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La globalizzazione è finita: cosa facciamo adesso?

di Manolo Monereo - 20/03/2020

La globalizzazione è finita: cosa facciamo adesso?

Fonte: Nuova direzione


Nel 2001, dopo 10 anni di duro lavoro, è apparso il libro di John Mearsheimer La tragedia delle grandi potenze prima – è bene precisarlo – degli attacchi dell’11 settembre. Era un’opera singolare scritta da uno specialista in relazioni internazionali nel momento trionfante di quella che venne chiamata globalizzazione. È interessante ricordare che, a quel tempo, la globalizzazione, la sua radicale novità, veniva esaltata dall’accademia e dai media mainstream; se ne sottolineava continuamente il carattere irreversibile e irresistibile. Era un mondo nuovo e diverso in cui emergeva una “iperpotenza” (USA), che organizzava le relazioni internazionali sotto la sua egemonia assoluta. La specificità del libro di Mearsheimer è che è stato concepito come una rivendicazione del realismo strutturale, proprio contro quella “novità” che la globalizzazione rivendicava per sé.

Il mondo che Mearsheimer stava cercando di spiegarci era molto diverso da quello che si pensava che fosse e che di descriveva in quel momento. Grandi potenze che lottano per il potere; un potere trionfante che sfrutta il vantaggio ottenuto per indebolire, isolare e frammentare l’ex Unione Sovietica; un altro emergente (la Cina) costretto a sfidare l’ordine esistente e mettere in discussione l’egemonia dell’iperpotenza.

Nel mezzo, un rigido controllo da parte dell’amministrazione nordamericana delle organizzazioni internazionali attorno a un’ideologia (neoliberismo), un progetto politico (globalizzazione) e uno strumento decisivo (finanziarizzazione). L’11 settembre ha chiarito molto il panorama e posto fine a quella che alcuni di noi chiamano “l’utopia dell’89”; vale a dire, il regno della pace universale, la tendenza al governo mondiale e il predominio illimitato dei diritti umani; l’idea che la cooperazione sostituirà il conflitto, che i dividendi della pace renderanno possibile la fine della corsa agli armamenti e tali risorse verranno utilizzati per risolvere i principali problemi globali. Poco restava del concetto di imperialismo, sostituito da un impero di relazioni di potere indefinite e indefinibili, in attesa dell’assalto furioso della moltitudine. Letteratura, cattiva letteratura.

Mearsheimer ha aiutato molto (Peter Gowan l’ha capito in modo critico fin dall’inizio) e la vita gli ha rapidamente dato ragione: guerre, conflitti armati permanenti e interventi diretti in Nord America in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan … Questa fu chiamata la fine della “globalizzazione felice”. La crisi del 2008-2009 ha mostrato in che misura la globalizzazione implicava crisi finanziarie ricorrenti e sempre più forti. Il capitalismo aveva vinto, aveva smantellato tutti i meccanismi politici e sociali che lo controllavano e non aveva più altri nemici che se stesso. Non è mai stato in grado di creare altri strumenti regolativi e oggi stiamo aspettando una nuova crisi senza poterne valutare le dimensioni e i costi economico-sociali.

La globalizzazione è finita; non sarà da un giorno all’altro, sarà un processo sempre legato alle relazioni di potere esistenti. La recente Conferenza sulla Sicurezza di Monaco fornisce molti indizi sulla realtà di un mondo in rapido cambiamento. La sensazione generale era il pessimismo e la mancanza di chiare prospettive. Il tema centrale, un mondo che sta diventando meno occidentale, una Germania pietrificata, sempre più segnata dai suoi demoni interni e incapace di posizionarsi nelle nuove sfide; è apparsa perfino la nostalgia per il vecchio ordine in cui gli Stati Uniti agivano come polizia universale e privilegiavano le relazioni euro-atlantiche. Macron mostrava la sua impazienza e si è candidava (dopo la Brexit) a promotore di un’Unione europea come soggetto globale, con autonomia strategica e con la vocazione di essere una parte essenziale di questo nuovo ordine multipolare in costruzione. Quanto agli Stati Uniti, le cose sono molto semplici e vengono ripetute senza infingimenti: questo paese sta vivendo una sfida esistenziale per i suoi interessi strategici, e questa sfida si chiama Cina.

L’amministrazione nordamericana non acconsentirà al consolidamento di un potere egemonico nell’emisfero orientale. Si opporrà con tutte le sue forze e andrà fino alla fine. L’importante leader democratica Pelosi ha difeso praticamente la stessa tesi e ci ha avvertito, come Pompeo, del pericolo per le nostre libertà e relazioni atlantiche, di ammettere la Huawei. Non è un caso che il 5G sia un elemento centrale nel conflitto politico-militare strategico. È un altro segnale di una guerra economica, culturale, tecnologica e per il controllo delle infrastrutture di base della comunicazione.

La cosiddetta rivoluzione negli affari militari (RMA) sta acquisendo notevole slancio cambiando le forme e il contenuto della guerra, ponendo al centro la disputa tecnologica tra le grandi potenze. I complessi militari-industriali esistenti sanno da tempo che la divisione tra tecnologia militare e civile non ha senso. Il cyberspazio diventa una nuova dimensione del conflitto; la robotizzazione e l’intelligenza artificiale stanno giocando un ruolo sempre più importante nei nuovi artefatti di guerra. Le parole chiave sono accelerazione, competizione strategica e guerra asimmetrica. Qualcosa sta diventando chiaro: le grandi società hanno una patria e la servono ogni volta che è necessario. Come sempre, e come dimostra Snowden.

L’equilibrio delle forze governa sempre, e nelle relazioni internazionali ancora di più. Ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi è una transizione particolarmente dura da un mondo unipolare a un mondo multipolare, cioè una sostanziale e radicale ridistribuzione del potere. La storia economica ci dice che c’era già stato un tentativo di globalizzazione in passato (1870-1914). Sappiamo come è finita. Oggi stiamo affrontando il fallimento della seconda globalizzazione. Le sue caratteristiche di base sono:

1) Instabilità economica permanente. Il capitalismo finanziato tende a produrre crisi periodiche, rafforzando notevolmente la disuguaglianza e le fratture sociali, economiche e territoriali nelle nostre società.

2) La tendenza verso la costruzione di due blocchi militari economici e politici attorno a Cina e Stati Uniti; questi blocchi sono estremamente eterogenei e conflittuali.

3) L’UE, in quanto tale, rimane subordinata agli interessi geostrategici nordamericani, manca di un progetto comune e sta attraversando una crisi esistenziale.

 4) Il fatto più rilevante è che il centro di gravità tende verso l’Oriente e mette in discussione, dopo 500 anni, l’egemonia geoculturale dell’Occidente.

5) I problemi globali, in particolare la crisi ecologico-sociale, continuano a peggiorare.

Crisi economica, conflitti geopolitici e risorse sono strettamente collegati. Il potere, le sue relazioni e i suoi effetti non possono essere elusi, tanto meno quando le risorse naturali e umane oggi diventano un problema strategico fondamentale per gli Stati. Proudhon era solito dire che chi parla di umanità inganna; o almeno, confonde le idee e tende a parlare di nulla. Ciò che esiste sono gli Stati gerarchicamente interconnessi e in lotta permanente per il potere. È una vecchia canzone quella che ci viene ripetuta ogni giorno: gli Stati sono anticaglie che nulla possono di fronte alle sfide e alle biforcazioni di un mondo globalizzato;  detto altrimenti: dato che i problemi vanno oltre gli Stati, devono essere affrontati e risolti da un governo mondiale e da un globalismo giuridico. E come sarebbe possibile tutto ciò?  Chi lo realizza, le grandi potenze? Una sola potenza? Evitare il problema delle profonde asimmetrie del potere nelle relazioni internazionali, di ciò che è stato storicamente chiamato imperialismo, è sbagliare, peggio ancora, è fare il contrario di ciò che le popolazioni dovrebbero fare. Gli stati nazionali continuano a essere il luogo del conflitto sociale e della ridistribuzione, delle libertà pubbliche e dell’autogoverno; il luogo dei diritti sociali e della regolamentazione del mercato. Di fronte a loro e contro di loro l’unica cosa che ci sarà è ciò che c’è sempre stato: l’imperialismo e il dominio delle grandi potenze sulle maggioranze sociali e sulle classi lavoratrici.

Le ribellioni contro le conseguenze e i costi sociali, ambientali e culturali della globalizzazione capitalista crescono ovunque. In vari luoghi la loro forma politica sono i cosiddetti populismi di destra. Sembrerebbe che le popolazioni debbano scegliere tra una destra che è realmente tale e alcune sinistre che non lo sono. È l’altro lato della contraddizione: viviamo in una crisi, diciamo così, di civilizzazione, senza soggetto o alternativa. Nel frattempo, si cerca di riformare il poco riformabile che il sistema ammette.

La domanda rimane pertinente, la globalizzazione termina, che fare quando il vituperato Stato nazionale ritorna? Quando le popolazioni chiedono uno Stato più forte che le protegga, dia loro sicurezza e garantisca il futuro? Quando  la domanda di identità e sicurezza culturale si generalizza? Quando viene contestata una democrazia senza potere o qualità? Quando il futuro diventa un problema politico?

In ricordo di Peter Gowan che mi ha insegnato a pensare geopoliticamente

Traduzione Da https://www.cuartopoder.es/ideas/2020/02/26/se-termino-la-globalizacion-que-hacemos-ahora-manolo-monereo/



Foto di Gerd Altmann da Pixabay