Battersi a favore dei diritti gay oggi non costa niente, ma rende molto. Lo sa bene Mark Zuckerberg, fondatore e Ceo di Facebook, il social network più famoso e popolato al mondo (un miliardo e 400 milioni di utenti), che ha ormai fatto della battaglia in favore dell’amore Lgbt un marchio di fabbrica.
LA CAMPAGNA DI FACEBOOK. Zuckerberg ha sostenuto il matrimonio gay, ha fatto pressione sui giudici della Corte suprema americana perché si dichiarassero a favore delle nozze “same-sex”, ha versato decine di migliaia di dollari per le campagne elettorali di giudici e avvocati generali pro-Lgbt, ha modificato e continua a modificare Facebook per rendere la piattaforma virtuale sempre più simile a quel mondo per cui si battono i promotori dell’ideologia gender. Eppure c’è ancora chi lo accusa di discriminare i gay, in un paradossale vortice di diritti negati che sembra non avere fine e nel quale Zuckerberg ha dimostrato di sapersi districare alla perfezione.
I PRIMI SEGNALI. Tutti si sono accorti che Zuckerberg era pronto a impegnarsi in prima persona nella battaglia dei diritti Lgbt nel 2011. Quell’anno circa 70 dipendenti del social network hanno annunciato che avrebbero partecipato al Gay Pride di San Francisco. Settanta persone sono poca cosa su uno staff che allora contava oltre quattromila dipendenti (oggi sono duemila in più), ma si trattava di un segnale. Proprio quello che il social network ha voluto dare, sempre nel 2011, quando ha permesso per la prima volta a tutti i suoi iscritti di selezionare le opzioni “unioni civili” e “convivenza” per descrivere la propria “situazione sentimentale”.
LE STATUINE. Nel 2012, quando il co-fondatore di Facebook, Chris Hughes, si è sposato con il suo compagno Sean Eldridge, il social network ha aggiornato le icone del matrimonio disponibili: alle classiche statuine uomo/donna sulla torta, ha aggiunto le statuine uomo/uomo e donna/donna. Era un altro piccolo segnale e da lì a poco sarebbe stato seguito dal “coming out” di Zuckerberg.
TUTTI AL GAY PRIDE. Nel 2013, il Ceo di Facebook si è messo alla testa di un corteo di oltre 700 dipendenti al Gay Pride di San Francisco, facendo stampare un migliaio di magliette con il logo dell’azienda ben in vista. Contemporaneamente, ha dato a tutto il mondo la possibilità di parteggiare per la campagna Lgbt senza sforzo: bastava selezionare nel proprio status la nuova opzione “I’m feeling pride”, accompagnata da un piccolo arcobaleno. Dopo poco tempo sulla sua pagina personale è apparso questo post: «Sono orgoglioso che il nostro paese si stia muovendo nella giusta direzione, e sono felice per i tanti miei amici e le loro famiglie #PrideConnectUs».
INVESTIMENTO ECONOMICO. Era già cominciata la battaglia che avrebbe portato alla storica sentenza della Corte suprema americana di pochi giorni fa, che ha definito il matrimonio gay un diritto costituzionale. Allora i giudici avevano posto le basi di quest’ultima decisione abolendo la legge del 1996 che definiva il matrimonio come unione fra uomo e donna. Ma per Zuckerberg quella dei diritti gay è molto più che una semplice battaglia civile: è un investimento economico. E non ci si può stupire che un uomo che ha portato in neanche dieci anni la sua società a valere oltre 200 miliardi di dollari sia sensibile a certe cose.
«È BUSINESS». Insieme ai big della Silicon Valley e ad altre 200 imprese, Facebook scrisse alla Corte suprema che i diritti gay sono importanti dal punto di vista economico. «Noi siamo il futuro, noi vogliamo che le cose vadano avanti, non vogliamo restare indietro. La legge ci costringe a trattare una parte dei nostri impiegati legalmente sposati differentemente da altri, quando il nostro successo si basa sul benessere e il morale dei nostri dipendenti». Morale che dipende da un «ethos del luogo di lavoro di trasparente correttezza». Allora commentò Jane Schacter, docente di legge alla Stanford University: «È un brand, è marketing, è business. Del resto, hanno poco da perdere».
LE PRIME CONSEGUENZE. Qualcosa da perdere in realtà c’era e c’è stato. Da quando Zuckerberg ha deciso di schierarsi a favore del “progresso” e dei diritti legati al sentimento, al desiderio e all’amore che diventa istituzione, ha dovuto anche pagarne le conseguenze. Nel 2014 è stato subissato di critiche per aver finanziato con 10 mila dollari la rielezione dell’avvocato generale dello Utah, Sean Reyes, favorevole a politiche su internet molto vantaggiose per Facebook, ma oppositore delle nozze gay. Così, il trentenne americano si è dovuto rifare versando a scanso di equivoci 8.500 dollari per la rielezione dell’avvocato generale della California, Kamala Harris, favorevole al matrimonio gay. E quando ha invitato a parlare il governatore conservatore repubblicano del New Jersey, Chris Christie, gli utenti hanno lanciato l’hashtag #UnfriendChristie, intimandogli di rompere il rapporto perché «gli amici non permettono agli amici di mettere il veto sull’uguaglianza».