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Il vento che accarezza l’erba

di Stenio Solinas - 28/11/2006


 

 

Comanderesti, senza
che nessuno te
lo imponga, il
plotone d’esecuzione
che fucilerà
tuo fratello? Giustizieresti
con un
colpo di pistola al cuore un povero
ragazzo, traditore per paura, nella
cui casa sei stato tante volte a mangiare,
la madre che ti adora, i fratelli
che pendono dalle tue labbra? E
ancora: come soldato accetteresti di
praticare la tortura, di bruciare case,
di terrorizzare vecchi, donne e bambini,
di essere l‘incarnazione stessa
della forza per evitare che un’altra
forza opposta e contraria bracchi te
sino alla morte.
Si esce da Il vento che accarezza
l’erba (The Wind that shakes the
Barley) di Ken Loach commossi,
umiliati e con un senso di vergogna.
Innalzi tutte le mattine la tua frettolosa
preghiera laica alla libertà di
stampa, di pensiero e di parola, ma
non ti sei mai chiesto veramente
quale prezzo saresti disposto a pagare
per conservarla o per difenderla,
fino a che punto ti batteresti per
riaverla e fino a dove la protezione
di te stesso e dei tuoi cari, non nel
senso della pura sopravvivenza fisica,
ma in quello della dignità di essere
umani, potrebbe e dovrebbe arrivare.
Abituati a vivere in pace e in
democrazia non sappiamo più bene
cosa possa significare un potere
imposto in casa tua che ti dice come
devi comportarti, non accetta di discutere,
vuole che tu ti limiti ad obbedire.
Che fare? Che faremmo?
Loach ha scelto l’Irlanda in un
momento particolare della sua lotta
per l’indipendenza, quando l’Inghilterra
accetta alla fine di ritirare le sue
truppe, vuole però in cambio una
sovranità limitata del nuovo governo
e minaccia, in caso contrario, di scatenare
una repressione senza quartiere.
La guerra civile irlandese ha inizio
allora, fra i sostenitori di una
indipendenza mutilata, considerata
comunque come un male minore, e
chi invece la ritiene un tradimento e
vorrebbe resistere a oltranza.
Settant’anni, minuto, cortese, Palma
d’oro allo scorso Festival di Cannes,
Ken Loach ha fatto un film
che ha tutto per piacere al grande
pubblico: superba è la ricostruzione
d’ambiente, senza sbavature la recitazione,
privo di retorica e di manicheismo
il modo in cui i singoli protagonisti
rappresentano le diverse
posizioni in campo. “Non è una storia
vera, ma è costruita sulle base
delle memorie e dei documenti dell’epoca”
ha raccontato lo sceneggiatore
Paul Laverty che con Loach forma
un sodalizio consolidato da quindici
anni e nove film di lavoro in
comune. “Le ferite della guerra civile
sono In Irlanda ancora aperte e gli
strascichi della lotta armata dell’Ira
sono arrivati sino ai nostri giorni”.
Ciò che affascina e sconvolge nel
film è la crudezza priva di effetti
speciali con cui guerra e resistenza
sono rappresentate. Loach è consapevole
che esiste una “violenza
romantica”, e l’impatto che essa ha
su psicologie giovani è devastante.
Tuttavia, la voglia di giustizia, di
indipendenza, di libertà portano sempre
a una reazione nell’animo umano,
c’è sempre qualcuno che vuole
reagire. E la violenza è quasi sempre
l’unica soluzione che ti resta.
Critico dichiarato dell’intervento
inglese in Iraq, a Cannes Loach volle
evitare un uso propagandistico del
suo film. “Le mie posizioni in materia
sono note, ma non sono venuto
qui per sbandierarle” disse. “Se mi
si chiede qual è l’attualità di The
Wind that shakes the Barley posso
solo dire che essa deriva dal semplice
fatto che c’è sempre nel
mondo qualcuno che occupa il
tuo Paese e c’è sempre qualcuno
che lotta per cacciarlo”.
Il problema è che a una guerra
di liberazione si connette molto
spesso una guerra civile, ed
è questa la parte più delicata da
raccontare. I personaggi
principali de Il
Vento che accarezza
l’erba sono un
medico schierato
con la componente
socialista degli
indipendentisti,
sconfitta nel 1921,
e il fratello maggiore
schierato
invece con i nazionalisti.
Un modo
per portare nell’ambito
di una
famiglia il conflitto
che divise ineffetti chi aveva a lungo combattuto
per il Regno Unito nelle trincee continentali
della Prima guerra mondiale;
poi contro il Regno Unito nelle
brughiere e nelle città irlandesi. Raccontando
questa guerra nella guerra
Loach ha fatto quello che nessun
regista italiano ha saputo fare sulle
origini del fascismo e sulle origini
della Resistenza, i cui combattenti
furono talora gli stessi, esattamente
come accadde in Irlanda per le origini
dell’indipendenza formale e per il
tentativo di renderla sostanziale,
sempre sotto la minaccia che l’invadente
vicino britannico si riprendesse
quel che concedeva solo per
dominare meglio.
Le facce e la recitazione di Cillian
Murphy, Pàdraic Delaney e Liam
Cunningham, danno alla storia l’impatto
devastante della veridicità, ma
è nelle figure femminili di contorno,
spesso non professioniste, che il film
acquista un’ulteriore dimensione tragica
eppure poetica. “Ciò che infatti
colpisce nella vicenda irlandese, in
specie durante la lunghissima resistenza
antibritannica, è il supporto
femminile. Madri che nascondono i
ribelli, sorelle che fanno da agenti di
collegamento, nonne che mantengono
unita ciò che resta di una famiglia
nonostante le morti, le distruzioni, le
separazioni. Quando poi la guerra
diverrà fratricida, c’è questa impotenza
per la quale nessuna vendetta
ha un senso, ma solo il pianto, il
dolore, il rifiuto e il silenzio”.
Il titolo del film viene da una struggente
canzone ottocentesca di Robert
Dwyer Joyce: “Fu penoso rompere
con parole di lutto / i legami che ci
univano / ma più penosa ancora / è la
vergogna del ferro straniero che ci
incatena / Allora ho detto: all’alba
andrò nella valle / e raggiungerò i
coraggiosi che si uniscono / mentre
un vento leggero scuote l’orzo”.