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Quale Europa?

di Daniele Frisio - 07/07/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


L'euroscetticismo è un fenomeno sempre più protagonista sullo scenario politico continentale: qual'è il suo reale potenziale? Quali le sue criticità principali? Un'analisi dell'euroscetticismo fuori dagli schemi perbenisti diventa oggi la condizione per poter leggere ed influenzare i possibili sviluppi del futuro europeo.

La questione dell’euroscetticismo riveste oggi un ruolo centrale nella dinamica politica del vecchio continente, darne un’interpretazione feconda diventa quindi un compito di grande rilievo, tanto più che la sua importanza è destinata –come prevedibile- a pesare sempre più sul futuro europeo. Anzitutto è necessario partire dalla considerazione forse banale, fino a pochi anni però non così scontata, che se il fenomeno euroscettico sta crescendo, significa che il divario fra le politiche della UE e i bisogni percepiti dalla popolazione sta inesorabilmente allargandosi. Ciò accade per diverse cause, le quali tengono però a comun denominatore il fatto che questo governo persegua interessi diversi e spesso divergenti da quelli europei: basti guardare alla situazione della Grecia o alle sciagurate sanzioni imposte alla Russia su diktat d’oltreoceano per rendersene conto. La totale assenza di una comune politica europea per gestire il fenomeno immigratorio di massa è in questo senso l’ultimo episodio di una lunga serie di fallimenti strategici, un’ autentica catastrofe che ha cominciato ad intaccare le convinzioni persino della post sinistra, finora strenua sostenitrice dell’Unione Europea. Insomma, la volontà di mettere in discussione lo status quo politico si sta facendo sempre più trasversale, da qui la necessità e l’opportunità di tracciare un solco. Constatato l’oggettivo fallimento di un sistema nato da un’unione a vocazione esclusivamente economica che sta mostrando tutti i suoi limiti, occorre ora compiere un secondo passaggio: concordare su obbiettivi e modalità del rivoluzionamento.

Chiariamo anzitutto che sotto l’etichetta di “euroscetticismo” troviamo diverse anime, con progetti e visioni del mondo spesso in antitesi, ma che essere euroscettici non significhi necessariamente rinnegare l’europeismo, anzi. L’identità europea esiste e trova radicamento su tre capisaldi fondamentali. Il primo riguarda la storia condivisa dai popoli che la abitano, un percorso lungo secoli che per quanto ci abbia visto divisi e spesso in guerra, ci accomuna da Stoccolma a Catania. Se pensiamo al fatto che un siciliano si senta più europeo che africano possiamo ben comprendere questa verità, la quale inoltre ci avvicina al secondo caposaldo identitario: il territorio. L’identità europea affonda le sue radici nella geografia, che è anche una delle determinanti che hanno dato sostanza al carattere e alle peculiarità dei popoli europei. Va inoltre sottolineata la continuità territoriale del continente, delimitato da confini ben precisi (Mediterraneo, Atlantico, Mare del nord, Urali). Infine troviamo l’aspetto valoriale:  la nostra cultura si è generata da due fonti principali, quella classico/pagana (in particolare grecità, romanità, nordicismo) e quella giudeo-cristiana (con tutte le differenziazioni e gli sviluppi del caso). Ovunque ci si rechi, in Europa si troveranno influenze da entrambi questi filoni. Il principale limite dell’euroscetticismo è dunque quella tentazione di chiusura in una visione ottocentesca, dominata da stati nazionali litigiosi e divisi: no, la storia chiama gli stati del continente ad unirsi per riappropriarsi di un ruolo da protagonisti sullo scacchiere mondiale, una responsabilità ed una vocazione troppo a lungo represse. Gli esisti nefasti della continua repressione dell’identità europea profonda e della sua volontà di potenza sono sotto gli occhi di tutti. Non possiamo infatti pensare che le crisi ai nostri confini, con riferimento particolare alle guerre in Medio oriente e in Ucraina, non abbiano un collegamento diretto con la grande assenza di un’Europa forte ed emancipata. E’ infatti assai probabile che alla Russia desterebbe poca preoccupazione l’adesione dell’Ucraina ad una potenza europea indipendente e priva dei minacciosi missili nato sul suo territorio (o comunque con la piena sovranità sugli stessi, invece della pericolosa sudditanza a strategie d’oltreoceano). Allo stesso modo una partnership Europea, in cui l’Italia potrebbe giocare un ruolo chiave visto i buoni rapporti che tradizionalmente ci legano al mondo islamico, alle forze che combattono il terrorismo salafita oltre le nostre coste, contribuirebbe enormemente sia a risolvere il conflitto, sia a mettere basi credibili per una gestione bipartisan del fenomeno migratorio. E’ insomma giunta l’ora di emanciparsi dall’occidentalismo e dalla sudditanza politica e militare agli Stati Uniti: è fin troppo evidente che gli USA seguano ormai logiche strategiche completamente separate da quelle europee. La nato poteva forse avere un significato durante la guerra fredda, ma ora sicuramente lo ha perso. Verrebbe quasi da insinuare che la volontà di resuscitare la politica dei blocchi contrapposti sia da leggere come il tentativo di fornire alla nato stessa una ragione d’esistere.

Se lo sganciamento dal patto atlantico e il recupero dell’orgoglio per le proprie radici si pongono come autentica condicio sine qua non per poter realizzare un’Europa protagonista del suo destino, resta però ancora da chiarire con che modalità portare ad attuazione il cambiamento. Le due tendenze maggioritarie sono agli antipodi: da un lato c’è chi vorrebbe potenziare l’attuale struttura, togliendo ulteriore sovranità agli stati europei per realizzare un’unione politica forte, dall’altro ci si propone di restituire alle nazioni l’autonomia decisionale, specie in materia monetaria. Visti però i presupposti  sopraelencati  sarebbe da chiedere ai sostenitori della prima opzione in base a quali ottimistiche previsioni il potenziamento dello status quo potrebbe realizzare quell’Europa a cui tutti aspiriamo: come possiamo pensare di attuare un cambiamento radicale se in prima battuta riproponiamo lo schema dell’imposizione calata dall’alto? Ma soprattutto: come facciamo a non renderci conto che ciò spalancherebbe soltanto le porte al veleno culturale di cui oggi la UE è forza motrice, accelerando quel processo di degradazione che oggi viene indentificato col “progresso” e rischiando oltretutto di togliere letteralmente agli stati ogni mezzo con cui difendersi?  Certo, d’altro canto il pericolo di rinunciare al sogno dell’Europa Unita esiste (e va combattuto), ma ciò deve soltanto essere uno sprone a cercare fin da ora intesa con quelle forze europee che avvertono la nostra stessa esigenza, ponendo le basi  per la futura Europa. Un’Europa in cui allora il tema della sovranità potrà venire ridiscusso, immaginando un esercito Europeo comune (mantenendo però forze di polizia esclusivamente nazionali, l’esatto opposto di quanto viene proposto oggi) ed un’unica strategia estera. Un modello necessariamente federale, quasi una riproposizione contemporanea del modello imperiale medievale della nostra tradizione, che dovrà valorizzare le diversità lottando costantemente per restare in equilibrio fra le esigenze comunitarie e le patrie del domani.