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… e lasciamoli sognare!

di Francesco Lamendola - 16/12/2011




… e lasciamoli sognare!

Gli uomini e le donne moderni non credono più a niente; o, forse, sarebbe più esatto dire che hanno deciso di non credere più a niente.
Qualcuno, a un certo punto, ha deciso che non vi è altra realtà che quella materiale, spiegabile razionalmente, indagabile scientificamente: misurabile, quantificabile e, soprattutto, manipolabile a discrezione; e tutti lo hanno seguito come un gregge.
È accaduto molto tempo fa; sta di fatto che, adesso, abbiamo introiettato la lezione così bene, che ci facciamo un punto d’onore di mostrarci il più possibile scettici, il più possibile disincantati, il più possibile pragmatici: sempre un po’ di più del nostro vicino, in ogni caso.
Vogliamo sentirci i primi nella negazione, laddove un tempo era bello sentirsi uniti e solidali con il prossimo nell’affermazione.
E allora tutti giù a dire che la vita fa schifo; che non c’è niente di buono al mondo; che sarebbe stato meglio non nascere nemmeno; oppure a sostenere, con pari conformismo, che il reale è la risultante di un gioco di atomi e di energia, di un gioco casuale che, di per sé, non significa assolutamente nulla, quantunque noi possiamo vantarci di raggiungere una conoscenza scientificamente esatta di questo nulla - e, magari, sentircene appagati e soddisfatti.
C’è qualcuno, però, che non si lascia piegare facilmente alla nostra logica - o alla nostra assenza di logica, certificata e istituzionalizzata; che recalcitra a convertirsi alla nostra fede nel Nulla o alla sua variante progressista, la fede nella Scienza materialista e totalitaria; qualcuno che si annida ovunque, nelle nostre case, perfino nelle nostre anime, facendosi vivo con inaspettata intensità e, talvolta, provocandoci un’ombra di rimorso: il bambino.
Il bambino non è come noi, grazie al Cielo; e nemmeno noi eravamo così: solo che ce ne siamo dimenticati o abbiamo fatto di tutto per scordarcene.
Il bambino non sa che farsene delle nostre orgogliose certezze, dei nostri desolati sofismi, della nostra gelida sapienza: e, se gli diciamo che le fate e le streghe non esistono, né i castelli incantati, le principesse addormentate e i principi azzurri, ha l’impudenza di non crederci.
Vive in un mondo più bello del nostro, infinitamente più ricco e imprevedibile, sempre aperto al fascino del mistero: i suoi occhioni spalancati vedono cose che noi non possiamo vedere, riescono a penetrare oltre la superficie delle cose, davanti alla quale noi ci fermiamo, convinti come siamo di aver capito tutto quel che c’è da capire.
E non solo vive in un mondo fiabesco; sa che di quel mondo egli possiede la chiave, sa come entrarvi, con naturalezza senza sforzo alcuno, praticamente in qualsiasi momento: sa che la bacchetta magica delle fate, nelle sue mani, diventa REALMENTE una bacchetta magica, con la quale può compiere incantesimi; sa che il cavalluccio di legno della giostra, che gira incessantemente con essa, è REALMENTE un cavallo favoloso e che lo può condurre nelle più fantastiche avventure, delle quali egli sarà l’ardito protagonista; e sa che uno Stetson e una pistola giocattolo lo trasformeranno REALMENTE in un cow-boy alle prese con banditi, sceriffi e pellirossa: e lo sa non in maniera teorica, ma per la più convincente delle ragioni, ossia perché è in grado di sperimentarlo.
Il mondo nel quale vive il bambino è un mondo parallelo al nostro, ma asimmetrico rispetto al nostro: perché, dal suo, egli può vedere anche il nostro; mentre noi, dal nostro, non possiamo vedere, ma solo - tutt’al più - intuire vagamente l’esistenza del suo.
Per dire meglio, il suo mondo ha una duplice dimensione: quella ordinaria confina con il nostro e, a tratti, sembra che coincida con esso; ma in qualsiasi momento ecco che il prodigio può compiersi, le maglie della realtà ordinaria si aprono, e attraverso il varco egli balza in quell’altro mondo, tutto suo, dal quale noi siamo esclusi perché non crediamo che esso sia lì, che sia reale quanto il nostro.
In fondo, la bacchetta magica di cui dispone il bambino è tutta lì: nel fatto che egli crede alla possibilità del fantastico; ma il suo credere non è come quello dell’adulto: non è un atto di fede che, in certo qual modo, sacrifica la razionalità; è un credere primario, assoluto e, nello stesso tempo, perfettamente naturale.
Forse sarebbe più esatto dire che non è tanto un credere, quanto piuttosto un sapere: un sapere istintivo, anteriore a qualsiasi ragionamento e, pertanto, non bisognoso di alcuna prova, di alcuna dimostrazione; così come l’adulto non ha bisogno di prove per sapere che, quando ci si risveglia da un sogno, si torna nella vita “reale”.
Il bambino, perciò, VEDE: vede quello che l’adulto non è più in grado di vedere, anzi, neppure di immaginare.
Per l’adulto, la vetrina di un negozio di giocattoli o una giostra con i cavalli di legno non sono che degli insiemi di oggetti inerti; per il bambino, sono la porta d’accesso a un’altra dimensione, quella del fantastico, che è tanto reale quanto quella ordinaria - e forse di più.
Così pure, per l’adulto la fiaba che sta leggendo al bambino la sera, prima che quest’ultimo si addormenti, non è altro che un volo della fantasia cosciente, che ha lo scopo di far sognare i piccini; per il bambino, si tratta di un racconto reale, o quantomeno possibile, tanto verosimile quanto possono esserlo, per l’adulto, le notizie del telegiornale.
Da qualche decennio, però, la fantasia e la capacità creativa del bambino sono state seriamente intaccate da un mutato atteggiamento del mondo degli adulti.
Mentre, per secoli, gli adulti hanno ritenuto giusto permettere ai bambini le loro scorribande nella dimensione della fantasia, le hanno incoraggiate e alimentate o, nel peggiore dei casi, almeno tollerate, da un po’ di tempo a questa parte essi hanno deciso di adottare la politica della “tolleranza zero”, di spazzare via il più presto possibile quel regno incantato.
Hanno cominciato con il deridere la sua fede nelle fiabe, nella Befana, in Babbo Natale, dandogli in cambio, per così dire, ore e ore di sedute davanti a quella triste scatola demenziale che va sotto il nome di televisione; poi gli hanno messo fra le mani giochi meccanici e giochi elettronici, in luogo dei giochi “naturali” (bambole, soldatini) con i quali egli ELABORAVA il fantastico partendo da semplici oggetti; da ultimo lo hanno mandato a scuola a soli cinque anni, lo hanno caricato di lezioni, di lingue straniere, di informatica, di impegni che non gli lasciano nemmeno un po’ di tempo libero per giocare, da solo o con i suoi coetanei.
Insomma, gli adulti hanno fatto e stanno facendo di tutto per trasformarlo in un piccolo adulto precoce, in una  scialba e infelice caricatura di ciò che loro stessi sono diventati: dei fanatici adoratori della Ragione, della Scienza e della Tecnica; dei servili e ottusi seguaci del Progresso Illimitato.
In tal modo, gli adulti stanno facendo al bambino il danno più grave di cui erano capaci: gli stanno letteralmente rubando la sua infanzia, la sua stessa vita, dal momento che la vita del bambino è tutta nella fantasia, nell’immaginazione, nella capacità di sognare.
È chiaro che il bambino, poco a poco, deve essere guidato a muoversi nella dimensione ordinaria e razionale, ad assumersi responsabilità, ad essere autonomo: tutto questo si chiama educazione; ma guai a scambiare l’educazione del bambino per un corso accelerato di distruzione dell’infanzia, in un lavaggio del cervello sistematico, volto ad annientare quanto vi è di specifico e di originario nella natura del bambino, per farne una brutta copia dell’adulto.
Il bambino ha bisogno di sognar, di sognare con tutta l’anima; ne ha bisogno quanto ne ha di cibo, di bevande e di sonno: e lasciamolo sognare, dunque!
Il sogno, il gioco, l’esercizio della fantasia, non sono dei “lussi”, non sono un “di più” che il bambino si concede, o che gli adulti, più o meno benevolmente, gli concedono di fruire: sono la forma di conoscenza attraverso la quale egli scopre il mondo. Accanto ad essi, gradualmente, subentrerà anche la facoltà razionale: benissimo; ma non forziamo i tempi, non costringiamo una creatura di tre anni, di cinque anni, di sette anni, a portare sulle spalle un fardello che neppure un uomo robusto, talvolta, è in grado di reggere!
Avete mai osservato attentamente la faccia di un bambino o di una bambina che stanno facendo un giro in giostra, seduti a cavalcioni di un cavallo di legno?
Ebbene, fatelo: vi accorgerete che essi, in quei momenti, non sono qui, nella nostra dimensione ordinaria, ma laggiù, in quell’altra dimensione, e che ciò li rende felici.
Non saranno per caso l’invidia e la gelosia della loro felicità, che spingono tanti adulti a voler distruggere anzitempo il mondo fantastico del bambino?
Oppure, avete mai osservato dove sono gli occhi del bambino, quando, alla sera, prima di dormire, vi sedete accanto a lui nel lettino e gli leggete o, meglio ancora, gli raccontate, inventandola, una storia di fantasia che concluda la sua giornata? Non sono qui; non stanno guardando qualcosa che si trovi quaggiù: sono aperti su una dimensione ALTRA, che a noi è interdetta.
E ciò per molte ragioni; certo, anche perché il bambino non sa nulla di bollette da pagare, di dichiarazioni dei redditi, di orari, di doveri, di responsabilità, di preoccupazioni; e, inoltre, perché non sa ancora cosa sia la morte, e crede che la vita sia immortale.
Ecco perché la morte di una persona cara, e specialmente la morte della mamma, porta via per sempre l’infanzia dall’anima di un bambino e ne fa un adulto precoce, con un fondo di infinita malinconia nello sguardo.
E che: abbiamo tanta fretta di far entrare il bambino, ancora così tenero e disarmato, nella giungla feroce della società, popolata di adulti sempre pronti a balzarsi addosso l’un l’altro, non solo quando si detestano, ma perfino quando credono e dicono di amarsi?
Abbiamo davvero tanta smania di introdurre il bambino in quel lugubre manicomio che è diventata la nostra società, da quando abbiamo permesso che un Logos disumano e spietato si insignorisse delle nostre anime, facendo di noi i suoi ciechi servitori?
Eppure, di tanto in tanto, il bambino che eravamo si ridesta anche in noi, quando meno ce lo aspetteremmo.
Ecco un ragazzo diciottenne che va su e giù per la strada con il suo motorino nuovo: dà il gas, sterza e inverte la corsa, proprio come se stesse cavalcando un magnifico destriero e si preparasse ad affrontare un torneo per amore della sua bella.
Ed ecco un distinto signore che, accompagnando suo figlio piccolo al parco dei divertimenti e salendo con lui sulle montagne russe, per un attimo dimentica tutti i suoi gravi pensieri e si sente leggero, ringiovanito, libero come l’aria.
Il bambino che è in noi non muore mai; siamo noi che ci dimentichiamo di lui e che lo lasciamo rinchiuso in cantina; talvolta lo sentiamo battere alla porta, ma non vi facciamo caso: e non ci rendiamo conto che non è lui ad aver bisogno di noi, ma noi che ci stiamo perdendo, se non gi permettiamo di restare al nostro fianco.
La differenza fra lui e noi è che lui sa chi egli sia, mentre noi non sappiamo affatto chi siamo o, meglio, chi diciamo di essere: e non è una differenza da poco.
Fra lui e noi, è lui il più vicino alla verità, mentre noi ci siamo tristemente abituati a vivere nelle nostre stesse menzogne.
La bambina che, col vestito da fatina, il cappello a cono in testa e la bacchetta fra le dita, gioca ad essere la fatina, sta facendo il gioco più serio che vi sia al mondo: quello di ESSERE REALMENTE la fatina delle fiabe, con tanto di poteri magici.
L’adulto che in ufficio sta facendo l’impiegato, a casa sta facendo il marito, in autostrada sta facendo l’automobilista, e così via, non è realmente nessuno di questi ruoli; perfino quando cerca di essere davvero se stesso, con gli amici al bar, durante una partita a carte, o magari con l’amante, mentre si abbandona all’amore, sta recitando ancora e, di solito, sta recitando male: perché privo di naturalezza, privo di coerenza fra il sentire e il pensare, fra il pensare e l’agire.
Il bambino è quello che sembra: un bambino e basta; l’adulto si nasconde dietro le identità che il suo ruolo d adulto gli offre, ma non coincide con nessuna di esse.
Il bambino aderisce interamente al proprio essere, senza residui; l’adulto non è mai quello che sembra o quello che egli stesso crede.
Perciò il bambino è felice o, almeno, capace di esserlo; mentre l’adulto è condannato alla tristezza.