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Manovre di guerra contro la Siria

di Michele Paris - 09/01/2013



Il primo discorso pubblico in quasi sei mesi tenuto da Bashar al-Assad domenica scorsa a Damasco è stato immediatamente sfruttato dai media e dai governi occidentali per sottolineare l’impossibilità dell’uscita dalla crisi in Siria a quasi due anni dall’inizio delle ostilità senza un passo indietro del presidente. Apparso di fronte ad una folla di sostenitori, riuniti presso il teatro dell’opera della capitale siriana, Assad ha avanzato un suo piano di riconciliazione, basato però su proposte che erano già cadute nel vuoto o erano state respinte dai suoi interlocutori interni ed esterni parecchi mesi fa, come la creazione di un nuovo governo e di una nuova costituzione, nonché l’apertura di un qualche dialogo con l’opposizione tollerata dal regime.

Nella sua analisi della situazione interna al paese, invece, Assad ha ampiamente colto nel segno, pur senza riconoscere la legittimità del malcontento diffuso in Siria nei confronti di un regime che ha ereditato dal padre, Hafez, più di un decennio fa. Assad ha infatti ribadito come l’opposizione armata sia sostenuta dalle potenze occidentali e dalle monarchie assolute del Golfo e sia largamente dominata da forze integraliste islamiche legate al terrorismo internazionale.

Alla luce di questo scenario, ha affermato il presidente siriano, l’unica strada verso una soluzione politica rimane la fine del sostegno economico e militare a questi stessi gruppi fondamentalisti da parte delle potenze regionali e degli Stati Uniti. Una soluzione che rimane poco più di un miraggio, visto che questi ultimi hanno fin dall’inizio puntato deliberatamente su queste forze per rovesciare il regime di Damasco.

Il rifiuto di Assad a dimettersi e di negoziare con le opposizioni armate è stato così definito dai giornali di mezzo mondo come un continuo ostacolo ad una soluzione pacifica della crisi. In realtà, è la stessa opposizione ad avere più volte respinto nei mesi precedenti non solo qualsiasi apertura di Assad, ma anche i piani partoriti dalla diplomazia internazionale e puntualmente falliti, a cominciare da quelli degli inviati speciali dell’ONU e della Lega Araba per la Siria, Kofi Annan e il suo successore, l’ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi.

Lo stallo della situazione nel paese mediorientale suggerisce d’altra parte una vasta avversione popolare per i metodi utilizzati nel conflitto dalle forze di opposizione. Il sostegno a queste ultime garantito dagli Stati Uniti, dai governi europei e dai loro alleati nel mondo arabo rappresenta inoltre uno dei motivi principali per cui il regime di Assad conserva tuttora un certo consenso interno, soprattutto tra le minoranze alauite (sciite), cristiane e druse, comprensibilmente terrorizzate per un possibile futuro monopolizzato da forze islamiste sunnite.

In ogni caso, i commenti al discorso di Assad apparsi sui media occidentali hanno cercato di attribuire alla linea dura confermata domenica dal presidente la totale responsabilità del deterioramento della situazione in Siria, prospettando perciò come pressoché inevitabile nel prossimo futuro un intervento militare esterno per evitare che il conflitto si prolunghi indefinitamente.

L’apoteosi dell’ipocrisia nelle reazioni all’apparizione pubblica di Assad è stata raggiunta come al solito dagli Stati Uniti. La portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, in una dichiarazione alla stampa ha infatti affermato che, mentre Assad “parla di dialogo, il regime alimenta deliberatamente le tensioni settarie e continua ad uccidere i propri cittadini”, di fatto ribaltando la realtà sul campo, nella quale è precisamente Washington a favorire e sfruttare da tempo le divisioni settarie in un paese guidato per decenni da un regime secolare, così da destabilizzarlo e operare un cambio al vertice che risponda ai propri interessi strategici nella regione.

Con l’inizio del nuovo anno, intanto, i preparativi per una nuova guerra in Medio Oriente hanno fatto registrare significativi passi avanti. Nei giorni scorsi, ad esempio, i primi missili Patriot richiesti qualche settimana fa alla NATO dal governo di Ankara hanno cominciato a giungere in territorio turco al confine con la Siria.

Le batterie di missili servono ufficialmente per difendere la Turchia da un’ipotetica quanto improbabile aggressione siriana, mentre in realtà sono la prima fase di un intervento diretto per istituire una “no-fly zone” oltre il confine meridionale e colpire le postazioni dell’esercito di Damasco. A fornire i Patriot alla Turchia sono gli Stati Uniti, la Germania e l’Olanda, i cui governi invieranno un totale di oltre mille soldati con l’incarico ufficiale di operare le batterie che stanno per essere installate.

Per preparare un’opinione pubblica internazionale che in larga parte si oppone ad una nuova guerra imperialista, gli Stati Uniti e la NATO continuano poi a diffondere la propria propaganda, tra l’altro accusando Damasco di avere utilizzato missili Scud contro i ribelli e di progettare un possibile ricorso al proprio arsenale di armi chimiche.

Parallelamente, al confine meridionale della Siria, Israele ha annunciato la costruzione di una barriera protettiva per difendere le Alture del Golan, un territorio occupato nel 1967 e successivamente annesso in maniera illegale. L’iniziativa, presentata durante una riunione di governo da un Netanyahu in piena campagna elettorale, si accompagnerà ad un rafforzamento della presenza militare israeliana in una zona di confine rimasta peraltro in gran parte pacifica negli ultimi quattro decenni.

La giustificazione per la realizzazione della barriera, secondo il premier israeliano, sarebbe l’arretramento delle forze di sicurezza siriane dalle aree oltreconfine e la conseguente infiltrazione di gruppi jihadisti. Una dinamica, quest’ultima, provocata dal sostegno agli integralisti islamici offerta dagli Stati Uniti e dai loro alleati nella lotta contro il regime di Assad e che commentatori e analisti occidentali o israeliani si guardano però bene dal rilevare.

Secondo resoconti apparsi nei giorni scorsi sulla stampa araba, inoltre, il governo di Israele sarebbe entrato in contatto anche con le autorità giordane e con esponenti dell’opposizione siriana per valutare possibili operazioni militari nel paese, ufficialmente per “difendere” le Alture del Golan. Dopo le esitazioni iniziali, dovute ai timori per l’instaurazione di un regime post-Assad dominato da forze islamiste, il governo di Tel Aviv si è schierato in maniera decisa con l’opposizione, anche se l’impopolarità di Israele nel mondo arabo suggerisce il mantenimento di una posizione defilata nelle vicende interne della Siria.

La massiccia presenza di integralisti islamici tra le fila dell’opposizione sostenuta dall’Occidente, infine, continua ad essere dimostrata da svariati reportage giornalistici. Tra di essi, spiccano le dichiarazioni raccolte recentemente da un’inviata della televisione pubblica canadese (CBC) con i vertici di alcuni gruppi ribelli, come il comandante della milizia Kata ib-Essalam, attiva nella città di Aleppo.

Secondo quest’ultimo, “il Libero Esercito della Siria e la Coalizione [Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione] sono solo inchiostro su carta”, vale a dire il risultato di un’operazione di pura “immagine creata per presentare un fronte unito ai governi stranieri”. Per il comandante, autodefinitosi “islamista sunnita” come i membri della sua brigata, ciò per cui l’opposizione siriana si batte è unicamente l’instaurazione di uno stato islamico fondato sulla Sharia.