Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Globalizzazione, è l'ora del riflusso

Globalizzazione, è l'ora del riflusso

di Sébastien Maillard - 10/11/2006

Per il Nobel Joseph Stiglitz «il libero scambio su scala mondiale è una forza benefica. Ma le sue regole vanno ripensate»

 «Dobbiamo integrare nei mercati, senza distruggere la loro forza, i beni non economici che sono valorizzati poco e male, come la società, la cultura, la vita»

 

La mondializzazione illuminata: è questo il nuovo slogan di Joseph Stiglitz, l'economista americano vincitore del premio Nobel nel 2001 e acuto indagatore, anche con uno sguardo critico, dei processi di globalizzazione dei mercati e delle culture.
Professor Stiglitz, a suo parere la globalizzazione, oggi, sta andando di pari passo con una migliore consapevolezza delle sfide che essa propone?
«È cresciuta la consapevolezza dei problemi posti dalla globalizzazione. La protesta degli studenti francesi nelle università dei mesi scorsi lo dimostra. Questi ragazzi non hanno voluto piegarsi all'idea di una globalizzazione che dovrebbe migliorare il futuro chiedendo loro, nello stesso tempo, di accettare salari più bassi e una minore protezione sociale. Anche negli Stati Uniti la globalizzazione crea inquietudine per la crescita di potenza della Cina e dell'India. Come confessò, a 95 anni, l'economista John Kenneth Galbraith, ambasciatore americano in India negli anni Sessanta: "Non avrei mai creduto di vedere il giorno in cui gli americani avrebbero dovuto temere l'India". In materia di ambiente, è cambiata anche la comprensione dei problemi. Anni fa, proporre di tassare le emissioni di ossido di carbonio era considerato quantomeno bizzarro. Oggi, invece, siamo tutti d'accordo nel riconoscere che queste emissioni costituiscono una vera minaccia».
Anche le grandi organizzazioni internazionali stanno cambiando…
«Certamente, ed è proprio su questo aspetto che si fonda la mia speranza che le cose possano migliorare. Tempo fa, ritenevo eccessive le condizioni poste dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale ai Paesi che richiedevano un prestito. Oggi noto che quelle condizioni si sono ammorbidite. L'Fmi ha appena rivisto le regole sul diritto di voto per tener conto dei grandi Paesi emergenti e acquisire, così, maggiore legittimità politica. I cinici ritengono si sia fatto il minimo necessario per rendere l'istituzione presentab ile evitando nel contempo tutte le riforme profonde. Ma secondo me questo significa anche che si sta facendo strada un più largo consenso sulla necessità di affrontare i problemi della globalizzazione».
Paradossalmente, queste nuove consapevolezze arrivano proprio nel momento in cui la globalizzazione, a causa dello choc petrolifero, della minaccia terroristica, dà segni di rallentamento...
«La globalizzazione non è inevitabile. E i timori che suscita nei Paesi più sviluppati hanno risvegliato il protezionismo. Gli Stati Uniti non hanno più voluto vendere la compagnia petrolifera Unocal alla Cina e i loro porti a Dubai. La lotta contro il terrorismo va nella direzione esattamente opposta alla libertà di movimento, e dunque alla globalizzazione. È diventato più difficile per gli studenti stranieri entrare negli Stati Uniti. In realtà, questi freni alla globalizzazione potrebbero essere superati se i mercati sapessero valorizzare sufficientemente tutti i nostri bisogni, compreso quello di minore disuguaglianza, per mantenere la coesione sociale, o il bisogno di sicurezza. Per esempio, a cosa serve acquistare il gas a un prezzo meno caro se poi questo approvvigionamento rende il tuo Paese troppo dipendente dalla Russia? È una logica di mercato individualistica, ma alla fine minaccia la sicurezza energetica di una società, aspetto, questo, che dovrebbe essere tenuto nel giusto conto quando si fissa un prezzo. Il problema di fondo è quello di integrare nei mercati, senza distruggere la loro forza, i beni non economici, che essi non valorizzano o valorizzano male, come la società, la cultura, la vita. In Europa, per i diritti di emissione del carbone si è fatto ricorso a meccanismi di mercato che spingono le imprese a non inquinare. Bisogna fare entrare il bene pubblico nei calcoli di mercato piuttosto che tenere una posizione incoerente come quella dell'Amministrazione Bush, che si dichiara sempre a favore del mercato, ma si mostra protezionista quando lo r itiene opportuno».
Lei quindi non è un sostenitore accanito del mercato?
«Affinché i mercati producano dei risultati efficaci, servono delle regole e serve l'intervento appropriato dello Stato. La cultura, che forgia l'identità e la coesione di un Paese, soprattutto di fronte alla globalizzazione, è un bene che perderà di valore se il governo non sarà in grado di sostenerlo. E va considerato che le imprese non sono contro le regole. Al contrario, durante i miei studi ho potuto constatare che esse, quanto più riconoscono la propria responsabilità sociale per lo sviluppo o nella lotta contro la corruzione attraverso diverse iniziative - e questa è un'altra presa di coscienza - tanto più reclamano le stesse regole del gioco per tutti. Una compagnia petrolifera che accetti la trasparenza dei suoi contratti non vorrà certo restare la sola a farlo».
Il che vale anche per uno Stato, che non ha interesse ad essere l'unico virtuoso nella globalizzazione economica. Che potere resta a livello nazionale?
«Dal momento in cui un Paese come gli Stati Uniti inquina il resto del pianeta, gli altri Stati avranno bisogno dell'Organizzazione mondiale del commercio, perché le sanzioni commerciali dell'Omc sono l'unico strumento per spingere gli Usa a ridurre la minaccia ambientale. È per questo che le decisioni democratiche devono essere prese in seno alle organizzazioni internazionali, senza che esista il diritto di veto di un solo Stato».
(Per gentile concessione
del quotidiano «La Croix»;
traduzone di Barbara Uglietti)