I Saud gettano petrolio sulla mossa USA-Iran
di Finian Cunningham - 01/11/2013
Il battibecco dell’Arabia Saudita con il suo storico alleato di Washington può finire in diversi modi. Punti dalla “doppia morale” degli USA in Medio Oriente (che ironia?), gli anziani della Casa dei Saud, tra cui il capo dell’intelligence, principe Bandar bin Sultan, hanno lasciato intendere che il regno petrolifero può acquistare altrove i suoi giocattoli bellici miliardari che tradizionalmente compra da Washington. Considerata la situazione critica dell’economia industriale degli Stati Uniti, la perdita dell’esportazione in un tale settore chiave delle entrate, sarebbe un brutto colpo… Un altro mezzo con cui l’Arabia Saudita potrebbe punzecchiare gli “inetti americani”, sarebbe far scivolare sul petrolio i cruciali colloqui USA-Iran sulla perenne questione nucleare. In particolare, l’Arabia Saudita, principale forza produttiva del cartello petrolifero dell’OPEC, potrebbe rendere problematica l’eliminazione delle sanzioni all’Iran. Non che Washington si preoccupi troppo di togliere le sanzioni che ha posto, ma la riluttanza saudita potrebbe danneggiare ciò che sembra essere la cinica mossa degli Stati Uniti impegnandosi diplomaticamente con l’Iran per ragioni geo-strategiche.
Per i sauditi, questo possibile vandalismo sarebbe la dolce vendetta per l’esasperazione dettata dall’indecisione statunitense su Siria e Iran. Il regno saudita wahabita è ossessionato dall’idea di sconfiggere l’Islam sciita rappresentato dall’Iran e dai suoi alleati Siria ed Hezbollah libanese. L’ossessione è confermata da un’arcana animosità settaria e anche da una più banale rivalità politica. Il prestigio della rivoluzione iraniana nel Medio Oriente e il suo tagliente anti-imperialismo sono ispirazioni pericolose per gli arabi comuni, dal punto di vista della Casa dei Saud. Quindi, l’apparente dietrofront degli Stati Uniti, prima rinunciando all’occasione di attaccare totalmente la Siria, il mese scorso, e poi con la sorpresa del riavvicinamento degli USA a Teheran sul decennale contenzioso nucleare, ha provocato le ire dei fondamentalisti sauditi. Ciò spiega la straordinaria stizza espressa dal principe Bandar, il capo delle spie saudite. Dati i suoi stretti contatti con le istituzioni di Washington, essendovi stato ambasciatore per 22 anni (1983-2005), possiamo essere certi che la chiusura e le minacce di Bandar ai diplomatici occidentali inviino un messaggio della Casa dei Saud ai vertici governativi degli Stati Uniti. I sauditi non solo sono scontenti dei loro mecenati statunitensi, ma sono addolorati da ciò che percepiscono come un tradimento. La situazione precaria della Casa dei Saud, in quanto governanti non eletti del più grande Paese esportatore di petrolio del mondo, dove la ricca élite è incongruamente affiancata dalla greve povertà dei 20 milioni di abitanti comuni, produce un’intensa mentalità da somma zero. Qualsiasi contrattempo percepito dai governanti o concessione ai rivali, risulta intollerabile per il regime dispotico dall’autorità insicura, sia all’interno che a livello regionale. Perciò le sue reazioni sono così veementi, come ad esempio il furioso rifiuto, all’inizio di ottobre, del seggio di membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ancora, un’altra azione diretta a mostrare disappunto verso Washington.
L’animosità saudita verso l’Iran, la Siria ed Hezbollah, la Mezzaluna sciita, ovviamente non è per nulla nuova. Tale invidia geopolitica può essere fatta risalire alla Rivoluzione Islamica del 1979. Per sue ragioni egemoniche, Washington coltivò la rivalità saudita verso l’Iran, presentando le monarchie arabe sunnite del Golfo Persico come il baluardo contro le sollevazioni popolari d’ispirazione iraniana. Il Bahrain è forse l’esempio migliore, dove Stati Uniti ed Arabia Saudita collusero per schiacciare il movimento pro-democrazia in Bahrain, sorto durante la primavera araba del 2011. La propaganda contro l’insurrezione in Bahrain del regime saudita, con il tacito consenso di Washington, incolpava della rivolta le agenzie sovversive di Iran e Hezbollah. L’Iran nega qualsiasi interferenza politica negli affari interni delle monarchie sunnite. Teheran afferma, con corretto ragionamento, che i disordini in Bahrain, Arabia Saudita e gli altri sceiccati del petrolio sono semplicemente il riflesso del pesante deficit democratico in questi Stati fascisti. La primavera araba ha anche dato alla Casa dei Saud l’occasione d’oro per colpire di nuovo la Mezzaluna sciita, unendosi alla guerra occulta occidentale per il cambio di regime in Siria. Scalzando il governo del Presidente Bashar al-Assad, secondo tale logica, avrebbe inflitto un potente colpo all’influenza regionale dell’Iran. Ma l’opzione militare contro la Siria e l’Iran s’è dimostrato uno strumento inefficace riguardo gli obiettivi strategici voluti dagli occidentali. I governi siriano e iraniano resistono indomiti, nonostante anni di brutale aggressione sotto forma di eserciti di ascari mercenari e la serie di sanzioni economiche contro il secondo. Ciò spiegherebbe perché Washington e i suoi alleati occidentali Francia e Gran Bretagna, sembrino pronti ad accettare l’opzione politica dei negoziati diplomatici. Non che Washington rinunci ai suoi obiettivi strategici contro Siria e Iran. Solo che la tattica passa dall’aggressione militare al wrestling politico. Come il teorico militare prussiano Carl von Clausewitz (1780-1831) ha giustamente indicato, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, e viceversa. Dal punto di vista di Washington, con questo passaggio prenderebbe due piccioni strategici con una fava. Impegnandosi in un processo politico con Iran e Siria, potrebbero scambiarsi rispettivamente delle concessioni, con il risultato importante di indebolire entrambi i governi. Una potenziale vulnerabilità sarebbe l’urgente bisogno dell’Iran di far togliere le sanzioni economiche. La prontezza della nuova spinta diplomatica dell’Iran, nello stallo nucleare, dimostra che la Repubblica islamica ha un acuto bisogno di togliersi l’embargo economico occidentale. Si calcola che la combinazione delle sanzioni dell’Unione europea e statunitensi imposte all’Iran a metà 2012, da sola abbia afflitto oltre la metà delle esportazioni di petrolio, con la conseguente perdita di 35 miliardi dollari di entrate l’anno scorso. Ciò può essere descritto solo come una devastante, se non criminale, aggressione.
L’elezione del presidente iraniano Hassan Ruhani a metà giugno e la nomina di Muhammad Javad Zarif, di formazione occidentale, a ministro degli Esteri, hanno comportato un cambiamento di rotta nelle relazioni dell’Iran con Washington e i membri del gruppo 5+1 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, della Germania, dell’UE e dell’osservatorio nucleare delle Nazioni Unite, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. I colloqui con l’AIEA questa settimana, a Vienna, sono stati descritti “gravi e seri”. Tutti questi colloqui sono stati indicati “costruttivi” e “progressivi”. Tale drammatico cambiamento può in gran parte essere la manifestazione dell’urgente necessità dell’Iran di togliere le restrizioni occidentali sulla sua economia. Ma questo sviluppo diplomatico può anche essere essere visto quale tentativo di Washington e dei suoi alleati occidentali d’impegnare politicamente l’Iran sulle loro pressanti ragioni tattiche, riguardo la realizzazione di obiettivi strategici verso l’Iran e la Siria. Dopo il primo ciclo di negoziati tra l’Iran e il gruppo P5+1 a Ginevra il mese scorso, vi furono i vertiginosi elogi di Washington e delle potenze europee. Ma in vista del secondo round di colloqui, in programma a Ginevra la prossima settimana, vi sono diversi segnali secondo cui Washington e gli europei ritornerebbero a giocare duro. L’amministrazione Obama afferma che non saranno tolte le sanzioni per molto tempo e che l’Iran dovrà presentare la prova concreta di non volere armi nucleari. Il Congresso degli Stati Uniti prepara anche l’approvazione di una legge che inasprirà ancor più le sanzioni, mentre l’UE starebbe intensificando l’applicazione del relativo embargo sul commercio e la finanza iraniani. L’effetto di tale indurimento spingerebbe l’Iran a concessioni politiche, tanto più che ne guadagnerebbe l’allettante prospettiva di eliminare le sanzioni. Qui l’Iran deve procedere con cautela, dato che la sua popolazione nazionalista è profondamente sospettosa verso le intenzioni occidentali. Finora, la presidenza Ruhani insiste sul fatto che il diritto del Paese di arricchire l’uranio del 20 per cento per scopi civili, non è negoziabile. E’ inconcepibile che il governo di Teheran sopravviva politicamente se dovesse cedere su un tema così cruciale. Ciò solleva la questione su quali altre concessioni l’occidente pretenderebbe dall’Iran per la tanto necessaria eliminazione delle sanzioni? Forse agli iraniani potrebbe essere chiesto di fungere da interlocutori consentendo all’occidente di strappare concessioni dal governo di Damasco riguardo l’imposizione di un governo di transizione.
Nel perseguire le sue macchinazioni politiche, l’occidente deve procedere con eleganza e delicatezza. Per prima cosa, deve far sembrare che conceda qualcosa agli iraniani, altrimenti l’Iran non si impegnerà o le masse iraniane richiederanno il completo ritiro da un processo inutile. A tal proposito, è significativo che la Casa Bianca dica di valutare di scongelare 50 miliardi di dollari in beni iraniani. Tale importo compenserebbe la perdita dei proventi petroliferi dell’Iran dell’anno scorso. E sembra che l’Iran stia anticipando il ritorno sui mercati internazionali del petrolio, grazie a un più agevole clima diplomatico. L’agenzia Reuters ha riferito la settimana scorsa: “L’Iran incontrerà i suoi vecchi acquirenti petroliferi ed è pronto a ridurre i prezzi, se le sanzioni occidentali verranno tolte”. L’articolo aggiungeva: “L”offensiva del fascino’ del nuovo presidente iraniano Hassan Ruhani alle Nazioni Unite, lo scorso mese, assieme alla storica telefonata del presidente statunitense Barack Obama, ha fatto rivivere nei mercati la speranza che i barili iraniani possano ritornare come una vendetta, se il rumore diplomatico si traduce nella musica della svolta nel braccio di ferro sul controverso programma nucleare di Teheran”. Reuters citava un imprenditore petrolifero: “Gli iraniani già richiamano tutti dicendo ‘parliamone’… bisogna stare attenti, naturalmente, ma non c’è nessuna legge che vieti di parlare”.
Quindi, è qui che i sauditi comprendono che il “tradimento” degli USA potrebbe divenire pericoloso con l’impegno tattico di Washington verso Iran e Siria. Il ritiro forzato dell’Iran dai mercati del petrolio, a causa delle sanzioni occidentali, fu colmato dal picco di produzione petrolifera saudita, contribuendo l’anno passato a mantenere i prezzi di mercato sui 100 dollari al barile. La produzione di petrolio saudita sarebbe stato al suo massimo, quasi pari la piena capacità di 12 milioni di barili al giorno. Per Washington, impegnandosi nel processo politico con l’Iran, anche per motivi completamente cinici, dovrà mostrare un certo grado di flessibilità consentendo all’Iran di riprendere almeno una parte delle vitali esportazioni petrolifere. Tuttavia, l’apertura a quanto pare è anche prerogativa dell’Arabia Saudita, la cui produzione extra di petrolio ha coperto il deficit globale dovuto alle sanzioni alle forniture iraniane. I sauditi difficilmente sosterranno una qualsiasi ripresa del business petrolifero iraniano. In questo modo, i sauditi hanno il potere di gettare un bastone oleoso tra le ruote diplomatiche che Washington cerca di far girare verso l’Iran.
La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora