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Il gas filtra attraverso le fessure dell’asse occidentale contro la Siria

di Finiani Cunningham - 24/08/2013


1098439Un motivo ricorrente nella crisi siriana è la coincidenza sospetta tra massacri e momenti in cui vi è un cambiamento del contesto politico. Ciò è importante da tenere in mente al momento di valutare le notizie di questa settimana su un presunto massacro con armi chimiche presso Damasco, dove alcuni rapporti parlano di oltre 1.100 morti. Il governo siriano ha negato con forza responsabilità per l’incidente e ha addirittura messo in discussione che tali armi siano state effettivamente utilizzate. In precedenza, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato convocato per votare severe sanzioni internazionali contro il governo del Presidente Bashar al-Assad, un massacro o un bombardamento atroce si verificava, come nel noto caso del villaggio di Hula, nel maggio 2012, quando più di 100 civili furono massacrati…
In genere, il governo di Assad sarebbe stato fermamente condannato dai media occidentali e dai loro alleati stranieri, condannando la Russia, la Cina e l’Iran per sostenere un “regime dispotico”. Nelle settimane successive, tuttavia, il massacro di Hula fu, come per molti altri simili eccidi, indicata essere un’azione dei mercenari filo-occidentali. Tale seguito dei massacri siriani ebbe scarsa copertura nei media occidentali. La fiammata iniziale di titoli aggressivi e totalmente disinformativi lasciava la prevista impressione residuale di una colpa del governo di Assad. Il presunto attacco con armi chimiche nella periferia di Damasco, di questa settimana, segue lo stesso schema. Washington ha portato l’occidente a condannare il governo siriano senza fornire alcun elemento di prova. Ma la domanda più eloquente è: qual è il significativo sfondo politico, questa volta? Per quasi due anni e mezzo, la Siria è al centro di una guerra di aggressione occulta volta a destabilizzare il Paese e ad istigare il cambiamento di regime. L’asse occidentale che sponsorizza la guerra segreta in Siria sembrava, per un momento, avere il sopravvento e la possibilità di un imminente cambio di regime, proprio come gli era riuscito in Libia con l’omicidio di Muammar Gheddafi, alla fine del 2011. Ma in Siria l’equilibrio strategico della guerra s’è, per vari motivi, spostato a favore del governo di Assad, la cui presa sul potere ora sembra più sicura mentre le forze del Paese compiono sempre maggiori progressi militari, questo mese, scacciando i mercenari filo-occidentali. Anzi, si potrebbe dire che l’agenda occidentale per un cambio di regime in Siria si trova ad affrontare l’eventuale sconfitta, almeno sul piano militare. Il punto di svolta è stata la vittoria nella città chiave regionale di Qusayr, durante la prima settimana di giugno. Da allora, i militanti filo-stranieri furono messi decisamente in fuga, dirigendosi verso le roccaforti rimastegli, nella città settentrionale di Aleppo e nella provincia orientale di Deir al-Zor.
Tale nuova dinamica ha portato a tensioni nell’asse che supporta questo ordine del giorno. Tale asse comprende le principali potenze occidentali, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, insieme agli alleati regionali Israele, Turchia e monarchie arabe del Golfo Persico, in primo luogo Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Nuove tensioni sembrano essere venute alla ribalta tra Stati Uniti e Arabia Saudita. I due Paesi hanno un’alleanza geo-strategica dal 1945, quando l’allora re Abdulaziz ibn Saud promise di concedere la priorità agli Stati Uniti per la sua ricchezza petrolifera appena scoperta. Le tensioni tra gli Stati Uniti e il loro cliente saudita sono un nuovo, imprevisto sviluppo. Ma possono essere viste non solo sulla Siria, ma anche riguardo i recenti avvenimenti in Egitto. Riguardo la Siria, da un lato sembra essere emerso un campo più realista, guidato da Washington, che accetta che l’opzione militare si sia esaurita e che il cambio di regime a Damasco deve essere effettuato quindi con una più sofisticata tattica politica, da provare ora magari iniziando i cosiddetti negoziati di Ginevra II. Dall’altra parte vi è un temerario campo militarista, che vuole ancora perseguire la possibilità di un cambio di regime in Siria attraverso la violenza. In quest’ultimo campo c’è l’Arabia Saudita, e praticamente nessun altro tranne che i mercenari irriducibili rimasti in Siria, che il regno sostiene. Ricordiamo che il Qatar è stato recentemente messo da parte nel suo ruolo di principale fornitore di armi in Siria, per via della meschina rivalità con l’Arabia Saudita. Vi è la probabilità che un Qatar seccato possa godersi la schadenfreude lasciando che i sauditi si contorcano nella loro stessa trappola. Va notato anche che il governo turco di Recep Tayyip Erdogan, che insieme all’Arabia Saudita e al Qatar aveva svolto un importante, anche se occulto, ruolo di coordinamento nel rifornire di armi i militanti in Siria, recentemente si avrebbe fatto marcia indietro sull’agenda militare per il cambio di regime nel suo vicino meridionale. E’ stato anche riferito che Ankara cerchi di prendere le distanze dall’estremista Jabhat al-Nusra, principale brigata mercenaria responsabile delle autobombe e dei diversi contraccolpi nel territorio turco, ricadute della sua campagna terroristica in Siria.
L’esplosione delle tensioni nell’asse occidentale tra Stati Uniti e Arabia Saudita potrebbe spiegare il presunto uso di armi chimiche vicino Damasco di questa settimana, in cui si afferma che tra 500 e  1500 persone siano state uccise dall’esposizione al micidiale agente nervino Sarin. I media mainstream occidentali naturalmente accentuano le accuse secondo cui l’attacco chimico sia stato effettuato dalle forze siriane fedeli al Presidente Assad. Probabilmente l’attacco, se si dimostrasse verificatosi realmente, è stato effettuato dai militanti stranieri che cercano di rovesciare il governo di Assad. I precedenti casi sull’uso di armi chimiche, come ad esempio l’attacco a Khan al-Assal, vicino Aleppo, il 19 marzo di quest’anno, in cui più di 25 persone vennero uccise, furono successivamente scoperti essere opera dei mercenari anti-governativi. Un rapporto ufficiale russo del mese scorso sull’attacco a Khan al-Assal, confermano le accuse contro i militanti. Nell’ultimo presunto attacco con armi chimiche, è forse significativo che le prime relazioni provengano dai media statali sauditi. Le affermazioni sulla colpevolezza del governo siriano quindi si sono diffuse rapidamente nei media occidentali. Lo stesso giorno, il ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal chiedeva una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per quella che sembrava una condanna preordinata del governo di Damasco, e senza prove. Sembrava esserci uno stretto coordinamento tra media sauditi e il gruppo dell’opposizione filo-saudita, la Coalizione nazionale siriana, che ha diffuso le affermazioni sulle armi chimiche.
Paradossalmente, mentre i governi occidentali decidevano tardivamente di non supportare più materialmente i militanti in Siria, sembra che ci sia un’escalation di massacri e altri crimini efferati. Autobombe nella zona di Damasco hanno ucciso decine di civili il mese scorso, rapimenti ed esecuzioni a sangue freddo di prigionieri nella provincia nord-occidentale di Latakia; stragi in villaggi come al-Ain, a nord-est di Deir al-Zor, e di nuovo a Khan al-Assal, vicino Aleppo, e significativamente scontri intestini fra gruppi militanti rivali. Questa ondata di terrore è stata perpetrata principalmente dalle milizie filo al-Qaida, come Jabhat al-Nusra e lo Stato Islamico dell’Iraq e Sham. Questi gruppi wahabiti estremisti sono strettamente sponsorizzati dall’Arabia Saudita, a cui destina circa il 60 per cento delle armi saudite inviate in Siria, ma che hanno anche profondi legami con l’intelligence militare del regno. E’ plausibile che l’aumento delle stragi compiute dai terroristi, compreso l’ultimo presunto uso di armi chimiche, siano il segno della disperazione di questi gruppi e del loro sponsor saudita, che si sentono abbandonati sul campo di operazioni siriano dalle non più entusiaste potenze occidentali. Ciò suggerisce l’isolamento dell’Arabia Saudita nell’asse occidentale. Data la profonda insicurezza psicologica dei governanti sauditi sulla loro precaria presa sul potere, il recente isolamento in Siria sembra avere immerso l’Arabia Saudita nella paranoia sulle intenzioni geopolitiche occidentali.
Il mutamento della posizione occidentale verso la Siria è stata tacitamente ammessa, il mese scorso, dal segretario di Stato statunitense John Kerry, quando a New York ha incontrato i membri della cosiddetta Coalizione Nazionale Siriana. Alla delegazione del CNS filo-saudita non è stata concesso l’importante incontro a Washington, e Kerry ha acutamente detto ai suoi ospiti che “non vi è alcuna soluzione militare” in Siria. Inoltre, Kerry ha invitato la delegazione del CNS ad impegnarsi in negoziati politici con il governo del Presidente Bashar al-Assad. Tutto ciò fu appena notato nei media occidentali, ma segnava una svolta fondamentale nelle tattiche statunitensi. Washington non chiede più ad Assad di dimettersi senza condizioni, come essa e i suoi alleati occidentali avevano preteso precedentemente fino alla nausea. La politica di Washington ora era dare una possibilità alla politica, senza dubbio avendo ancora l’idea a lungo termine di scalzare Assad, ma per vie alternative, dal momento che l’opzione militare s’era dimostrata una mossa inutile. Notevole è anche stata la presa di posizione attenuata di Londra e Parigi verso la Siria, nelle ultime settimane. Ricordiamo come queste due ex-potenze coloniali nei mesi passati siano state spesso rumorose nel chiedere ad Assad di dimettersi. Quegli appelli veementi ora sembrano essere stati tranquillamente accantonati, in linea con l’approccio più diffidente di Washington verso il “problema siriano”. Questo sostegno apparentemente è distante dall’opzione militarista per un cambio di regime in Siria, riflettendosi sul ritardo prolungato per le promesse armi occidentali ai militanti. Mentre  già ai primi di giugno Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno dato via libera all’invio aperto di armi in Siria, le tanto decantate promesse non si sono ancora concretizzate. La reticenza nel fornire altre armi da parte degli Stati occidentali, riflette il riconoscimento implicito che l’opzione militare per il cambio di regime è stata sventata. Con l’Esercito Nazionale siriano che avanza, le potenze occidentali si rendono conto che l’invio di altre armi in questa fase equivale a frustare un cavallo morto di fame. Dopo più di 100.000 morti, milioni di profughi e il governo di Damasco che conserva il sostegno popolare, gli sponsor occidentali del cambiamento di regime hanno concluso, un po’ cinicamente, che le loro ambizioni militari segrete sono diventate superflue. Lo spostamento tattico dell’agenda occidentale verso la Siria, dal militarismo alla politica, secondo vari rapporti ha suscitato risentimento tra i militanti in Siria, verso gli Stati Uniti in particolare, e anche tra i sostenitori sauditi dei militanti verso il loro ex-alleato di Washington. Quando Kerry ha detto alla delegazione del CNS a New York, il mese scorso, che non c’era soluzione militare e che dovevano impegnarsi politicamente con il governo di Damasco, ne risultò una malcelata animosità contro Washington. La delegazione era venuta negli Stati Uniti nel tentativo di strappare ulteriori forniture di armi. Dopo l’incontro con Kerry, il nuovo capo del CNS Ahmad al-Jarba, vicino all’intelligence saudita, ha detto: “negarci il diritto all’auto-difesa rischia di far sopravvivere il regime. Migliaia saranno giustiziati, la repressione continuerà senza fine.” Non  solo gli esuli del CNS sono sconvolti dalla nuova posizione politica di Washington. Anche i funzionari sauditi premono sugli USA sul perché non avviene la consegna delle armi promesse. E’ stato riferito che i sauditi hanno ritenuto di non avere avuto ragioni convincenti sul perché gli Stati Uniti rimanessero freddi.
Ad aggravare la delusione saudita c’era il fatto che avevano recentemente sostituito il Qatar quale principale attore regionale nel dirigere i mercenari del cambiamento di regime. Ora sembra che Washington stia di fatto minando il comando saudita, trattenendo l’invio di altre armi. Naturalmente, l’Arabia Saudita può inviare le proprie armi, senza gli Stati Uniti o altre forme di sostegno occidentale. Il regno del petrolio accumula da anni quantità sovrabbondanti di armamenti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, ed è stato riportato, all’inizio di questo mese, che ha anche acquistato 50 milioni dollari di armamenti da Israele, per rifornire i militanti in Siria. Tuttavia, l’atteggiamento più cauto di Washington verso la Siria indubbiamente mette in difficoltà Riyadh. Quest’ultima, a quanto pare, è stata lasciata ad arrangiarsi nel pantano siriano. Riflettendo questa seccatura, il re saudita Abdullah, questa settimana, ha in modo straordinario attaccato verbalmente Washington per gli ultimi avvenimenti in Egitto. Re Abdullah non ha citato gli Stati Uniti per nome, in linea con il protocollo diplomatico, ma era evidente che condannava Washington per la sua presunta “ingerenza ignorante” nella politica egiziana. Secondo il re saudita, gli Stati Uniti sono in parte responsabili dell’ascesa politica dei Fratelli musulmani e della destabilizzazione dell’Egitto, anche se Washington ha appoggiato la cacciata del presidente dei Fratelli musulmani Muhammad Mursi.
L’esplosione saudita contro il suo mecenate statunitense è indicativa delle rombanti tensioni che emergono sulla Siria. Tali tensioni potrebbero anche spiegare “il perché” della presunta atrocità con armi chimiche di questa settimana. Sentendosi abbandonati, i giocatori sauditi in Siria potrebbero flettere i loro muscoli, alzando la posta in modo da costringere Washington e gli altri Stati occidentali a tornare sulla via militarista. Si ricordi che il presidente Obama aveva già avvertito che l’uso di armi chimiche sarebbe la linea rossa che innescherebbe l’intervento militare occidentale in Siria. Sembrerebbe che qualcuno abbia convenientemente e sfacciatamente tracciato una brillante linea rossa in faccia ad Obama.

La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.