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Un dissenso sociale tutto da inventare (seconda parte)

di Costanzo Preve - Luigi Tedeschi - 09/01/2012

4) Negli squilibri e nelle tensioni di questa realtà storica in rapida evoluzione e/o dissoluzione, viene riproporsi la dialettica tra conservazione e rivoluzione. Questi sono elementi connaturati ai processi di trasformazione sociale. Nel ‘900 borghesia e proletariato incarnavano la contrapposizione tra conservazione e rivoluzione. Questi ruoli oggi sembrano essersi capovolti. Secondo i media ufficiali e la cultura liberale dominante, progresso e rivoluzione coincidono con l’espandersi del mercato globale. Pertanto l’evolversi di tale rivoluzione procede con l’abbattimento progressivo della sovranità degli stati, le liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi pubblici, la flessibilità del lavoro, la fine del welfare, l’individualismo culturale e il relativismo morale. Il fronte dei conservatori sarebbe invece rappresentato da coloro che affermano il primato della politica sull’economia, del pubblico sul privato, difendono lo stato sociale, le istituzioni cioè legate al retaggio ideologico del ‘900, di una epoca ormai tramontata. I termini della vecchia dicotomia classista si sarebbero rovesciati. Ciò è visibilmente falso, dato che le classi sociali del ‘900 in occidente sono ormai estinte e con esse sono venuti meno anche i paradigmi della conservazione e della rivoluzione. Tuttavia occorre considerare che una difesa ad oltranza dello stato sociale, del primato della politica, del sistema della economia mista, così come sono stati realizzati nel ‘900, fa defluire la protesta sociale su posizioni di velleitaria retroguardia, in difesa cioè di un’epoca scomparsa e che non può suscitare grandi nostalgie. Noi stessi, quando difendiamo i sacrosanti diritti sociali della comunità, quali espressione della natura sociale dell’uomo, sebbene inconsapevolmente, difendiamo uno stato, una struttura sociale, una cultura massificata che nei tempi passati abbiamo avversato. Sappiamo bene quanto il welfare abbia distrutto quella socialità spontanea delle società preindustriali, quanto l’evoluzione delle classi subordinate abbia coinciso con l’integrazione di esse nel sistema produttivo del capitalismo e del consumismo, quanto l’economia mista non si sia rivelata una economia socializzata, ma semmai un essenziale supporto alla espansione del capitalismo. Il welfare del ‘900 è un fenomeno interno alla economia capitalista (sia pure keynesiana), creato per incrementare profitti e consumi privati. L’odierno antistatalismo cialtrone, non tiene in debito conto che i primi beneficiari del welfare del ‘900 sono stati proprio i capitalisti, che hanno devoluto a carico della collettività gli oneri della cassa integrazione, dei prepensionamenti, dei finanziamenti a fondo perduto, fenomeni che hanno contribuito in larga parte all’espandersi incontrollato del debito pubblico. In realtà i progetti riformisti del ‘900 sono falliti in occidente perché incentrati sulla sola redistribuzione della ricchezza, ma non hanno inciso sui meccanismi fondamentali della produzione capitalista che sono rimasti inalterati. Oggi, se la protesta sociale ha un senso, il suo obiettivo deve essere quello di pervenire alla creazione di un nuovo modo di produzione comunitario, che è tale perché prende le mosse dalle strutture, dalle esigenze, dalle aspirazioni, dallo spirito creativo, in una parola, dalla prassi sociale emergente dalla società civile, per pervenire alla emancipazione dal capitalismo. Non si può sostituire l’alienazione del lavoro - merce del capitalismo con la dipendenza da una entità statuale (come fu nel ‘900 per il fascismo, il comunismo, la socialdemocrazia, gli stati nazional popolari), che si sostituisce all’individuo e ai corpi intermedi della società civile, ma dovrà essere la comunità sociale nella sua integralità a costituire la base degli indirizzi economico - sociali e dei valori civili e morali su cui si fonda uno stato.                 

 

Inizio proprio da un dato personale, che mi sembra effettivamente interessante. Tu noti che in questo passaggio storico ed in questa congiuntura ideologico-politica 2011-2012 entrambi difendiamo uno stato, una struttura sociale, una cultura massificata che nei tempi passati (quelli della nostra giovinezza, CP) abbiamo avversato. Secondo me non è vero, ma assumiamolo pure come ipotesi, e cioè come dubbio iperbolico cartesiano.

Ora, è storicamente vero che un signore chiamato Costanzo Preve ha difeso per decenni la teoria della dittatura del proletariato di Lenin ed il si­gnor Luigi Tedeschi una variante post-fascista delle corporazioni proprieta­rie di Ugo Spirito e Giovanni Gentile. Ebbene, non c’è proprio niente di cui vergognarsi o da rinnegare. Ci abbiamo creduto, perchè eravamo in vario modo inseriti in ambienti identitari che ci credevano.

Ma essere fedeli agli ideali della giovinezza non significa automaticamente continuare a rimanere fedeli alle sue illusioni, nella misura in cui queste illusioni non sono state solo “falsificate” dalla storia (la cui falsificazione è sempre temporanea e congiunturale, per cui non può essere popperianamente trasportata dalle scienze della natura, in cui in parte funziona, alla storia, in cui non funziona), ma si sono anche rivelate deboli ed eccessivamente caratterizzate dalle imposizioni della generazione pre­cedente, che ci ha caricato addosso le sue paranoie, anti-fasciste e/o anti-comuniste.

Quindi, il restare fedeli agli ideali della giovinezza significa proprio concederci una autocritica radicale ma non distruttiva, che non liquidi le ragioni profonde etico-politiche dell’impegno giovanile, ma lo riqualifichi integralmente alla luce di una nuova consapevolezza. Ora sappiamo due cose, apparentemente contraddittorie. Da un lato, ci è chiaro che i sistemi di welfare non erano affatto degli stadi di avvicinamento progressivo e riformistico al “socialismo”, a sua volta prima fase dell’utopia comunista, ma erano il prodotto di una fase particolare del capitalismo e del suo dominio riproduttivo. Una fase temporanea, ed infatti oggi il capitalismo finanziario neoliberale globalizzato lo sta smantellando in tutti i paesi del mondo. Dall’altro, che l’odierno antistatalismo è “cialtrone”, come tu giustamente lo connoti, sia nella variante egemonica della manipolazione mediatrice ed universitaria neoliberale (qui devo ammettere che Althusser aveva ragione nel connotare l’università come un apparato ideologico, anche se non di “stato”, ma di riproduzione globale del capitalismo), sia nella variante sofisticata dei “comunisti alla moda” (Ba­diou, Zizek, Negri, Hardt, eccetera), che disprezzano il “pubblico”, contrapponendogli un onirico e del tutto ancora inesistente “comune”.

Restare fedeli agli ideali della giovinezza, avendone superato le illusioni della dittatura del proletariato e/o delle corporazioni proprietarie, significa ora difendere il “pubblico”, ed il pubblico è oggi necessariamente in questa fase storica legato alla sovranità dello stato nazionale, il che implica economicamente una de-globalizzazione (e non certo una globalizzazione alternativa “umanistica”, astrattamente auspicabile, ma di cui non vedo attualmente le pre-condizioni politiche e culturali ma­teriali), e politicamente un riorientamento geopolitico ed una indipendenza europea dagli USA e dalla NATO (e dalla politica aggressiva medio-orientale del sionismo israeliano).

In caso contrario, è del tutto normale che il mondo ti sembra “rovesciato” di cento ed ottanta gradi, come tu scrivi. Ed infatti lo è. Ma non é rovescia­to di cento ed ottanta gradi rispetto ad un mondo ideale di solidarietà comunitaria, necessariamente ideale-platonico o ideale-cristiano, ma è rovesciato rispetto alla precedente fase storica del capitalismo. Mi perme­tto quindi di riformulare brevemente ancora una volta la mia teoria di periodizzazione filosofica del capitalismo, che non si oppone alle consuete periodizzazioni economiche (Mandel, La Grassa, Arrighi, eccetera), ma a mio av­viso le integra.

Il capitalismo filosoficamente considerato in termini di società della illimitatezza del processo di produzione, passa “idealmente” attraverso tre fasi, l’astratta, la dialettica e la speculativa. Nella prima fase astratta non esistono ancora i due poli dialettici della borghesia e del proletaria­to, ma esiste soltanto la borghesia, nel suo processo di autoaffermazione nei confronti delle precedenti società feudali e signorili. In questo processo di autoaffermazione vengono prodotti socialmente concetti di unificazione (lo spazio come materia, il tempo come progresso orientato linearmente e non ciclicamente, la morale come autofondazione categorica individuale senza comando divino, il valore come tempo di lavoro sociale medio contenuto in un bene-merce, l’autofondazione su se stessa della società sulla base dell’abitudine reciproca allo scambio senza bisogno di premesse “metafisiche”come la religione, il diritto naturale o il contratto sociale politico, eccetera).

In una seconda fase dialettica viene ristabilito su basi nuove il principio della comunità contro la precedente fondazione individualistica del fondamentalismo illuministico. Nella sua prima fase l’idealismo classico tedesco (Fichte e Hegel) pensa ancora la comunità come coesistenza armonica e pacifica di classi sociali diverse, mentre nella sua seconda fase (Marx) si fa strada l’idea che questa comunità è impossibile fino a che ci sono anco­ra delle classi antagonistiche, in quanto una di esse (la borghesia) sfrutta l’altra (il proletariato). Marx non rompe però affatto con l’idealismo, e non diventa “materialista” semplicemente perchè è ateo in religione e strutturalista nella modellistica dei modi di produzione. Egli elabora so­cialmente il concetto hegeliano di “coscienza infelice”, da Hegel stretta­mente limitato alla coscienza religiosa monoteistica europea, e lo appli­ca alla immanenza sociale divisa in classi. Il suo “comunismo”, quindi, non ha assolutamente nulla di popolare e proletario, ma è costruito sulla ba­se pienamente “borghese” dell’elaborazione dialettica della co­scienza infelice. In questa seconda fase dialettica (e quindi bipolare, e cioè borghesia-proletariato intesi come polarità astrattive-reali, e non solo come meri aggregati statistici di portatori di ruoli anonimi di interazione economica e sociale) abbiamo vissuto fra il 1810 ed il 1990 circa in Europa, e tutta la produzione filosofica europea può essere cor­rettamente collocata, situata ed interpretata (certo in modo non riduzioni­stico ed ideologico) all’interno di queste coordinate storiche. E’ questa stagione che ha permesso il grande pensiero dialettico, non importa se di destra o di sinistra.

Nel passaggio alla sua fase speculativa (in cui il capitalismo si con­templa da solo nel suo specchio della mercificazione individualistica universale, speculum), il mondo appare realmente “rovesciato”, se non ne si intende la logica dialettica, che resta sempre “dialettica”, anche se con­centrata nell’iniziativa di un solo soggetto (i dominanti) e non più di due come prima (i dominanti ed i dominati). Ecco perché il linguaggio della “rivoluzione” appare rovesciato, ed oggi “rivoluzione”, come tu correttamente dici, è “… l’abbattimento progressivo della sovranità degli stati, la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici, la flessibilità del lavoro, la fine del welfare, l’individualismo culturale e il relativismo morale”. Tu scrivi che “i termini della vecchia dicotomia classista si sarebbero rovesciati”. Sono d’accordo nell’essenziale, ma cre­do sia meglio dire che più che essersi rovesciati, si è affermato un solo aspetto unilaterale, che ha sussunto, assorbito e risucchiato in se stesso l’altro polo. Viviamo in un mondo in cui attivi sono ormai solo i dominanti, mentre i dominati sono provvisoriamente diventati un polo puramente passivo. Di qui l’impressione di mondo completamente rovesciato.

Ho scritto provvisoriamente, e bisogna scriverlo sottolineato, perché venga enfatizzato il carattere provvisorio di questa situazione. Personalmente, non credo più a soggetti demiurgici rivoluzionari costituiti per via puramente sociologica (o addirittura tecnologica, come ha sostenuto e sostiene il delirante operaismo cosmopolitico globalizzato delle cosiddette Moltitudini), ma sono convinto che, sulla base del carattere socialmente simbolico e reattivo della natura umana ontologicamente concepita, la carenza di dialettica presente fra dominanti e dominati, tipica della fase speculativa del capitalismo in cui giganteggiano soltanto i dominanti possa essere colmata.

In quale modo, concretamente, però nessuno lo sa ancora veramente, e non ci sono per ora che succedanei volontaristici, ancora molto deboli rispetto ai teorici del disincanto, il cui principale esponente è oggi il filosofo tedesco Sloterdijk. Nell’attuale fase speculativa del capitalismo, siamo di fronte al “dato” dell’iniziativa unilaterale senza opposizione del solo lato “dominante” della società. Per questo oggi giganteggia nei media televisivi, canale ideologico di questo dominio unilaterale, il “giudizio dei mercati”, che ha interamente sostituito qualunque agire politico, di destra o di sinistra che sia. Siamo costretti a capire indirettamente dai nostri padroni che cosa vogliono, e per ora siamo immobilizzati ad intuire che quello che vogliono è semplicemente il contrario di qualunque società solidale, comunitaria ed umana. Questa situazione non può che essere temporanea, salvo il marcire integrale della società su se stessa, ed un futuro di conflittualità tipo “guerra delle Due Rose” inglese 1455-1485, in cui si era di fronte ad un puro gangsterismo feudale di assassini per la ripartizione del potere. Il gangsterismo capitalistico sarà ancora più feroce ed insensato, ma non sarà eterno, sempre che si dia fiducia al genere umano, e non a suoi succedanei sociologici.