Violenza e odio, no alla censura web
di Alessio Mannino - 06/07/2016
Fonte: vvox
E’ giusto mostrare la morte, la violenza, la guerra, il sangue, l’orrore? E’ ammissibile lasciare che circolino video e immagini di rivolte, scontri, uccisioni, assassinii? Ed é accettabile che gli utenti dei social network come Facebook o Youtube li utilizzino per lanciare messaggi di lotta, di esaltazione del sacrificio, di odio per il nemico, di volontà di distruzione? E’ il tema della rovente discussione che in questi giorni si é riacutizzata in Israele, coi ministri della sicurezza, Erdan, e della giustizia, Shaked, che invocano norme che permettano di bloccare immediatamente materiali scritti o audiovisivi giudicati pericolosi.
Spingendosi addirittura a considerare pericoloso il mezzo in sé, ricettacolo del famigerato hate speech: «Facebook è diventato un mostro. L’incitamento alla violenza, l’odio, le bugie che nutrono i giovani palestinesi sono diffuse dalla piattaforma digitale». Così Erdan, mentre il quotidiano liberal Haaretz, citato dal Corriere della Sera di oggi, va anche più in là, mescolando il furore della gioventù araba con i personaggi della politica Usa e, alquanto scorrettamente, con l’Isis: «La folla di Facebook sostiene idee e leader politici infettati dalla stupidità e dalla distruttività: da Donald Trump allo Stato Islamico. La piattaforma ha indebolito così tanto i media tradizionali da minacciare di imporre un ordine mondiale razzista, separatista, tribale, militante e fondamentalista».
Tutto nasce dal post su Facebook scritto da un ragazzo palestinese che pochi giorni fa ha accoltellato a morte una coetanea ebrea, e da un video della sorella, postato sempre su Facebook, che é stata arrestata per aver inneggiato al «martirio» del fratello. Ma in realtà sono anni che i governi di Tel Aviv si dannano per far rimuovere i selfies dei lanciatori di pietre della Terza Intifada in Palestina, o i filmati dei soldati israeliani che con macabra ironia si erano mascherati da arabi. O le fotografie sugli spari, le esplosioni, gli incendi, le ambulanze, le macerie e la miseria dei quartieri rastrellati dalla vendetta d’Israele. «Ogni giorno vediamo uno dei nostri morire, il minimo che possiamo fare è quello di condividere le immagini» disse l’anno scorso alla stampa Sami, 19 anni, studente di Legge a Bir Zeit, città palestinese sotto il governatorato di Ramallah.
La risposta alle domande che ci siamo posto sopra é: sì, é giusto, é ammissibile, é accettabile. Anzi, é doveroso. In un mondo ridotto ad un ossessivo buco della serratura, dove in tv, nei demenziali reality show, sappiamo anche a che ora tizio va di corpo o se caio si fa una sveltina e con chi, immersi in un continuo, martellante, defatigante bombardamento di foto, di notizie, di ultime notizie, di commenti, di repliche, di tweet, di post, di tag, di flames, di dirette, di ansiogene chiacchiere di ogni tipo, su tutto e specialmente sul futile e sull’intimo, dovremmo forse censurare e autocensurarci, negare il diritto di vedere, di leggere, di renderci conto da soli, provandone raccapriccio se é il caso, quanti lutti e quanta follia omicida e suicida c’é in giro sul pianeta?
Dice: ma può esserci l’effetto imitazione, il rischio di emulazione, o ancor peggio l’assuefazione. Ad esempio trattandosi, come nel caso israelo-palestinese, di una guerra fra popoli che dura da settant’anni. Certo: ma se la società di Mark Zuckerberg non riesce a far lobby vittoriosa a Tel Aviv e la censura passa (fra l’altro, Fb già adesso provvede a togliere contenuti razzisti o aggressivi), questo lo si può ben capire, dal punto di vista di uno Stato, ripetiamo, in guerra com’é Israele. Ma altrettanto si può capire come i palestinesi, che si sentono (legittimamente) non terroristi ma resistenti, partigiani, ribelli, sfruttino lo strumento web in tutte le sue potenzialità, pur di far valere le proprie ragioni. Ma é il principio generale che conta, anche qui da noi che viviamo col culo al caldo: più si mostra la verità, o meglio, più verità parziali vengono mostrate, e più la verità ragionevolmente completa emerge, e fa sì che emerga anche la consapevolezza necessaria a giudicare e prendere posizione, da uomini liberi. Anche di farsi scioccare.