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Una polveriera ma non una guerra

di Simone Torresani - 01/04/2020

Una polveriera ma non una guerra

Fonte: Il giornale del Ribelle

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La premessa è doverosa: rispettiamo il distanziamento sociale, è necessario far calare la curva dei contagi per dare respiro alla sanità per garantire cure a tutti e cercare d' uscire il prima possibile da questa brutta storia. Se è essenziale cercare d'uscire dal tunnel lo è altrettanto pensare il nostro futuro: noi corriamo il rischio, essendo focalizzati a 360 gradi sul presente, di trovarci ancor più spaesati alla fine di tutto questo. Le epidemie sono brutte bestie ma per fortuna hanno un tempo limitato e come arrivano altrettanto ci lasciano. Noi stiamo navigando a vista in territorio inesplorato, senza nessuna grande idea concreta sul "dopo" e temo che il risveglio sarà brusco per tutti, specialmente in Italia, che rischia di essere il classico vaso di coccio stritolato. Parliamoci chiaro e senza tanti fronzoli o retorica, da persone abituate a dirci la verità per quanto possa essere brutale: nel medio termine è più facile il crollo economico, sociale ed anche unitario della Repubblica Italia piuttosto che quello dell'Unione Europea. A dire il vero, entrambe le entità sono sull' orlo del baratro, ma pensare che un eventuale (e auspicabile) sfascio di questa assurda UE non abbia riverbero su quello dell'unità italiana è ipotesi per nulla peregrina. Non fatevi ingannare dai cori sui balconi dell'inno di Mameli e dai monumenti rivestiti col tricolore, dai canti e dalle frasi, dai video virali in internet: questi sono solo episodi, momenti collettivi di unione per affrontare qualcosa di imprevisto, sfoghi liberatori di tensioni accumulate, riti di esorcizzazione collettiva di paure ancestrali che parevano sopite. Sono manifestazioni patriottiche effimere, destinate a durare lo stesso tempo dell'emergenza e destinate a sgonfiarsi come bolle di sapone in un batter d' occhio appena si aprirà il sipario del baratro economico e sociale. Dire, come si sente, che ne "usciremo migliori" è puro esercizio di retorica e di giornalismo: l'unico evento che davvero forgia una comunità nazionale in comunità di destino è una guerra, non una epidemia. Inutile che continuino a ripetere "siamo in guerra": nossignori, è una epidemia e non una guerra. Una epidemia, cioè un evento incidentale che rispetto alla guerra ha dinamiche e implicazioni completamente diverse (politiche, sociali, psicologiche, economiche). Più facile che questa dura prova cementi il campanilismo e l'orgoglio cittadino locale a tutto scapito di quello comunitario nazionale, già storicamente inconsistente in Italia. Più facile che siano Bergamo e Brescia come singole comunità ad uscirne più forti, non l'Italia nel suo complesso. Nel lontano 1972 il presidente pakistano Ali Bhutto, in una pregevole intervista alla Fallaci, disse che "non si manda avanti un Paese con gli slogan" e quando la notte sarà passata, avremo un'alba inquietante. E auguriamoci che la notte duri davvero poco, perché il rischio palese è quello di arrivare all'alba se non addirittura ben prima con una situazione fuori controllo. Le misure di lockdown, soprattutto in Meridione, se non supportate da massicci aiuti materiali e finanziari a pioggia, avendo dato un colpo all' economia sommersa e messo innumerevoli famiglie a rischio indigenza, potrebbero avere conseguenze incontrollabili: in Facebook e Whatsapp girano "catene" che incitano all' assalto dei supermercati -come successo a Palermo- e a "spaccare tutto". Vi è poi come convitato di pietra la criminalità organizzata, che rischiando di perdere il potere territoriale in vaste aree del Sud potrebbe fomentare rivolte. Questo non lo diciamo noi ma le informative dei "Servizi" all' Esecutivo. In tre settimane circa di lockdown già due volte i Servizi hanno emanato questo allarme...e non darei per scontato che riguardasse solo il Sud. Parliamoci chiaro e diciamo che attualmente, primavera 2020, tutta l'architettura statale italiana ha la consistenza di un budino e la stabilità d'un castello fatto di carte da briscola, ha una fragilità estrema cui basterebbe un soffio di venticello per mandare tutto all'aria. L'impalcatura statale si sta mantenendo per miracolo, la possibilità di collasso sistemico è assai elevata. Tre grandi Regioni settentrionali vero motore e locomotiva della Nazione sono in ginocchio, paralizzate da covid-19 e il Meridione balla su un equilibrio appeso ad un filo. Certamente l'italiano conosce l'arte di camminare sul precipizio senza cascarci (per il momento) e far passare la nottata, ma in tal caso i guai inizieranno ai primi bagliori di luce. Taluno ha stimato un danno economico con una forbice dai 250 ai 640 miliardi di euro in base alla durata dell'emergenza, ma queste cifre sono ballerine e forse sottostimate: di certo esistono i 25 miliardi di euro stanziati per marzo e i 25 per aprile, dei pannicelli caldi e palliativi che non serviranno a nulla. Di certo sappiamo che se ne esce solo essendo padroni della moneta e stampandola a pioggia, a massa, non prendendola a prestito da enti esterni coi tassi di interesse: tutti strumenti che l'Italia non ha. Di certo si può immaginare di ritrovarci con un Settentrione con le pezze nel didietro e un Meridione maggiormente impoverito e devastato. Da una parte si piangeranno i lutti e l'imprenditoria in dissesto, dall' altra parte si piangeranno meno morti (vogliamo augurarci che al Sud il male sia contenuto, per evitare un numero di vittime ancor più elevato che altrove) ma tanta penuria e rovina. Rammentiamo che in certe zone del Mezzogiorno il turismo, che ha il 2020 ormai compromesso, vale il 30% del PIL e che paesi interi vivono di turismo estivo. Alla fine di tutto rischiamo di trovarci con una bomba a orologeria acuita dall'aggravarsi della questione meridionale, cui si unirà giocoforza una questione settentrionale, perché il Settentrione sarà ridotto come il Meridione se non peggio in certe aree. Tutto ciò unito alla rabbia, al dissesto economico, alle ferite psicologiche durature e all' impoverimento generale: una polveriera, per sintetizzare in una parola. E ripeto non è detto che l'unità nazionale regga, tutt'altro. Fino a grandi statisti come Churchill e Cavour tremerebbero le vene nei polsi a saper di maneggiare situazioni simili, figuriamoci all'esecutivo Conte-bis, un governicchio che si è salvato grazie al paziente uno di Codogno.

 

 

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