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Da dove proviene realmente ogni “oppressione”? Il rapporto “oppresso/oppressore” in Palestina

di Enrico Galoppini - 23/11/2012

Fonte: europeanphoenix



In passato mi sono occupato non poco della cosiddetta "questione palestinese", traendone alla fine la certezza che non è razionalmente possibile venirne a capo, nel senso di proferire una "parola definitiva" in grado di mettere "fuori gioco" gli avversari dialettici e/o gli scettici e i dubbiosi. Non tanto con l’obiettivo di “convincerli”, quanto di farli ragionare, sulla base di elementi ad essi ignoti e connessioni che non avevano tenuto nel debito conto, in maniera far riconsiderare loro l’intera “questione”. Sto parlando, naturalmente, di coloro che sono in buona fede e che oppongono “argomenti” tratti dai cliché messi a disposizione dall’onnipervasivo apparato “informativo” e “culturale” controllato dai dominanti che forma le coscienze dei più, ma che comunque hanno un “pre-disposizione” ad accogliere “un’altra verità”. Perché con chi è in mala fede (o si è autocensurato per motivi professionali) non c’è assolutamente niente da fare, ed il guaio è oltretutto che individui di questa pasta sono esattamente quelli che lavorano nel mondo della fabbricazione del consenso”, che ben serrando i boccaporti del “pluralismo delle idee” non consente alcuna occasione di pubblico ed aperto confronto con chi gli “argomenti” li avrebbe…

In via generale, vuoi perché il consenso è per l’appunto “fabbricato”, vuoi perché in relazione alla Palestina subentrano una miriade di condizionamenti psicologici e culturali, far cambiare idea sulla Palestina e ciò che vi ruota attorno è spesso e volentieri un’impresa disperata, a causa del confluirvi di una serie di altre "questioni" sulle quali - fintantoché saremo in regime "democratico", con la relativa "mentalità" e l’ipoteca imposta sulla nostra libertà (in primis di coscienza) da settant’anni di “Liberazione” - vi è troppa suscettibilità e animosità.

Per realizzare il livello di gravità di tutto quello che, in prima battuta, tocca direttamente i palestinesi (musulmani e cristiani: di questi ultimi ve ne sono anche a Gaza), e, in seconda battuta, tutti gli altri popoli del mondo che devono fare i conti con quella parodia della Tradizione che è il Sionismo, bisogna compiere un deciso sforzo per acquisire una "visione" limpida e vedere così le cose come stanno, e non come vogliamo illuderci che stiano per sentirci "buoni"; al di là, dunque, dei condizionamenti, spesso ricattatori, dell'ambiente in cui ci troviamo a vivere, lavorare, interagire con altri (la maggioranza) che su tale questione si sono fatti un'opinione forgiata dai dominanti e dal loro apparato di persuasione che va dalla "cultura" ai "media". Si deve, insomma, essere sinceri con se stessi fino in fondo.

Ma quando sono in ballo "ebrei", "Israele", "Palestina"... si rischia sempre d'essere fraintesi, ci si scontra con gente che non vuole capire o che, per motivi essenzialmente moralistici, non vuole spingersi "troppo in là" nell'analisi. Ci si ritrova addirittura a "scontrarsi" coi "filo-palestinesi", perché sovente questi ultimi – specie quelli in servizio permanente effettivo - hanno reso
"la Palestina" una sorta di proiezione delle loro predilezioni e frustrazioni ideologiche e politiche (prendo a simbolo il mummificato slogan “Palestina libera, Palestina rossa”). E poi si ciancia di continuo del dovere di essere "liberi", di “pensare con la propria testa” e di altre iperboliche astrazioni, quando nemmeno ce la si fa a smettere alcune inveterate "abitudini mentali"... Parlo a ragion veduta perché conosco bene l'argomento e tutto quel che vi ruota attorno.

En passant, rilevo che accade una cosa simile con la "Primavera araba", in misura ridotta perché non vi sono coinvolti "gli ebrei", ma assicuro che anche in questo caso se uno s'è incaponito su una versione a senso unico al cui termine vi sarebbe solo la "libertà" e la "democrazia" planetarie, non c'è nulla che possa fargli cambiare idea, anche a fronte di "ragionamenti" e "prove" d'una evidenza palmare (il solo internet è pieno zeppo d'informazioni).

Si potrebbe andare avanti molto su quest'argomento, ma quel che qui più mi preme è ribadire che ogni particolare “questione”, comprese quelle più “politiche” e “sociali”, vanno viste per quello che sono: degli spunti per cogliere “il generale” e comunque fare uno sforzo per affinare la visione, oltre le convenzioni di un ambiente che ci vorrebbe ricondurre sempre ad una qualche forma di "ortodossia" (ideologica) e conformismo.

Che cosa fare dunque di fronte ad una clamorosa ingiustizia subita dai palestinesi e alla più tracotante oppressione esercitata su di essi dagli occupanti sionisti? Posto che qui (intendo in Italia, in Europa) nessuno può fare nulla sul piano “pratico”, tanto che si è ampiamente dimostrato che anche le “flottiglie” alla fine servono solo a farsi strumentalizzare, è palese che l’unica cosa che ha senso fare quaggiù, una volta compresa la portata della “questione”, è quella di sforzarsi di cambiare paradigma, oltre la tifoseria, ma non per appiattirsi su un’insostenibile “equidistanza”, bensì per andare fino in fondo alla faccenda, il che non può che coinvolgere un piano per così dire “spirituale”.

Da qui, ribadisco alcune osservazioni sul concetto di "oppressione" (zhulm), secondo la logica della lingua araba, sebbene il termine arabo per “oppressi” in riferimento a “popoli”, “classi” eccetera sia mustad‘afîn (dalla stessa radice di “debole” e “debolezza”). Zhulm ha la stessa radice di zhalâm ("tenebre"), e lo zhâlim è “colui che fa un torto”, “l'oppressore”. Già da queste prime note si comprende che si è innanzitutto "oppressori" con se stessi, e solo per riflesso verso gli altri. Per cui, se su un piano è comprensibile una protesta ed una "indignazione" (questo termine è inflazionato al punto da risultare stucchevole) contro una "oppressione" che si manifesta esteriormente (e la Palestina ce ne offre un nutrito campionario!), è implicito che "l'oppressione" va per prima cosa eliminata da dentro di noi, ed in ciò sta il jihâd (il supremo “sforzo”) contro la nafs, ovvero contro le tendenze della cosiddetta "anima concupiscente" che brama “il mondo” e s’illude della sua auto-nomia”. Applicando questo sintetico ragionamento a quel che da circa un secolo si abbatte sui palestinesi (ribadisco: una sciagura senza pari al mondo, per durata e intensità), si può logicamente supporre che questi "sionisti", portatori di una "ideologia religiosa" dai chiari tratti antitradizionali, sono essenzialmente degli individui che "opprimono se stessi", e poi, per inevitabile riflesso esercitano questa insana hubris su chi si trova a cadere sotto le loro grinfie.

Ora, su un piano interpersonale, la medesima dinamica può avvenire in famiglia, tra colleghi ecc., e chiunque credo ne abbia fatto esperienza. Per questo sono intimamente convinto che - a parte la relativa indubbia utilità delle denunce, delle analisi e delle ricostruzioni (e decostruzioni!) storiche - per meglio comprendere la cosiddetta "questione palestinese" e le altre strettamente correlatele, stante l'immutabile natura umana che implica uno "sforzo" per migliorarsi, accanto alle “iniziative” ed alle “invocazioni” a supporto degli “oppressi” (bellissima è la Invocazione per gli oppressi”, dello shaykh Muhammad ibn Nâsir ad-Dar‘î) vadano elevate anche preghiere per il ravvedimento da parte degli "oppressori". Il Cattolicesimo, prima del nefasto Concilio Vaticano II, aveva una "preghiera sugli ebrei", e questa, immersi come siamo in una propaganda a senso unico, oggi vien presentata come specchio d'un atteggiamento discriminatorio e/o persecutorio. Ma se ci scrolliamo di dosso - come dicevo - la camicia di forza di un pensiero "corretto" (fenomeno essenzialmente da moralisti), non si fatica a scorgere che dietro quella preghiera, se ben intesa (ma le preghiere al Signore non possono che esserlo), vi era un gesto di "altruismo", di empatia, di pietas, che muoveva dalla consapevolezza che siamo tutti figli dello stesso Padre, tutti ‘parte’ di un Uno, compresi “i nemici”.

È la cosa più difficile da fare, pregare “per il cattivo”. D'altra parte, se consideriamo la questione della “oppressione” fino in fondo, alternative non ne esistono. Tutta questa "oppressione" che si scatena all'esterno non può che provenire da un'oppressione vissuta “dentro”. E ciò significa che “dentro” non vi è “luce”.

Va da sé che i sionisti non sono gli unici "oppressori" sulla faccia della terra. Tutti, chi più chi meno, dopo aver "oppresso" noi stessi, ovvero non aver lasciato spazio per la "luce", "opprimiamo" altri, portando "oscurità" del mondo. Ma la portata planetaria del fenomeno del Sionismo, e le sue ripercussioni sui differenti piani dell'esistenza di tutte le genti del pianeta, non possono indurci nell'errore d'un ipocrita cerchiobottismo, né d’una sottovalutazione del pericolo costituito dall'immenso "potere" detenuto da persone ben poco "illuminate" interiormente.

Questi individui bramano "il mondo", su questo non c'è dubbio.

Chi può sensatamente affermare che è un affare sano mettere in mano una pistola ad un incapace d’intendere e volere? Chi se la sentirebbe d’incaricare un pervertito dell’educazione dei propri figli? Chi non tremerebbe di fronte alla gestione del patrimonio d’un orfano affidata ad un prodigo? Bene, non si capisce perché le sorti del mondo debbano essere lasciate finire in mano a persone che
non sono affatto pacificate interiormente, e addirittura riversano all’esterno questa loro condizione irrisolta. L’“oppressione” non può così che diventare la regola, e se i palestinesi – dicevo – patiscono di quella più diretta, non è che gli altri possano cantar vittoria, perché ovunque, dove arriva la “modernità”, s’irradia una rete tentacolare che s’infila dappertutto, occupando ogni ganglio vitale e dettando legge, plasmando le menti e costringendo masse intere a tributarle un perpetuo vassallaggio.

La miglior cosa da fare sarebbe quella di metterli in condizione di non nuocere, isolandoli e lasciandoli scatenarsi in una qualche “riserva”, tra l’altro fino alla loro autodistruzione, perché è risaputo che una volta innescata la logica settaria, discriminatoria e suprematista non è possibile restare uniti anche tra pretesamente “eguali” se non attraverso un continuo “allarme” finalizzato a serrare i ranghi: a questo servono “l’antisemitismo”, “il terrorismo” ecc. Ma ormai sembra troppo tardi, perché hanno e stanno prendendo in mano tutto grazie alla leva prediletta da chi mira al dominio del “mondo”: il danaro, attraverso cui esercitano un immane potere ricattatorio.

Senza “grana non si muove più nulla. Perciò nessuno che abbia una qualche “posizione” o “ambizione” fiata: per non vedersi negare le palanche ed evitare di finire in rovina. Questo è il “mondo” che essi hanno modellato a loro immagine, funzionale ai loro obiettivi e nel quale sguazzano alla perfezione. Dubito davvero che basti una soluzione “politica”, poiché sono riusciti nell’intento di contaminare ogni cosa (“politica”, “economia”, “arte”, “cultura” eccetera, persino la “religione”, per non parlare di quelle creazioni della “modernità” come la “moda” e lo “spettacolo”), col che anche quelli che non fanno parte della cricca – ma pendono dalle loro labbra - rispondono ormai ai medesimi impulsi e alle stesse scale di priorità. Sono riusciti a far diventare gli altri come loro, depotenziandoli, quindi, e prevenendone ogni capacità di reazione dal momento che non sono più se stessi.

Al punto in cui siamo giunti, tuttavia, non tutto è perduto e, anzi, le cose sono più chiare di qualche tempo fa, quando era facile farsi trasportare dall’entusiasmo ideologico. Il “re (di questo mondo) è nudo”. Così, piuttosto che prendersela a morte con qualcheduno o una qualche categoria, senza deflettere per questo dalla denuncia di quel che fa gridare allo “scandalo”, si eviti di farsi prendere dall’odio, ché di odio Lorsignori si nutrono… Perché di odio si nutre il loro ‘capo’ al quale han giurato fedeltà.

Amate i vostri nemici”: quest’affermazione attribuita a Gesù è, da sola, un’intera dottrina spirituale, perché implica la rinuncia ad ogni attaccamento, ad ogni animosità e ad ogni “opposizione” (dualismo). Basterebbe metterla in pratica per veder finire, d’incanto, ogni “oppressione”. Invece si parla tanto di “pace”, e più quella si allontana (si pensi a Gerusalemme, “la città della pace”!), perché la “pace” o la si possiede interiormente o è vaniloquio che si trasforma in una sua parodia.

Noi dovremmo ringraziare, paradossalmente, che esiste tutta questa malvagità, perché da una parte ci pone di fronte, implacabilmente, a come non bisogna essere; dall’altra, ci sprona solo a migliorarci, ad operare uno sforzo di volontà.

Si pensi a qual è l’atteggiamento di un padre di fronte alle malefatte di un figlio. Sulle prime si può senz’altro arrabbiare, e ci può stare anche una “punizione”, ma poi arriva inevitabilmente il perdono. Un padre non può “odiare” i suoi figli. Così, noi che siamo tutti figli d’un solo padre, dobbiamo imparare, per avvicinarci a Lui ed ‘essere come lui’, a non odiare in alcun modo, senza per questo trasformarci in dei fessacchiotti che scambiano “l’Amore” per il classico “prosciutto sugli occhi”.

I “cattivi” ci tendono in un certo senso la mano, dalle loro “tenebre”. Sta a noi decidere se farcisi tirare dentro o aiutarli, aiutando noi stessi, affinché ne escano e scorgano finalmente un po’ di “luce”.