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Nei libri di Ernst Wiechert l’ardente nostalgia dell’Assoluto, in un tempo fuori del tempo

di Francesco Lamendola - 15/02/2012


 

 

Sarebbe tempo di chiedersi perché certi libracci, scritti malissimo e grondanti luoghi comuni e pornografia, che trasudano compiacimento per tutto ciò che è degradazione, vadano sempre più per la maggiore, si traducano in numerose lingue, si vendano a milioni e milioni di copie, se ne traggano, perfino, film di successo, interpretati dai soliti bellissimi del cinema e diano occasione all’apertura di forum in rete, dove legioni di persone banali danno la stura a interminabili banchetti di riflessioni banali, sentendosi persone eccezionali che disquisiscono di cose eccezionali.

E sarebbe tempo di chiedersi perché i libri che trasmettono all’anima un senso di pace e di armonia, che medicano le ferite, che incoraggiano la speranza, che mostrano la strada di una possibile rinascita, diventino sempre più rari, siano ridotti a un rigagnolo che sembra ormai sul punto di esaurirsi e scomparire nelle sabbie del deserto; mentre, fino a due o tre generazioni fa, erano ancora relativamente frequenti, gli editori se li contendevamo, i signori critici li recensivano e il pubblico li leggeva, non senza profitto culturale, morale e spirituale.

Che cos’è che fa la differenza? Cos’è che fa preferire al pubblico la cattiva letteratura, o la non letteratura, alla letteratura di qualità?

Non basta dire che il presente ama poco il passato e che le ultime generazioni non sono più disposte ad ascoltare la saggezza di quelle che le hanno precedute; resterebbe comunque da capire perché si siano prodotti una tale situazione, un tale accecamento, una tale esasperata febbre del nuovo.

Una prima risposta, di ordine assai generale, ma sufficientemente lucida, ci sembra essere che la modernità, come tutti i paradigmi cultuali, non vede che se stessa e non intende celebrare altro che se stessa: anche la spazzatura, purché “moderna”, trova accoglienza nel conformismo cultuale oggi dominante; mentre un gioiello, se non presenta le caratteristiche specifiche della modernità, viene rifiutato senz’altro, non riconosciuto come tale, denigrato o, peggio ancora, ignorato e passato completamente sotto silenzio.

La modernità è una visione del mondo; ma non è solamente questo: è la prima visione del mondo che abbia deciso, deliberatamente, di fermarsi alla “pars destruens”: in altre parole, è la prima civiltà della storia che sia anche, programmaticamente, nemica dichiarata, o quantomeno fortemente critica e sospettosa, verso tutto ciò che è certezza, verità, stabilità, fede in qualche cosa che vada oltre le apparenze del mondo sensibile.

E non è nemmeno solo questo: è anche la prima civiltà che, in nome della distruzione di tutti gli idoli, della demistificazione di tutti i credi, del sospetto verso tutte le verità, si è avvolta in un denso strato di astuzia ideologica: in nome del pensiero debole, del pluralismo, del laicismo e di chi sa quanti altri “ismi”, ha instaurato la monarchia del relativismo, l’impero del pessimismo antropologico, il più radicale totalitarismo nichilista; ha fatto quadrato attorno al dogma del rifiuto, al canone della irrisione, al conformismo dell’anticonformismo.

In tutte le altre civiltà e culture essa vede il bruscolo nell’occhio; solo della trave che ha nel proprio occhio non si accorge per nulla. Le basta dissacrare, ridicolizzare, demolire il passato; non importa cosa mettere al suo posto: basta che sia qualcosa di nuovo.

Lo si vede non solo in ambito culturale, ma anche nell’urbanistica, nell’edilizia, nell’architettura. La seconda guerra mondiale, con le sue immani distruzioni, le ha offerto l’occasione per rifare di sana pianta il volto delle città e dei paesi d’Europa; e quel che non avevano distrutto le bombe dei “liberatori”, è stato distrutto intenzionalmente, sistematicamente, per fare spazio ai profeti del nuovo, agli araldi del moderno: essa ha voluto tagliarsi i ponti dietro le spalle, imporre il cambiamento ad ogni costo.

La modernità dà per scontato di rappresentare il bene e che tutto ciò che è pre-moderno sia il male: per questa ragione sopporta a stento la «Divina Commedia» (ma la legge spogliandola delle sue premesse spirituali e religiose, vale a dire che la legge senza capirla affatto); sbuffa con impazienza davanti ai «Promessi Sposi», cui non perdono la fede cristiana, né la struttura tradizionale del romanzo; e proprio non tollera che, dopo Manzoni, ci sia ancora qualcuno che osa parlare di Dio, dell’anima, del bene e del male, o che pone al centro del discorso sull’uomo la libertà di scelta, l’impegno morale, il dovere di rispondere del proprio fratello.

Un romanzo che non sfoderi la psicanalisi, che non strizzi l’occhio al marxismo, che non civetti con il superomismo, che non celebri lo smarrimento dell’uomo, la disgregazione dell’io, la perdita dei punti di riferimento; che non si compiaccia di tale confusione, che non indulga nella palude del relativismo, che non si pasca dello sberleffo, del cachinno, della blasfemia, dell’edonismo più matto e bestiale, dell’utilitarismo più volgare e grossolano: un romanzo del genere non può piacere, perché giudicato non al passo coi tempi; perché, appunto, non moderno.

Di più: un romanzo di tal fatta, un romanzo che parli dell’amore, del bene, del divino, specialmente se scritto con maestria, NON DEVE piacere al pubblico: quindi gli editori lo rifiutano, i critici lo snobbano, tuttologi e opinionisti a un tanto il chilo, nei loro salotti, televisivi o meno, lo ignorano o lo deridono e passano ad altro, con arroganza beffarda.

La modernità vuol convertire i popoli al proprio credo - non importa se non è un credo di salvezza, ma di distruzione, che insegna a vedere un nemico nel prossimo e a dare libero sfogo a qualsiasi egoistico istinto; e, per riuscirvi, deve fare piazza pulita del passato (come volevano i futuristi) e terra bruciata intorno a quanti ancora non si arrendono al suo verbo, non baciano le sue bandiere e non si genuflettono davanti ai suoi feticci.

Uno di quegli scrittori che non si sono mai genuflessi, che non hanno mai adorato gli idoli, che non si sono mai piegati a corteggiare la cultura dei vincitori, è stato il tedesco Ernst Wiechert (1887-1950), nato in una proprietà rurale della Prussia Orientale - una regione che più non esiste, letteralmente cancellata dal rullo compressore della modernità, in questo caso nella sua versione marxista e sovietica: svuotata dei suoi abitanti con una spietata pulizia etnica, divisa assurdamente fra Polonia e Unione Sovietica, irrimediabilmente stravolta nelle sue caratteristiche storiche, paesaggistiche, culturali.

Wiechert, lo si vede anche solo dalle fotografie, era un uomo buono; un uomo dalla intensa spiritualità: la Germania che descrive nei suoi romanzi è una Germania senza tempo o piuttosto fuori del tempo, fatta di  boschi e paludi che si perdono nella foschia, di laghi e brughiere solitarie, dagli spazi dilatati, dalle albe e dai tramonti struggenti, dalle voci degli uccelli di passo e dai grandi, immensi, solenni silenzi carichi di mistero.

Della sua narrativa, che culmina nei due romanzi «La vita semplice» (1939) e «Missa sine nomine» (1950),  la solita critica “illuminata” e “progressista” ha rilevato, oltre al conservatorismo politico (come se ciò fosse una macchia e, prima ancora, come se ciò fosse pertinente), da un lato la tendenza all’idillio astorico, dall’altra una continua ricerca di senso che sempre sfugge ai personaggi dei sui romanzi e che dà luogo a una pensosa, malinconica rassegnazione: senza rendersi conto della palese contraddizione di una simile lettura.

Se davvero la dimensione poetica della narrativa di Wiechert fosse la ricerca di un idillio fuori della storia, allora non si capisce perché i suoi personaggi dovrebbero consumare la propria vita in una incessante ricerca di senso:è evidente che se una cosa è vera, non può esserlo anche l’altra. E allora diciamo subito che non di idillio fuori della storia si tratta, ma, al contrario, di un tempo fuori della storia, e dunque sacro, tale da permettere il contatto con il divino: perché il nucleo dell’ispirazione di questo scrittore è la fede cristiana e, spogliata della dimensione religiosa, essa non sa più di niente, come non saprebbe di niente il romanzo di Manzoni.

Il paesaggio romantico, alla Caspar David Friedrich, di cui si è detto, scaturisce non da una esigenza lirica fine a se stessa, e meno ancora da un ricerca dell’idillio (quanti equivoci su questa faccenda dell’idillio: basti dire che anche la tormentata poesia bucolica di Pascoli è stata a lungo giudicata come “idillica”!), ma da un atteggiamento complessivo dell’animo dell’autore, nonché da una esigenza interna dei suoi personaggi: che hanno bisogno di spazio, di silenzio, di solitudine per ritrovare se stessi e, insieme a Dio, il senso della vicenda umana.

Altro che fuga dalla storia! Una atmosfera fuori dal tempo non è, necessariamente, indizio di una fuga dalla storia: tutto al contrario; quale errore grossolano, scambiare il tempo con la storia e concludere che, se uno scrittore cerca la solitudine nel contatto fresco e amorevole con la natura, è, perciò stesso, un fuggiasco dai problemi politici, sociali, eccetera: e sì che la vicenda di Pasternak e del suo «Dottor Živago» avrebbe pur dovuto insegnare qualcosa a codesti critici seriosi e superciliosi, tutti rigorosamente progressisti e possibilmente rivoluzionari, che vedono la ricerca dell’interiorità non, come realmente è, quale bisogno di autenticità e, quindi, anche di una più consapevole partecipazione dell’uomo alle vicende storiche, ma come diserzione, come fuga, come intimismo decadente e, magari, come narcisismo piccolo borghese e perciò, almeno potenzialmente, controrivoluzionario. Dàlli all’untore, dunque!

In realtà, l’itinerario spirituale della narrativa di Wiechert è un lungo viaggio all’interno dell’uomo, dell’uomo che cerca se stesso e che, cercando se stesso, cerca Dio; dell’uomo che, reso saggio dalle sciagure della storia e dalle disillusioni delle ideologie, impara la virtù fondamentale che lo rende meritevole di perdono, anche dopo le peggiori aberrazioni: la compassione; di una ricerca esigente di verità, di purezza, di trascendenza, che rifiuta ogni compromesso e che non si accontenta di niente di meno che della totalità.

Ecco il punto: l’uomo, per Wiechert, è una totalità; non è un atomo, non è un frammento, non è una scheggia impazzita; in lui non c’è una sola dimensione, quella politica, o quella razionale, o quella sensuale; non è una cosa, non è un’appendice, non è un prodotto del caso: e non lo si può accostare, non lo si può comprendere, non lo si può amare, se non si accetta questa sua unità, o, almeno, questo suo bisogno di unità, di fusione del sensibile e dell’invisibile, di corpo e spirito.

Da ciò quel caratteristico rispetto, quel caratteristico pudore, quella caratteristica gentilezza, che contraddistinguono il modo in cui Wiechert si avvicina ai suoi personaggi, per sfiorare il mistero che si cela in essi, anche il mistero della malvagità: perché anche nei confronti dei malvagi vi è un raggio di speranza, una parola buona da spendere, un gesto di perdono da compiere; i buoni e i cattivi non sono tali fin dalla nascita (come vorrebbe il naturalismo alla Zola) e non sono diventati tali in base alle scelte ideologiche (come vorrebbe la cultura progressista e politicamente corretta, inguaribilmente manichea, uscita dalla grande guerra mondiale del 1914-1945, al cui interno si colloca l’Ottobre sovietico): il male ed il bene sono presenti in ogni essere umano e per tutti arriva il momento della prova, il momento del dolore.

Il dolore, l’altro grande polo della riflessione di Wiechert: il dolore non come ironia o suprema mancanza di senso, ma, al contrario, cristianamente, come inveramento del senso più profondo della vita; il dolore come occasione di redenzione, di purificazione, di trasformazione e di rinascita; anche se certe ferite sono terribili e certe piaghe non cicatrizzano mai; anche se certi traumi, certe offese alla dignità umana, non si cancellano mai, mai, mai.

Wiechert è stato a Buchenwald: ormai sessantenne, i nazisti lo avevano gettato in quel campo di concentramento per la sua opposizione al loro regine; ha conosciuto il dolore e l’orrore della storia, ha toccato con mano la follia distruttrice, il demone maligno che, talvolta, s’impadronisce dei popoli, li acceca, li travolge, li trascina verso il precipizio.

A differenza di Günther Grass, che si è fatto una fama di scrittore progressista e solo alla fine ha ammesso di aver fatto parte della Gioventù hitleriana (cosa di per sé non ignobile, dato che i ragazzi venivano arruolati a forza, specie al crepuscolo del regime: ma perché non dirlo subito?), Wiechert ha avuto fama di conservatore; ma la coerenza con cui si è opposto al nazismo e il prezzo che ha pagato lo avrebbero autorizzato, se avesse avuto un altro temperamento, a gonfiare il petto e a pavoneggiarsi più di tanti scrittori di sinistra, che l’opposizione al nazismo l’hanno fatta solo a posteriori, oppure, prudentemente, dall’America o da qualche altro Paese straniero.

Ma egli non apparteneva a quel tipo d’uomini; non amava il clamore, non amava i riflettori, né aveva bisogno degli applausi: era un solitario, un introverso; e non per misantropia o per superbia, ma proprio per quel suo spirito fanciullescamente, francescanamente puro e disinteressato, che lo rendevano una figura d’altri tempi fin dal primo dopoguerra, quando cominciò a scrivere e a farsi conoscere per i suoi romanzi e racconti.

Il dramma della Germania novecentesca è abbracciato nell’arco della sua produzione; dalla disperazione dopo la sconfitta del 1918, che vide crollare in frantumi tante illusioni giovanili, al cupo e tormentato dopoguerra, con le sue spietate lotte politiche, i suoi drammi sociali, le sue crisi economiche; all’avvento del nazismo, con il suo paganesimo razzista e inumano, alla tragedia apocalittica della seconda guerra mondiale, che tutti attribuiscono sempre e solo a quella nazione, senza pensare che, al di là della ricerca delle responsabilità per il suo scatenamento (che porta necessariamente a riconoscere che vi furono anche altre colpe, altri errori, altri delitti), essa fu la prima vittima di tutta quella cieca distruzione, e che funse addirittura da laboratorio sperimentale per la più odiosa, la più tremenda, la più crudele forma di guerra moderna: quella dei bombardamenti aerei a tappeto, martellanti, inesorabili, sulle città grandi e medie, sulle abitazioni civili, sulla popolazione inerme, non in base ad un obiettivo strategico, ma unicamente allo scopo di terrorizzare le persone e piegare la loro capacità di resistenza (calcolo che, fra l‘altro, si rivelò errato: e, come disse Fouché, un errore politico è ancor peggio di un delitto).

Wiechert, dunque, fu un cercatore di Dio e dell’uomo, un asceta, un uomo buono: non un buon uomo - la distinzione è di un altro grande “umanista” tedesco di quegli anni, Peter Lippert - perché nell’espressione “buon uomo” vi è, accanto all’ammirazione per la bontà, una sfumatura di derisione, o almeno di condiscendenza, per la sua maniera ingenua di rapportarsi agli altri; mentre nella espressione “un uomo buono” non vi è ombra di superiorità, vi è solo incondizionata ammirazione, come davanti a un evento straordinario, semplice e tuttavia raro, che ci colpisce dritti al cuore.

«Non posso credere che un libro sia buono - ebbe a dire una volta uno scrittore celebre - se non riesce a rendere almeno un po’ più buono colui che lo legge».

Ebbene, i libri di Ernst Wiechert forse non riusciranno a rendere più buoni i loro lettori, ma certamente riescono a renderli più pensosi, più sensibili, più attenti al mistero dell’uomo e al mistero del divino.

E non è cosa da poco.