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I Forconi di Sicilia

di Alessandro Lattanzio - 17/01/2012



Nessuno saprebbe, leggendo dai testi scolastici, che i moti del 1848 partirono dalla Sicilia, da Palermo. All’epoca, i rivoltosi provenivano dalla borghesia colta e cosmopolita siciliana. La rivolta alla fine fu spenta, fallendo in gran parte i suoi obiettivi.
Oggi, invece, a scendere in piazza, o meglio, nei caselli stradali e negli snodi viari delle città più importanti della Sicilia, sono le categorie maggiormente colpite da un crisi economico-sociale prolungata, esplosa negli anni ’90, e non nel 2008 come si tenderebbe a pensare. Contadini, allevatori, pescatori, piccoli imprenditori, commercianti, autotrasportatori, ecc.
La Sicilia, dopo le grandi purghe avviate con Tangentopoli, ha subito una involuzione economico-sociale sempre più marcata e accelerata. Tutti i settori economici sono stati gravemente colpiti e pesantemente danneggiati, ovviamente tranne quelli più strettamente collegati al processo di ascarizzazione socio-politica dettata dall’asse Torino-Firenze-Roma e Milano, vigente fin dal 1861, come insegna un dei massimi storici del meridione italiano, Nicola Zitara.
Evento scatenante è la pressione fiscale sempre più soffocante, e sempre più inefficiente, che colpisce le varie categorie dei lavoratori siciliani. Il tessuto produttivo-commerciale in Sicilia è oramai sfilacciato, ridotto a strame: decenni di corruzione ed incultura sistematica (e anche se in parte imposta dall’alto) delle varie amministrazioni regionali e locali, ma anche statali, sono la ragione più importante di questo disastro; vi si aggiunga anche una serie di interventi punitivi, come la sistematica distruzione del patrimonio ferroviario siciliano, che a fronte di un mltiplicazione per 3,4,5 volte del costo dei trasporti, negli ultimi venti anni, si è visto un costante declino dei servizi, del numero delle tratte e la decurtazione degli orari di servizio. E in omaggio a una politica industriale improntata agli interessi della FIAT, l’adozione integrale del trasporto su gomma; quindi abbandono pressoché totale delle vie marittime, il patrimonio più importate lasciato alla Sicilia dal regno di Napoli, alla paventata violenza territoriale tramite l’edificazione di un aborto tecnologico-progettuale rappresentato dal ponte di Messina, una operazione voluta, quasi bramata, da logge, cosche e camarille che pullulano negli anfratti di quella che il succitato Zitara definiva ‘mafia bianca’,  il ceto parassitario locale allevato dal centro a scopo di controllo.
In mezzo a questa baraonda del fango, si arriva perfino all’imposizione di accise sui carburanti maggiori che nel resto dell’Italia. Un ‘non sense’, essendo la stragrande maggioranza dei carburanti raffinati in Italia, essere prodotta nelle raffinerie di Augusta-Priolo-Siracusa, Gela e Milazzo. Insomma, la beffa oltre il danno, cornuti e mazziati. Non solo i siciliani si sorbiscono il cancro, le patologie e l’inquinamento emanati dalle raffinerie, ma pure devono pagarne il prodotto a un prezzo maggiorato rispetto al resto d’Italia, verso cui è destinata la produzione. Una realtà che assomiglia notevolmente allo status delle colonie del XIX-XX.mo secolo, cioè soggette al saccheggio delle proprie risorse e contemporaneamente obbligate ad acquistare quelle stesse risorse che produce, e le merci estere, al prezzo stabilito dal centro coloniale.
Chiaramente, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza i volenterosi esecutori locali dei desiderata dei centri di potere esterni, italiani o anche anglo-statunitensi (questi ultimi controllano anche la produzione ‘culturale-accademica’ siciliana). L’ultimo governo, dopo un periodo iniziale di tentativi di affrancamento economico-amministrativi, ha deciso, tra piroette e capriole, di allinearsi infine allo status quo. Ma avendo la testa rivolta verso il ‘glorioso’ passato democristiano, i maggiori responsabili del governo della Sicilia non si sono accorti che intanto il Mondo si è capovolto. Non hanno mai avuto gli strumenti per comprenderlo. Di questa miseria ideologica, di questa subalternità culturale, anzi antropologica, Franz Fanon ne avrebbe fatto un caso da manuale. Una subalternità che impedisce loro di ricorrere o di salvaguardare i poteri di intervento economico-amministrativi presenti nello statuto della regione siciliana,  e quindi tutelati dalla stessa costituzione della repubblica italiana, come la possibilità del governo regionale di battere moneta per un valore pari a un miliardo di euro all’anno o di ricavare dalla produzione e vendita della benzina raffinata in Sicilia, qualcosa come 3 miliardi di euro. E invece nulla; le amministrazioni regionali hanno sempre barattato tali capacità con prebende e privilegi, pensioni d’oro massiccio e libertà di spesa degli spiccioli fatti piovere sullo strato politico-burocratico locale.
In soldoni, il Movimento dei Forconi e Forza d’Urto chiedono:
-  misure per la salvaguardia del comparto agrario; le colture, gli allevamenti e i patrimoni naturistici sono stati letteralmente abbandonati a se stessi, con interi agrumeti, che vengono trasformati in cosiddette ‘Città Mercato’, ipermercati quasi sempre di origine straniera (francesi e tedeschi), che dopo aver frantumato l’economica della zona localizzata, restano semivuoti o addirittura chiudono i battenti;
- l’abbassamento di una pressione fiscale che colpisce il ceto produttivo di una economia residuale, strozzata da un apparato fiscale, tanto elefantiaco quanto ottuso, incapace di promuovere le attività, ma solo di soffocarle, ucciderle con un carico fiscale abnorme, gestito con modalità bizzarre e astruse per perseguire delle finalità, quando ci sono, semplicemente esiziali e deleterie (le pensioni d’oro massiccio per gli esponenti più privilegiati dell’ascarismo politico-amministrativo in Sicilia);
- il recuperò di quella fiscalità che spetta al governo siciliano, non quella micragnosa delle tasse sull’urbanizzazione del territorio o della tassazione dei reddito di lavoratori precari, se non addirittura degli studenti dei corsi professionali regionali ed europei. Una visione ‘piemontese’, e non borbonica (magari!), della raccolta delle risorse pubbliche.
- piani di investimenti infrastrutturali e strutturali, e di integrazione dei redditi di vasti ceti sociali oramai oltre l’orlo del precipizio economico, individuale, o peggio sociale.
L’azione rivendicativa viene condotta come atto dimostrativo, bloccando le oramai uniche arterie di traffico rimaste alla Sicilia, ovvero le autostradale, le strade e quindi gli autotrasporti, i settori più inefficienti e dannosi per il territorio, ma gli unici superstiti che garantiscono collegamenti e traffico di merci, avendo il centro romano deciso di smantellare le ferrovie, di disinvestire sul traffico aeroportuale e di lasciare vuoti i porti.
Ovviamente, come qualsiasi azione, dimostrazione e sciopero che dia davvero fastidio agli organi responsabili, sulla manifestazione indetta dai Forconi è calata la cappa del silenzio dei mass media istituzionali, privati e pubblici che siano; in compenso si sono attivati i centri ‘paralleli’ a quelli ‘istituzionali’, comprese le varie realtà cosiddette ‘alternative’, che su imput dei centri politici decisionali, hanno avuto l’ordine di attaccare tale iniziativa, ricorrendo come al solito a strumenti quali le diffamazioni, le distorsioni di fatti e discorsi, la pura menzogna e perfino a meschine insinuazioni dal carattere realmente identitario-tribale.
Questa è un prova, da cui gli organizzatori usciranno di sicuro confortati nei loro propositi, mentre i tanti avversari, aperti e occulti, istituzionali o ‘alternativi’, saranno costretti, finalmente, a smascherarsi davanti all’opinione pubblica e ai cittadini.