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Il “giuscivilismo”, l’illusione dell’auto-emancipazione individuale

di Matteo Volpe - 27/05/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


L'enfasi posta sui diritti civili suggerisce una visione della società come somma algebrica di variabili individuali, liberi agenti pienamente responsabili della loro condizione, ignorando come e quanto essi siano in realtà agiti dalle dinamiche storiche e dai rapporti di produzione

   

Il dibattito sui cosiddetti diritti civili è sempre più presente nella politica delle società occidentali. Considerato in modo decontestualizzato potrebbe anche apparire un fenomeno apprezzabile. Ma osservando lo specifica condizione sociale, si tratta di questioni affatto secondarie, che però rischiano di oscurare i veri problemi di società definite “evolute”, dove si riaffacciano fenomeni che parevano superati, come disoccupazione, mancanza di tutele sociali di base e impoverimento di fette crescenti della popolazione. Questi temi sono affrontati in modo spesso approssimativo, senza la necessaria competenza da parte del pubblico e perfino dei cosiddetti “esperti”, o spacciati tali dai media. Nel frattempo ci si accanisce nello scontro tra sostenitori del matrimonio omosessuale e suoi avversari, fautori della legalizzazione delle droghe leggere e proibizionisti, favorevoli a leggi che promuovano i diritti delle donne, anche attraverso la “discriminazione positiva”, e contrari.

Si tratta di questioni che sicuramente meritano di essere trattate (magari facendo a meno degli opposti fanatismi che accompagnano ogni discussione) ma che non possono che retrocedere in secondo piano di fronte alla recessione economica, alle diseguaglianze sociali e alle politiche necessarie a risolverle. Spesso manca la comprensione di come, qualsiasi giudizio di merito se ne voglia dare, i cosiddetti diritti civili interessino per lo più una piccola parte di individui e generalmente in circostanze non così determinanti per la loro vita. Quindi, qualsiasi decisione si decida di prendere, non può che avere un effetto limitato e blando sulla società nel suo complesso, considerazione questa che però sfugge agli attivisti e a quanti prendono parte alle diatribe cui i media danno ampio spazio. Non altrettanto si può dire riguardo al lavoro, alle tutele sociali, al reddito e alle differenze di classe, alla qualità dell’istruzione e della sanità e all’accesso ai servizi.

La politica italiana spesso si divide in opposti schieramenti che fanno dei diritti civili questioni di vita o di morte. La sinistra, spesso anche parte di quella considerata “radicale”, ne esalta le virtù emancipative, distinguendo tra società progredite e arretrate sulla base della legislazione in materia. La destra, al contrario, ne ha per lo più una percezione catastrofica, immaginando flagelli biblici nel caso in cui si accettino le innovazioni del diritto in campi che spesso coinvolgono le credenze religiose. Entrambi drammatizzano il confronto, sovraccaricandolo di significati e contribuendo tra l’altro ad alimentare i pregiudizi nei confronti di quelle categorie di individui che si intende difendere. Sembra a tutti sfuggire che rivendicarne l’acquisizione come fattore di emancipazione e di civilizzazione, o all’opposto di degrado morale e di imbarbarimento dei costumi, significa imputare effetti sociali e comunitari alla sfera della vita individuale. Significa credere che si possa ottenere libertà e felicità attraverso una ricerca e una lotta individuale, indipendentemente dalle condizioni sociali e storiche nelle quali l’individuo si trova a vivere. L’organizzazione della società è del tutto esclusa dai discorsi. Questa deve limitarsi a regolamentare i criteri di convivenza e a stabilire le regole entro le quali la competizione tra i singoli può scatenarsi. Lo Stato è un arbitro, che lascia sbrigarsela agli attori in gioco, senza modificarne i rapporti di forza purché questi rispettino il regolamento. Lo Stato secondo questa visione è come il Dio di Cartesio secondo Pascal: dà un colpetto al mondo e poi si ritira diventando inutile.

La criminalizzazione delle ideologie – di tutte le ideologie tranne di quelle che non interferiscono con i piani del capitale – ha certamente favorito una simile degenerazione. Ha permesso la diffusione di coscienze individualiste, che puntano tutto sull’autorealizzazione personale, scaricando sulla “libera scelta” del singolo vizi e virtù della sua condizione sociale. La sinistra, o ciò che può essere sua erede, ha da questo punto di vista le colpe maggiori. Essa infatti si era assunta l’impegno della realizzazione del riscatto sociale della massa dei diseredati, attraverso l’unione di classe contro l’oppressore, ma ha finito per trasformare la sua promessa in una tragica e beffarda parodia, in cui l’antiproibizionismo diventa l’unico orizzonte politico nel quale l’individuo atomizzato e sradicato in cerca di riscatto è costretto a muoversi.

La sinistra ha abbandonato il socialismo e il marxismo per abbracciare un’aleatoria “etica dei diritti” in cui si pretende di dare a ciascuno il diritto che gli spetta, non si capisce se per rivelazione divina o in quanto riedizione di un volgare giusnaturalismo in chiave post-moderna. Manca del tutto l’analisi storica e sociale, così come la volontà di capirne le dinamiche per incidere sulla sfera economica. Alla destra, da par suo, non sembra vero di poter finalmente sguazzare liberamente in questo pantano senza nessuno che la limiti e anzi venendo persino incoraggiata a farlo. Un tempo doveva, sia pur soltanto per considerazioni di opportunità politica, flirtare con lo statalismo, allearsi con il socialismo, magari quello un po’ più moderato. Adesso può gridare impunemente che lo stato è corrotto e sprecone e che perciò bisogna privatizzare anche l’aria che si respira, tra l’approvazione di presunti avversari politici; il “giuscivilismo”, se così si può chiamare la prospettiva che enfatizza le conseguenze di leggi sui diritti civili e ne promuove l’approvazione, è perfettamente coerente col darwinismo sociale della destra. E non a caso, la parte politicamente più scaltra di essa, in Italia ancora minoritaria, l’ha abbracciato con entusiasmo: l’individuo può con le proprie forze, e soltanto con esse, liberarsi dalle catene, ed anzi la società è persino di ostacolo a questa autorealizzazione, l’unica cosa buona che può fare è eliminare i “lacci e lacciuoli” della burocrazia statale che ostacolano la “ricerca della felicità”.

In politica estera, poi, tutte le forza politiche – tanto le une pro-choice, quanto le altrepro-life – si trovano sullo stesso fronte, a combattere le “dittature” e i regimi “liberticidi” ovvero quei governi e quegli stati che hanno attuato un modello diverso da quello promosso dal capitalismo neoliberale e che considerano la solidarietà sociale prioritaria rispetto all’accesso individualistico ai mercati. Troviamo allora che Vendola auspica la “democratizzazione” del Venezuela con un’enfasi che farebbe impallidire i falchi americani, mentre Salvini partecipa assieme ai radicali alla campagna mediatica in favore dei monaci lamaisti e del “Tibet libero” sempre nel nome dei diritti individuali.

Diritti civili (o “umani”, variante applicata al diritto internazionale) senza nessun riguardo per il contesto; i “giuscivilisti” sono antistoricisti, o, più semplicemente, ignorano la storia e i contesti sociali. Per loro basta una leggina riguardo la sfera privata degli individui a determinare trionfi e disfatte di un paese. Dimenticata del tutto è la lezione di Marx, il quale nella prefazione a Per la critica dell’economia politica scriveva che “tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato […] sotto il termine di ‘società civile’”. Ognuno può affannarsi quanto vuole nella rincorsa all’autoemancipazione individuale, ma “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali”.