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Una guerra già iniziata (e i suoi veri motivi)

di Marco Tarchi - 22/07/2006

 

 

Se all’indomani del primo conflitto militare nel Golfo Persico un sociologo accorto come Jean Baudrillard poté scrivere che quella guerra “non aveva avuto luogo”, in quanto il programmato oscuramento televisivo e l’obbligo dei giornalisti ad affidarsi esclusivamente alle notizie divulgate nei briefings militari “alleati” l’avevano ridotta agli occhi dell’opinione pubblica mondiale ad un videogame illuminato dai fuochi notturni dei bombardamenti su Baghdad, si può ben dire che, invece, la guerra occidentale all’Iran è già iniziata, e da un pezzo.

Non passa praticamente giorno, infatti, in cui quotidiani, settimanali, siti internet, talk shows televisivi e trasmissioni radiofoniche non ci riversino addosso frammenti di notizie sulle ennesime “provocazioni” del presidente Ahmadinejad o sugli “inquietanti” esiti di un’ispezione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica e, in stretta connessione, pletore di commenti sulla necessità di farla al più presto finita con l’incendiario regime di Teheran, a cui viene addebitata in un caso la minimizzazione dello sterminio della popolazione ebraica europea, in un altro la costruzione di siti nascosti in cui accelerare la messa in atto di presunti piani di costruzione della bomba nucleare, in altri ancora l’incarcerazione di dissidenti o l’adozione di provvedimenti limitativi della libertà delle donne o degli studenti universitari. Lo stato di guerra fra “Occidente” e Iran è stato dunque già da un pezzo dichiarato nella mente dell’apparato politico, intellettuale e massmediale che lo ha deciso, ed è sempre più probabile che il pubblico dei telespettatori, degli ascoltatori e dei lettori ne stia prendendo atto, prima magari con diffidenza o ripulsa, per un riflesso di ordinario pacifismo dettato dal gusto del quieto vivere, poi con una graduale permeabilità a quella indignazione che gli viene inoculata a dosi massicce, infine con un passaggio alla convinzione dell’inevitabilità dello scontro armato, in obbedienza a quel computo del rapporto “virtuoso” tra costi e benefici di un atto di forza che gli attori mediali instancabilmente gli suggeriscono.

Il meccanismo su cui si regge questa opera di intossicazione psicologica è noto e sperimentato: se ha funzionato a dovere nella preparazione della guerra all’Iraq, perché non dovrebbe funzionare di nuovo? Il carico di menzogne che accompagnò l’assalto mesopotamico dei soldati di Bush e Blair era pesante e non ha retto a nessuna delle tante verifiche: le armi di distruzione di massa addebitate al rais non c’erano – e il fatto di non averne trovate di fasulle messe lì a bella posta dagli invasori è stato addirittura citato come prova della “lealtà” angloamericana: bella prova di come la razionalità nel mondo unipolare funzioni alla rovescia…–, i collegamenti con Al Qaeda nemmeno, il consenso plebiscitario della popolazione all’irruzione “liberatoria” men che meno (perfino tra gli sciiti, come tutti i sondaggi di parte statunitense dimostrano, il desiderio di veder ripartire al più presto l’armata Stars and Stripes-Union Jack è ipermaggioritario). Eppure, una cospicua fetta di popolazione dei paesi europei si lascia abbindolare dai surrogati pretestuosi con cui la Casa Bianca e i suoi sostenitori cercano di giustificarsi a posteriori: il mondo sarebbe più libero e sicuro (!) senza Saddam Hussein al potere, la democrazia starebbe compiendo progressi fra Bassora e Mossul, e via straparlando.

In una misura non facilmente calcolabile, questa menzognera retorica riesce – grazie al sostegno di una variopinta armata collaborazionista, fatta di ministri e anchormen, politologi e sedicenti esperti di strategia, telepredicatori ed editorialisti, funzionari di partito e filosofi – ad oscurare in parecchie coscienze la constatazione empirica dei danni colossali che l’invasione angloamericana dell’Iraq ha causato: una sanguinosa guerra civile, pesanti stragi di innocenti e resistenti da parte delle truppe di occupazione (non c’è stata soltanto la devastazione di Fallujah: i massacri non meno mortiferi delle rappresaglie naziste della seconda guerra mondiale sono stati numerosi, e come quelle sono stati coperti da una fitta rete di silenzi), l’alimentazione della lotta armata dei gruppi integralisti islamici, mai così numerosi e attivi come oggi. Quel che ancor più conta, sotto la pressione delle sue parole d’ordine diventa difficile discernere i veri motivi che hanno ispirato l’avventura bellica iniziata nel 2003, le sue premesse e i suoi succedanei, ovvero quel progetto di sovversione dell’ordine politico mediorientale che gli Stati Uniti d’Americano ritengono la base indispensabile per rafforzare il proprio dominio planetario e renderlo, nei limiti del possibile, inattaccabile; progetto di cui il fin troppo spesso citato controllo delle linee di afflusso di gas e petrolio è certamente una componente, comunque subordinata a considerazioni di natura geopolitica a più largo raggio. Considerazioni a cui sono tutt’altro che estranee, giova ripeterlo, obiettivi collaterali come un’ancor più marcata limitazione dell’autonomia di manovra politica ed economica dell’Europa e la predisposizione di intralci alla crescita di altri ancor più temibili concorrenti, prima fra tutti la Cina.

Se il gioco dell’addomesticamento della pubblica opinione ha prodotto e continua a produrre frutti sul versante iracheno, a tal punto che notizie come quella rivelata dal “Los Angeles Times” che “i militari americani pagano segretamente i quotidiani iracheni, anche 1.500 dollari a pezzo, per pubblicare articoli scritti da loro e destinati a migliorare l’immagine della missione in Iraq [che] vengono presentati come imparziali resoconti, ma in realtà celebrano le gesta delle truppe Usa” finiscono in proporzioni infinitesimali nelle pagine più interne dei quotidiani europei[i], non c’è motivo di sperare che le cose andranno diversamente di fronte alla prospettiva di una guerra all’Iran, che della strategia statunitense di conquista e normalizzazione dell’area costituirebbe un ulteriore essenziale passo.

Dell’importanza della posta in gioco paiono invece rendersi conto quanti caldeggiano, sempre meno velatamente, l’intervento armato contro Teheran. Ed è interessante notare come la loro azione segua un itinerario che privilegia l’elaborazione culturale di fondamenti giustificativi del conflitto e, così facendo, ne mette in atto di fatto le prime mosse. La necessità di operare metapoliticamente sul terreno della penetrazione delle coscienze, per rendere più agevole la gestione tecnica dell’attacco affidata agli uomini in divisa e ai loro referenti governativi, è ormai innegabile, e da questo punto di vista la pubblicazione di un dossier su un organo di stampa a grande diffusione o la propagazione dei punti di vista di autorevoli commentatori riproposti sistematicamente nei programmi televisivi è assai più efficace delle pur indispensabili prese di posizione politiche e diplomatiche: ministeri e cancellerie progettano e dispongono, ma l’attivazione dei meccanismi di legittimazione e consenso è affidata alle salmerie intellettuali. E queste, nella preparazione dell’ormai non più improbabile scontro, stanno dimostrando una notevole efficienza.

Naturalmente, i prodromi dell’operazione sono ormai alle nostre spalle: l’elaborazione del concetto di “scontro di civiltà” da parte di Samuel Huntington e di quello, precedente, di “fine della storia” ad opera di Francis Fukuyama sono storia già vecchia di lustri, e tutti sappiamo come quelle analisi spacciate per profezie abbiano fornito validi argomenti agli estensori del Pnac, il “progetto per un nuovo secolo americano” che è valso da manifesto programmatico ai circoli neoconservatori riuniti attorno a George W. Bush. Ancor più lungo è il percorso di quel complesso fenomeno culturale che spesso è andato sotto il nome di americanizzazione e che sarebbe più opportuno definire, sulla scia di un’opera celebre di Serge Latouche e con l’ausilio delle dovute integrazioni, occidentalizzazione del mondo. I successi acquisiti dai sostenitori dell’egemonia statunitense attraverso la diffusione di queste e altre analoghe suggestioni intellettuali sono rilevanti; tuttavia, per far digerire alle masse la nuova interpretazione delle relazioni internazionali varata da Washington all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, con il suo frequente ricorso alla guerra aperta e non più solo alle operazioni di destabilizzazione indiretta in cui si era specializzata la Cia, occorrono altri strumenti anche di ordine psicologico e culturale. Le vicende legate alla questione mediorientale, e adesso alla sua non secondaria appendice iraniana, dimostrano che un ruolo importante è affidato, in questo quadro, all’uso di due concetti-chiave: in forma negativa e stigmatizzante, l’antisemitismo; in forma positiva e valorizzante, la democrazia.

Lo spettro dell’antisemitismo viene in realtà agitato da decenni dagli Stati Uniti e dai sostenitori delle loro politiche ogniqualvolta sono in gioco i destini del Medio Oriente. Già nel 1967, l’azione militare preventiva – corsi e ricorsi storici… – di Israele contro i paesi arabi confinanti trovò ampie giustificazioni in quella parte del ceto intellettuale che accusava Nasser di proporre una versione riveduta e corretta del nazionalsocialismo e sospettava la presenza, nell’intero mondo arabo, di prevenzioni antiebraiche basate non sulla reazione all’espulsione di milioni di palestinesi dalle loro terre conseguente alle vicende del 1948 ma sull’odio razziale. Da allora in poi, nei paesi occidentali i riferimenti giornalistici alla diffusione nelle società islamiche di pregiudizi antigiudaici si sono esponenzialmente moltiplicati, senza che un’attenzione anche minimamente comparabile venisse dedicata alla correlativa documentata crescita di espressioni di razzismo antiarabo in seno alla popolazione israeliana e alle comunità ebraiche della diaspora: la logica dei “due pesi e due misure” ha trovato in questo ambito un’applicazione degna di nota. Quando poi si è passati alla fase dello scontro aperto con l’integralismo islamico e si sono potute rilevare nei messaggi di Bin Laden o di Al-Zawahiri espressioni ostili a “crociati ed ebrei”, l’uso di questo argomento si è fatto ancora più frequente. L’estensione all’Iran di Ahmadinejad non è che un ulteriore tassello del puzzle.

Certo, il personaggio è tutt’altro che esente da oltranzismi verbali e certamente adotta discutibili frasi ad effetto nei comizi per acuire le reazioni emotive degli ascoltatori, non disdegnando di evocare la figura retorica del capro espiatorio (come fanno, del resto, molti dei suoi avversari). Tuttavia, non ci si può astenere dal rilevare che molte delle espressioni da lui utilizzate negli scorsi mesi sono state manipolate dai circuiti informativi, attraverso vere e proprie modifiche lessicali o attribuzioni improprie di significati e, dato di fatto importante, si è scelto di mettere in evidenza solo a partire dal giugno 2005 (data dell’elezione alla presidenza del paese dell’ex sindaco di Teheran) il fatto che esse venivano pronunciate nel contesto di manifestazioni di accusa contro Israele e di sostegno alla causa palestinese, che pure si svolgono, più o meno con gli stessi toni e schemi rituali, fin dai tempi della rivoluzione khomeynista.

La trasformazione di Ahmadinejad in “negatore dell’Olocausto” è stata una delle travi portanti dell’impiego dell’argomento antisemita – quello sulla cui base, ad esempio, sostenitori ideologici dell’egemonia statunitense di forte incidenza massmediale quali Angelo Panebianco e Giuliano Ferrara giustificano più di frequente i loro appelli alle risposte muscolari dell’“Occidente” – come puntello retorico per rendere accettabile l’ipotesi di un attacco armato all’Iran. E per giungere a questo risultato non si è andati troppo per il sottile. Si è passato sotto silenzio, ad esempio, il fatto che in Iran (come in Siria, altro paese sull’elenco dei wanted brandito dall’inquilino della Casa Bianca) continua a vivere una comunità ebraica, e che essa non è stata oggetto, neppure nel clima teso degli ultimi mesi, di violenze: un silenzio utile per rendere più credibile l’illazione secondo cui, dietro l’auspicio alla “scomparsa di Israele dalla carta geografica” si nasconderebbe il proposito di un nuovo genocidio della popolazione ebraica. Spudoratamente, questa tesi è stata sostenuta da numerosi operatori dell’informazione, che per di più si sono detti certi che la presunta costruzione della bomba atomica di Teheran sarebbe finalizzata a un attacco nucleare su Tel Aviv, mentre ci si è ben guardati dal dare alle parole del presidente iraniano il significato più ovvio: l’auspicio della sostituzione di uno Stato ebraico – che chi sta dalla parte dei palestinesi, nel mondo arabo, da sempre avversa – con uno Stato costituzionalmente plurietnico e plurireligioso, in grado di restituire alle popolazioni da decenni costrette all’esilio un forte potere di con decisione politica, adeguato al loro peso demografico. Prospettiva, non vi è dubbio, inaccettabile ad Olmert e a gran parte dei suoi concittadini e perciò inevitabilmente fonte di discussioni e scontri, ma non per questo assimilabile a progetti di sterminio. D’altro canto, Ahmadinejad ha più volte fatto notare come del genocidio degli ebrei verificatosi in Europa oltre sessant’anni orsono i colpevoli siano europei e le vittime indirette palestinesi: “Io non dico che l’Olocausto sia avvenuto o meno”, è stata una delle dichiarazioni da lui rilasciate a giornalisti stranieri. “Non sono uno scienziato. Dico [che] se è avvenuto i responsabili siete voi occidentali e voi ne dovete pagare le conseguenze”[ii]. Parole accusabili di eccessiva disinvoltura, ma certo non di palese infondatezza.

Sia come sia, fare di Ahmadinejad l’ennesimo nuovo Hitler – dopo Nasser, Milosevic, Saddam e molti altri – è un passo essenziale nella strategia di manipolazione delle coscienze che deve rendere accettabile lo scenario bellico, e in un contesto in cui i colpi bassi si susseguono su vari piani (si pensi al “misterioso disastro aereo” che nello scorso gennaio ha decapitato le gerarchie militari dei pasdaran, cioè della componente più ideologizzata dell’esercito iraniano[iii], o alle rivelazioni sui piani di bombardamento atomico delle città iraniane messi a punto dal Pentagono) non ha alcunché di sorprendente. Fra l’altro, caricando la classe dirigente di Teheran dell’accusa di intenzioni genocide si indebolisce fin quasi a neutralizzarla la constatazione che Israele le armi atomiche le possiede, e in notevole quantità, in violazione del trattato di non proliferazione nucleare, che le ha ottenute grazie alla ripagata cooperazione con il regime sudafricano dell’apartheid e che la tendenza dei suoi governanti al grilletto facile – omicidi mirati, uccisioni frequenti di civili nei raid nei Territori occupati, ecc. – non può certo rassicurare sulla possibilità che si decida a farne “preventivamente” uso, opportunità che solo il partito preso ideologico può far scartare. Cosicché l’esecrazione della sedicente comunità internazionale, invece di rivolgersi verso un paese che, fra l’altro, ha incarcerato per vent’anni in condizioni penose uno dei tecnici che lavoravano nella sua centrale nucleare, reo di aver reso note alcune delle attività militari che vi si svolgevano, viene orientata contro un altro Stato che ha accettato centinaia di ispezioni sui propri siti, malgrado che, come pure ha scritto una giornalista fortemente ostile al governo di Teheran, “il Trattato di non Proliferazione Nucleare consent[a] in effetti a tutti i firmatari che rinuncino all’uso militare dell’energia atomica il diritto “inalienabile” di fare ricerca e accedere alla tecnologia nucleare”[iv].

Ma non basta. L’Iran raffigurato dalla propaganda occidentalista non è solo il paese pericoloso in mano a un “curioso Dottor Stranamore”, un “presidente dagli occhi infuocati, che crede che il Messia ritornerà sulla terra entro due anni risalendo da un pozzo dove è stato occultato per nove secoli”[v]. È anche un ostacolo alla diffusione della democrazia american style in una zona strategicamente delicata del globo terracqueo, e dunque, per definizione, è un paese in cui la democrazia non deve esistere. Vi si tengono elezioni? Sì, ma Ahmadinejad, si fa notare, è stato eletto “con un numero di voti inferiore a quello degli astenuti”[vi]. Notazione interessante. Conta qualcosa il fatto che i suoi avversari, in primo luogo i candidati “riformatori”, di suffragi ne abbiano raccolti molti di meno? Evidentemente no. Si applicherebbe lo stesso criterio ad altri presidenti o parlamenti democraticamente eletti, ad esempio in paesi come gli Stati Uniti e la Francia dove ciò è accaduto in più occasioni? Certamente no. E non c’è bisogno, ci pare, di altri commenti per far risaltare la malafede di questo modo di affrontare la questione.

Il problema è che l’esaltazione della democrazia in funzione anti-islamica riveste un carattere sempre più pretestuoso nella strategia retorica del “fronte occidentale”, ma ciò è ben lungi dall’essere compreso da quei settori della pubblica opinione che soggiacciono alle lusinghe del credo ideologico liberale o, più frequentemente, cadono nelle trappole di un’informazione faziosa. Si pensi a titolo di esempio a quanto è accaduto dopo il successo di Hamas alle elezioni per il parlamento palestinese: la libera espressione di volontà di un popolo è stata deprecata e soffocata da un coro di indignazione che si è presto trasformato in una richiesta quasi unanime di rovesciarne, con le buone o con le cattive, gli esiti. Come ha scritto Renzo Guolo in un articolo che merita una lunga citazione, “la vittoria dei partiti sciiti religiosi e filoiraniani in Iraq, quella di Hamas […], quella, di fatto, dei Fratelli Musulmani in Egitto. E prima il pieno di voti dell’Hezbollah libanese, che ha contribuito a far sfiorire rapidamente la cosiddetta “rivoluzione dei cedri” [dimostrano che] Quando nel mondo della Mezzaluna si vota, il successo arride spesso a formazioni islamiche neotradizionaliste. Formazioni divise da quelle jihadiste non tanto sui fini, la fondazione dello stato islamico, quanto sui mezzi con cui realizzarlo”, e ciò ha riproposto un tema spinoso per i teorici della necessità di esportare la democrazia come veicolo di radicamento di valori “occidentali” in paesi che presentano una cultura diffusa ad essi estranea: “Il tentativo di innescare processi elettorali capaci di far germogliare, e consolidare in futuro, “elementi di democrazia” si è sin qui concluso con l’apparente paradosso politico per cui le maggiori beneficiarie della democratizzazione del mondo islamico sono state le forze islamiste”. Il che, ad avviso di Guolo, pone una cruciale alternativa: “L’Occidente predicatore della democrazia dovrà scegliere dunque se essere coerente e accettare insieme al principio democratico quello dell’autodeterminazione dei popoli; o agire, interferendo pesantemente, per evitare un simile sbocco”[vii].

Alla ruvida alternativa, sostiene il sociologo, ci si può sottrarre favorendo “lo sviluppo di una società socialmente e culturalmente differenziata, caratterizzata da un diffuso pluralismo politico”. Il che, tradotto in termini meno soffici, significa operando massicciamente sul terreno della colonizzazione culturale, facendo – poco evangelicamente… – agli altri ciò che non ammettiamo venga fatto a noi, dal momento che la penetrazione di una cultura islamica, peggio che mai se tradizionalista, è vista da governi, partiti e operatori dell’informazione occidentali come una iattura da evitare con ogni mezzo. Inoltre, è più che discutibile la convinzione di Guolo che al principio democratico sia estraneo il concetto di autodeterminazione dei popoli; nessun coerente teorico della forma di governo democratica separerebbe l’uno dall’altro, e semmai giustificherebbe il criterio dell’elezione di rappresentanti dei governati proprio sulla base di un principio di autonoma scelta popolare del proprio destino. La questione scottante che comunque fa da sfondo a questo tipo di discussione è un’altra: gli Usa ed i loro alleati non intendono accettare la diffusione delle pratiche democratiche nei paesi arabi, ed altrove, se queste non servono i loro propositi ed interessi; là dove ciò non avviene, la preferenza per regimi autoritari, protettorati e governi fantoccio è evidente. Il vero motivo per cui si è fatta una guerra all’Iraq e forse se ne farà una all’Iran, e domani magari se ne faranno altre ad ulteriori paesi che facciano concorrenza o creino ostacoli, è questo: c’è un progetto di dominio globale in fase di dispiegamento, e deve essere condotto in porto a qualunque costo.

Coprire questa realtà di fatto con il velo dell’ipocrisia è ovviamente opportuno, e non si contano, nei soli mesi più recenti, gli episodi che vanno in questa direzione e dimostrano, fra l’altro, con quanto zelo gli alleati degli Usa si prestino a questo gioco, non capendo (vogliamo sperarlo…) di destinarsi in tal modo a un futuro di sudditanza. Si pensi, ad esempio, alla decisione dell’Unione europea (fortemente voluta e appoggiata dall’allora ministro degli Esteri italiano Fini) di non pubblicare il proprio rapporto su Gerusalemme Est, che “critica la barriera di protezione fatta erigere dal governo Sharon, la minaccia di isolamento di Gerusalemme est dal resto dei territori (con “gravi conseguenze” sull’economia palestinese), la politica discriminatoria dello status dei palestinesi che vivono in città (dotati di una carta d’identità ma privati del diritto di voto) e le demolizioni delle loro abitazioni (“aumentate nel 2004” fino a toccare quota 150)”[viii] per non ostacolare la campagna elettorale di Olmert e non favorire quella di Hamas. O alla scelta, fortemente influenzata dalle ingiunzioni del ministro degli Esteri di Israele Livni, di mettere in grave crisi le finanze palestinesi, già compromesse dal rifiuto israeliano di versare i dovuti diritti doganali derivanti da legali vendite di merci, negando la prosecuzione degli aiuti economici all’Anp[ix]. O alla catena di connivenze che hanno coperto le oltre trecento missioni aeree della Cia nei paesi europei dove sono stati rapiti e torturati “nemici” degli Usa e istituite carceri segrete[x]. Tanto per richiamare qualcuno dei molti casi eclatanti.

La triste, tragica realtà è che, di fronte a questa situazione, le capacità di reazione di quanti vi si oppongono sono ridotte al minimo. Nulle sul piano dell’influenza diretta sui governi di paesi come quelli europei, che hanno ormai imboccato la comoda strada della sovranità limitata e si sono piegati, perlopiù di buon grado, alla legge del più forte, sono estremamente scarse anche nell’ambito potenzialmente più praticabile del dialogo con l’opinione pubblica. Alla radice di questa insufficienza c’è una carenza di strumenti dovuta soprattutto a scarsità di risorse economiche (senza giornali o reti televisive oggi inserirsi con efficacia nei processi di formazione delle mentalità è quasi impossibile) ma anche a una sensazione di impotenza che è il frutto di divisioni insensate, ereditate da un passato ormai lontano e tenute in vita dalla logica autolesionista delle appartenenze ereditate. Sul terreno delle valutazioni – e delle azioni – di politica internazionale, la distinzione in base alle esauste categorie di destra, sinistra e centro ha fatto, ancor più che altrove, il suo tempo, ed è una pesante palla al piede per tutti coloro che si ribellano alle ingiustizie e alle sopraffazioni dell’ordine globale unipolare. Lo si è visto negli scorsi anni, quando un’iniziativa culturale e politica più efficace per denunciare le vere cause e le prevedibili conseguenze della spedizione militare irachena (e dei suoi non meno criticabili addentellati, camuffati da “missioni di pace” e da attività di “operatori della sicurezza privata”) è stata resa impossibile dal gioco delle parti che ha suggerito a molti critici della crociata occidentale, in nome del patriottismo di partito, di deprecarla a parole e avallarla nei fatti. Se ciò dovesse accadere anche di fronte a un nuovo capitolo della guerra made in Usa, il destino dell’Europa sarebbe segnato, e nella prevedibile scoraggiante parabola di un pacifismo meramente emozionale, privo di chiari referenti positivi, si consumerebbe un’occasione irripetibile di chiudere il capitolo di indecente servilismo che da quindici anni scorre sotto i nostri occhi, pagina dopo pagina. Per quanto flebile sia la voce che si alza da queste colonne, vogliamo che sia chiaro l’impegno che essa esprime: oggi più che mai, opporsi ai disegni imperialistici che si celano sotto l’apologia della “civiltà occidentale” è un dovere etico, politico, culturale e, se è ancora lecito pronunciare questa parola senza apparire estranei al tempo che stiamo vivendo. spirituale.

Marco Tarchi



[i] Ad esempio, “La Repubblica”, che pure è avida di scoop e fa parte di un gruppo editoriale internazionale che non ha totalmente sposato la politica di Washington in Iraq, l’ha relegata in un trafiletto microscopico (20 righe) in fondo a pagina 12 nella sua edizione dell’1 dicembre 2005.

[ii] Cfr. Vanna Vannuccini, Teheran sfida l’Occidente. “L’Olocausto? Colpa vostra”, in “La Repubblica”, xxxx 2005, pag. 12.

[iii] Cfr. Giampaolo Cadalanu, Iran, misterioso disastro aereo, decapitato il vertice dei Pasdaran, in “La Repubblica”, 10 gennaio 2006, dove si legge fra l’altro: “L’incidente spazza via la leadership di un corpo militare separato, che schiera sue forze di terra, aviazione e marina e riveste un ruolo politico molto preciso, denunciato spesso anche dagli iraniani moderati. È vero che i ricambi meccanici degli aerei sono inclusi nelle sanzioni decretate dagli Usa, e che quindi non può essere esclusa l’ipotesi di un guasto […] Ma l’incidente sembra davvero “provvidenziale”, tanto più dopo che indiscrezioni di stampa hanno segnalato la volontà Usa di distruggere gli impianti nucleari di Teheran con un raid a sorpresa”.

[iv] Vanna Vannuccini, art. cit.

[v] Ivi. Sarebbe interessante chiedersi quali sono le convinzioni, in materia di Giudizio Universale, di resurrezione della carne o di credibilità dei miracoli o dei misteri di Fatima, di George W. Bush, e se sulla base di esse si possano o debbano giudicare le azioni del presidente degli Usa, o di qualunque altro politico cristiano o di altra confessione religiosa.

[vi] Ivi.

[vii] Renzo Guolo, I semi della democrazia nel mondo islamico, in “La Repubblica”, 21 dicembre 2005, pag. 22.

[viii] Alberto D’Argenio, La Ue blocca il dossier Gerusalemme, in “La Repubblica”, dicembre 2005, pag, 20.

[ix] Cfr. Alberto Stabile, Olmert: “No a un governo terrorista”, in “La Repubblica”, 27 gennaio 2006, pag. 7. Le parole di Livni ivi riportate sono: “L’Europa deve parlar chiaro e dire che non accetterà un processo che porti alla formazione di un governo terrorista”.

[x] Cfr. Enrico Franceschini, Trecento voli della Cia in Europa, in “La Repubblica”, 2 dicembre 2005, pag. 10.

 

da DIORAMA LETTERARIO n. 277