, et facta sum masculus; et coeperunt me favisores mei oleo defricare, quomodo solent in agone;  et illum contra Aegyptium video in afa volutantem.»

 

Presentiamo qui di seguito la traduzione di Luigi Rusca (contenuta in Appendice a: Tertulliano, «Apologia del cristianesimo», Milano, Rizzoli, 1956, p. 141):

 

«Nel giorno precedente a quello del combattimento ebbi la seguente visione.

Era giunto il diacono Pomponio alla porta del carcere e bussava forte: andai da lui e gli aprii: era vestito di candida veste e calzava piccoli zoccoli. E mi disse: “Perpetua, aspettiamo te, vieni”.

Mi tenne per mano e cominciammo a camminare per luoghi aspri e tortuosi. Finalmente giungemmo con fatica e anelanti all’anfiteatro, egli mi fece entrare nell’arena e mi disse: “Non aver paura, io sono qui vicino a te e ti aiuto”. E scomparve.

Vidi allora una grande folla, attonita: e, sapendomi condannata alle fiere, mi meravigliavo che queste non mi fossero aizzate contro. Venne verso di me un certo Egiziano, terribile a vedersi, con i suoi aiutanti, per combattere contro di me. Intorno a me vengono giovani di bell’aspetto, aiutati e partigiani miei.

Venni spogliata e diventai maschio: e quei miei favoreggiatori cominciarono a spalmarmi d’olio come si fa per la lotta: invece vidi quell’Egiziano ravvoltolarsi nella povere.»

 

Ecco qui una donna che parla in prima persona, in un mondo di uomini; e lo fa con assoluta franchezza, come se non avesse alcuna difficoltà a mostrare anche gli angoli più riposti della sua anima.

Ecco una sposa, che rifiuta di tacere e obbedire agli uomini di casa: il marito, pallida figura pressoché muta, e soprattutto il vecchio padre, che tenta in ogni modo di convincerla ad abiurare e a salvarsi la vita.

Ecco una madre, che antepone la propria fedeltà verso Dio allo stesso amore materno: eppure la preoccupazione per il figlioletto è sempre in cima ai suoi pensieri, senza però che riesca a farla dubitare per un attimo della giustezza della strada intrapresa.

Ecco una «domina», una signora di ottima famiglia, che trasgredisce a tutte le norme stabilite per la sua classe sociale e per il suo genere sessuale: non fila la lana in silenzio, ma si racconta a tutto campo, sino in fondo all’anima, con una franchezza e con una innocenza quale invano si cercherebbero nelle famose «confessiones» di Agostino o dello stesso Rousseau.

Peraltro, Perpetua non è una «virgo» e non rientra, quindi, nel modello predominante di vergine martire, proposto dalla Chiesa del tempo: i sui punti di riferimento costanti, nelle angosce della prigionia che precede la crudele condanna a morte, non sono il vescovo di Cartagine o, comunque, la gerarchia della Chiesa africana, ma la sua stessa coscienza e il rapporto diretto che instaura con Dio, in cui confida illimitatamente.

Altro che la Nora di Ibsen; altro che le sedicenti eroine protofemministe esaltate dalla letteratura moderna, le quali se ne vanno di casa, con tutte le comodità borghesi, per “realizzare la propria emancipazione” e non essere più delle “bambole”: al confronto con Perpetua, come sbiadiscono le loro figure, sino ad apparirci pressoché insignificanti.

Quest’ultima, infatti, dopo aver resistito alle fortissime pressioni psicologiche dei familiari, conservando serenità e dolcezza, perfino nell’arena non si smarrisce, non sbigottisce davanti alle belve; raccoglie amorevolmente il corpo di Felicita, ripiega con pudore la propria veste a accoglie senza tremare il colpo di spada che le toglie la vita: perfino la folla sanguinaria ha un momento di silenziosa commozione, un brivido pare attraversarla tutta.

Lasciamo che le menti ottuse dei razionalisti, imbevute di pregiudizi antireligiosi, parlino di fanatismo, di delirio di purificazione, magari di lavaggio del cervello; lo hanno sempre fatto, senza distinguere opportunamente da caso a caso, ma così, per partito preso: e, senza alcun dubbio, continueranno a farlo.

Una donna come Perpetua, così come appare dal suo stesso racconto, dalla sua stessa impietosa sincerità, certamente sapeva quel che stava facendo; e, se sfidava la morte a quel modo, lo faceva in piena consapevolezza, pur con l’animo straziato per la separazione dal suo bambino ancor lattante e per il dolore dei suoi cari, che non capivano e non le perdonavano quella ostinazione, quella - come avrebbe detto Plinio il Giovane - pervicacia.

Storici come Edward Gibbon non hanno saputo o voluto spogliarsi dei loro pregiudizi ideologici e non sono riusciti a vedere, nell’età dei martiri cristiani, altro che ignoranza, superstizione ed un cieco, torbido fanatismo.

Ma come si può giudicare un paradigma spirituale, standosene saldamente arroccati all’interno di un altro ed opposto paradigma?

Per tentar di comprendere una scelta come quella di Perpetua e di Felicita, bisognerebbe avere quanto meno l’umiltà di tentare un passo al di là delle proprie spigolose certezze, accettando la presenza del mistero nella vita degli esseri umani.

E la possibilità che una forza più grande di essi tocchi loro il cuore, talvolta, trasformandone radicalmente la vita.