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Prodi a Pechino? Per le liberaldemocrazie pecunia non olet (Massimo Fini)

di Carlo Passera intervista Massimo Fini - 14/09/2006


Massimo Fini, Romano Prodi guida la delegazione italiana che in questi giorni è a corteggiare la più sanguinaria dittatura della storia dell’umanità, ovvero quella cinese. Non è un poco fuori luogo?
«Purtroppo per le liberaldemocrazie pecunia non olet. A omaggiare la Cina vanno gli Stati Uniti, gli inglesi, i francesi e i tedeschi, non mi stupisco che pure gli italiani si accodino. Siamo anche amici della Russia, responsabile di un genocidio spaventoso, con lo sterminio di un quarto della popolazione cecena (lo dico anche a coloro che parlano di un unico sterminio, e irripetibile...). Il problema è che il nostro sistema calpesta continuamente i propri principi nel nome della realpolitik. Stavo leggendo un fondo infame di Angelo Panebianco apparso sul Corriere della Sera di qualche anno fa; erano i giorni durante i quali l’Italia ospitava il parlamento curdo in esilio e poi, per un breve tempo, anche Ocalan. La “penna” del Corriere protestava: “Così facendo - diceva - mettiamo in pericolo l’equilibrio delle nazioni mediorientali dove ci sono i curdi”. Peccato che questi Paesi fossero l’Iraq di Saddam Hussein, l’Iran e la Siria, ossia quegli stessi che il medesimo autore definisce oggi “Stati canaglia”, sull’onda di George W. Bush. Dunque: la liberaldemocrazia è un sistema senza alcun principio; è privo di idealità».
Per rimanere a Panebianco, recentemente ha ipotizzato che l’Occidente possa rinunciare a parte delle proprie conquiste civili, in nome della sicurezza.
«Ripeto: al momento del dunque la liberaldemocrazia è disposta a calpestare ogni cosa. Siamo andati a fare la guerra in Iraq per difendere i diritti umani e Panebianco - lo prendo a emblema di questo modo di pensare - spiegava che la salvezza di migliaia di vite umane giustificava l’impresa. Peccato che, per compierla (e siamo ancora impantanati là), ne abbiamo uccise non altrettante, ma molte molte di più, centinaia di migliaia. Usiamo perennemente due pesi e due misure per valutare la realtà; ciò che in un caso è giusto, nell’altro lo consideriamo sbagliato».
Passo indietro: la Cina, da Mao ai nostri giorni, davvero è stata la più sanguinaria dittatura di tutti i tempi? Ed è questo l’esito inevitabile del modello marxista nella sua “senescenza”: l’oppressione violenta dei popoli, senza nemmeno più la radice ideologica?
«Indubbiamente, numeri alla mano, la Cina di Mao è stata il regime più violentemente repressivo che mai si sia conosciuto. Ha provocato un numero di vittime che nemmeno l’altro “campione concorrente”, ossia Stalin più che Hitler, aveva mai raggiunto. Un tempo operava in questo modo in nome del comunismo, oggi la repressione è un poco meno violenta ed è tipica di uno Stato che è diventato una dittatura di destra, a libero mercato, una sorta di fascismo come quello che si è avuto in certi Paesi sudamericani».
Ma era questo l’esito inevitabile del comunismo cinese, e del comunismo tout court?
«Penso di sì, Leon Trotsky diceva giustamente che la rivoluzione “o è permanente, o non è”. Il comunismo era un sistema che poteva vincere solo se si fosse affermato in tutto il mondo; circondato dal capitalismo, invece, non può resistere. Stalin non l’aveva capito, lui era per il “comunismo in un solo Paese”, i fatti gli diedero ragione a breve ma alla lunga ebbe torto. Il sistema cinese non poteva che aprirsi al mercato, negando la propria essenza, e diventare una dittatura di destra».
Alcuni dicono: il capitalismo porta con sé la democrazia. La libertà di mercato “innesta” nella mentalità collettiva le altre libertà, non a caso in Cina assistiamo alle prime proteste sociali, ai primi scioperi, con un benessere un poco più diffuso. Concordi?
«Anche se le libertà civili sono una cosa ben diversa da quelle economiche, è vero che le seconde conducono alla liberaldemocrazia, per loro dinamiche interne. Ciò non toglie che quest’ultima, esattamente come la dittatura comunista, abbia bisogno di schiavi salariati, che nello specifico siamo noi. Non provoca più morti, ma ha comunque bisogno di braccia per il lavoro».
Tu dici sempre: il sistema capitalistico è destinato all’implosione perché si basa su una crescente voracità di risorse e mercati; quando questi - che sono limitati - finiranno, sarà il disastro. Altri replicano: no, il capitalismo funziona perché poco a poco si estende a nuove aree del pianeta e tende a portare ricchezza e benessere. Dov’è l’errore in questa seconda tesi?
«È sbagliata una premessa: non è vero che il capitalismo porta benessere, anzi diffonde un malessere esistenziale che non esiste neppure sotto i regimi dittatoriali. In Cina da quando è cominciato il cosiddetto boom economico il suicidio è divenuto la prima causa di mortalità tra i giovani, mi pare che in tutto siano 300mila l’anno su un totale di oltre due milioni (terza causa di morte tra gli adulti). Sono numeri spaventosi, pur considerando che la popolazione cinese è sterminata, oltre un miliardo di persone. Altro esempio: in Russia l’avvento del capitalismo non ha affatto portato benessere, la popolazione da povera com’era in epoca pre-gorbacioviana - ricordava l’Italia degli anni Cinquanta - è divenuta miserabile. Peggio: in tutti i Paesi dell’industrial-capitalismo la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi. Sono dati di fatto».
Qualcuno potrebbe obiettare: è una fase di un sistema che nel suo insieme funziona.
«Eh, beh, è dalla rivoluzione industriale che siamo in fase transitoria, è un po’ troppo lunga... Non è una degenerazione dell’industrial-capitalismo, ma una sua conseguenza diretta della quale noi ora stiamo pagando i prezzi».
Quali sono?
«Siccome il sistema si basa sulla competizione e la concorrenza, non solo all’interno ma anche all’esterno del proprio Paese, noi oggi corriamo come forsennati; ma poiché corriamo tutti, è come se fossimo fermi, poiché sprechiamo energie su una sorta di tapis roulant al contrario. È come quando un ciclista si dopa e costringe a farlo anche gli altri: nessuno ne trae vantaggio, tutti si rovinano la salute. La parola d’ordine dovrebbe essere: competiamo di meno. Io questo discorso l’ho fatto spesso in tv, l’altro giorno parlavo a Telelombardia e anche Roberto Castelli, che era presente al dibattito, ha ammesso che non era privo di senso. Di certo la competizione mondiale passa attraverso il massacro delle popolazioni ed è curioso che oggi si sottolinei come i cinesi siano concorrenti sleali e sfruttino i lavoratori, quando per primi gli imprenditori occidentali hanno beneficiato di questa situazione andando a impiantare le loro fabbriche in Estremo Oriente. In definitiva: il comunismo è stato vittima del suo insuccesso, il capitalismo del suo successo, perché pretende che le leggi economiche prevalgano sulle esigenze dell’uomo».
Alternativa possibile?
«Una forma di autarchia che, ad esempio, l’Europa sarebbe in grado di adottare, pagando qualche prezzo che sarebbe però minore rispetto agli attuali costi sociali».
Torniamo al nostro Prodi in Cina. Fatta la tara di quanto abbiamo detto, non trovi che dovrebbe comunque porsi anche il problema etico, quello dei diritti umani? Per lo più un esponente della sinistra come lui...
«Mah, intanto considerare Prodi di sinistra mi fa sbudellare dalle risate, il nostro premier è un vecchio boiardo di Stato ed è di sinistra come io sono malgascio».
Certo, ma rappresenta un governo che comprende anche la sinistra...
«Comunque sia, qualche accenno ai diritti umani lo farà, ma è questione bizantina, ipocrita».
È un sospetto malizioso ma non del tutto peregrino quello in base al quale vi sia una sorta di “pregiudizio positivo” nella sinistra italiana nei confronti di Pechino, un po’ come c’è anche nei confronti de L’Avana?
«Non dovrebbe esserci nel caso della Cina, perché dal punto di vista economico - che è quello che interessa a Marx - quello non è più un Paese comunista. Invece può esserci simpatia nei confronti di Cuba, per le stesse ragioni: è davvero una dittatura che applica in larga misura i canoni marxisti. Un occhio di favore in questo caso non è legittimo, ma almeno comprensibile; ma nei confronti della Cina di oggi, proprio no».
Eppure una simpatia di fondo rimane...
«Perché non vengono analizzati i fenomeni per quel che sono. Chi ha una cultura di sinistra tende a essere rigido, ci mette più tempo prima di comprendere i mutamenti».
Rossana Rossanda sul Manifesto scrive: “Trent’anni dopo onore a Mao”.
«Credo che queste estremizzazioni siano una risposta ad altre estremizzazioni che vengono dalla parte opposta. Di certo, nel nome di un’ideologia non si possono giustificare 50 milioni di morti! È vero che Mao aveva un’idealità alla base di quello che faceva, ma lo stesso può anche dirsi di Adolf Hitler. È la solita storia: la vulgata ci racconta che i delitti del comunismo sono meno gravi di quelli del nazismo, perché avevano un’idealità. Non è vero: ognuno l’aveva, a suo modo. Una delle basi del nazionalsocialismo era il razzismo, ma vogliamo pensare alla situazione degli ebrei nella Russia di Stalin? Certo, la persecuzione non era “scientifica”, forse è questo l’elemento che conferisce una specificità negativa al nazismo: la pianificazione a tavolino, l’uso della tecnologia».
Diciamo che c’è anche una componente antropologica: gli uni erano tedeschi, gli altri russi.
«Certo, i tedeschi purtroppo facevano per bene anche le cose peggiori».
Quali prospettive ha oggi la Cina e il suo popolo?
«Quella del popolo cinese mi sembra disastrosa: si eviteranno i morti per repressione ma sarà un macello dal punto di vista sociale, com’è oggi in Russia. Quando alla Cina in quanto Stato, prenderà il proprio posto tra le grandi potenze, ma questo interessa ai politici, la gente vorrebbe benessere, equilibrio, armonia, tutte cose spazzate via dalle liberaldemocrazie capitalistiche. Finalmente uno come il Papa, che ha grande autorità, ha osato dire che il migliore dei mondi possibili non è affatto tale».
Ti riferisci al discorso di Monaco di Baviera...
«Esatto. Del resto qualcuno che aveva ancora più autorità e ha contato parecchio nella storia del mondo aveva detto, prima di lui: non si vive di solo pane. I cattolici se ne sono dimenticati, così come si sono dimenticati che Cristo è entrato nel tempio e ha scacciato i mercanti perché facevano della casa di Dio una spelonca di ladri. C’è poco da fare: credo che il discorso di papa Ratzinger, un poco ampliato, significhi: un sistema che si incentra sul libero mercato e sulla produzione di oggetti inerti non può produrre anche valori religiosi, e io dico valori in generale. Il disastro della liberaldemocrazia è stato questo: è un contenitore di regole e procedure, un sacco vuoto che andrebbe riempito di contenuti. Ma non riesce a creare altro che contenuti quantitativi e mercantili. Da questo deriva il tentativo di riscoprire i valori cristiani, perché si capisce che la cultura antagonista, quella islamica, valori invece ne ha, e fortissimi».
Ma in definitiva, se il Dio denaro (coniugato all’occidentale o alla cinese) non ci rende felici e il Dio cattolico è morto...
«...e sarà difficile resuscitarlo».
Ecco, allora quale totem deve seguire l’uomo?
«Deve rimettere al centro se stesso, relegando economia e tecnologia alla parte marginale che avevano prima della rivoluzione industriale. Ratzinger ci fa questo discorso dal punto di vista religioso; ma lo si può concepire anche dal punto di vista laico: poiché Dio è morto, se non abbiamo più valori trascendenti, dobbiamo fare riferimento all’uomo in quanto tale. È la cosa più difficile, perché la religione è servita molto efficacemente a dare speranza a milioni di uomini e, se guardiamo all’Europa, la scuola tomista ha condotto una battaglia secolare contro il profitto, l’usura, l’interesse, ossia contro un sistema che stava per diventare capitalistico ma è stato così frenato per secoli. Questo il cattolicesimo, ma lo stesso Lutero spiegò che il denaro è lo sterco del diavolo».
Concludiamo allora che l’uomo non dovrebbe sottostare né all’economia, né all’ideologia?
«Certo, andrebbe cercata la famosa terza via che non è però mai stata trovata, perché sempre schiacciata da interessi troppo grandi».
Ratzinger lancia per questo il proprio messaggio.
«Ma, ripeto, è una ricerca non necessariamente legata alla religione. Certo, farne a meno rende le cose più difficili, perché la libertà è complicata, avere un credo è più comodo, seguire i comandamenti di Dio rende sicuri. D’altra parte, come è stato detto da Stendhal, “L'unica scusa di Dio è che non esiste”».