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Lo splendore della natura apre la mente e il cuore sul mistero del mondo

di Francesco Lamendola - 29/10/2008


Era una notte d'estate straordinariamente limpida, impregnata del profumo di resina e di fieno appena tagliato, in una delle valli più belle della Carnia - e del mondo.
Ci trovavamo a Sauris di Sopra, a oltre 1.400 metri d'altezza sul mare, circondati dalla linea suggestiva di montagne imponenti e avvolti nella dolcissima freschezza del bosco: bosco di abeti, immenso, la cui ombra scura si perdeva all'infinito, stagliandosi sul blu scuro di un cielo sereno e senza nubi, come non si vede spesso in quelle valli piovose.
In alto, il tremolio d'innumerevoli stelle, non disturbato dalla benché minima fonte d'inquinamento luminoso; in basso, verso il fondovalle, un tremolio altrettanto suggestivo, incorniciato dalle fronde della radura.
Cercavo, con alcuni amici, di orientarmi per fare ritorno al paese, dopo un lungo girovagare in libertà; e quelle minuscole luci, là in basso, ci parvero le luci del paese che ammiccavano, amichevoli, nel grande silenzio della notte.
Ci avviammo da quella parte.
Iniziò in quel modo una marcia nell'oscurità che assumeva, col passare del tempo, i contorni evanescenti di un sogno.
La cosa più strana era che, dopo ore di cammino, le luci non sembravano avvicinarsi; un fatto che, alla fine, non potemmo fare a meno di notare. Era come marciare sul posto, senza avanzare neppure di un metro: eppure, l'orologio diceva il contrario.
D'altra parte, quelle luci erano uno spettacolo bellissimo, fiabesco. Sembravano uscite dal «Sogno di una notte di mezza estate» di Shakespeare: potevano essere le luci delle fatine del bosco, oppure degli elfi; venivano, forse, da una danza eseguita in onore di Oberon e Titania sulle rive di un invisibile torrente; ma, elusive e - forse - allegramente dispettose, come il folletto Puck, parevano ritrarsi, mano a mano che noi scendevamo verso valle.
Qual era il loro segreto? Eravamo capitati, dunque, in un bosco incantato? O eravamo vittime, semplicemente, di una qualche forma di inganno ottico?
Infine, con vivo stupore, comprendemmo il mistero: non erano affatto le luci del paese, da lì non visibile e, comunque, immerso nel sonno e nel buio pressoché totale. Erano le luci di decine, di centinaia di lucciole: che, però - stranamente - non parevano muoversi; ma, forse a causa della grande distanza, parevano restare immobili.
Questa, almeno, è la spiegazione che ci demmo allora; e, a distanza di tanto tempo, non ne vedo una migliore.
Però, qualche cosa di elusivo rimane.
È una cosa molto strana, davvero: ripensandoci ora, sembra quasi che si sia trattato di una sorta d'allucinazione; come se le normali leggi del mondo fisico si fossero, in quella notte, impercettibilmente modificate.
Per il resto, non provavamo alcun senso di disagio, e tanto meno di paura; anzi, solo il fascino impareggiabile di uno spettacolo meraviglioso, quale nessuna mano umana avrebbe saputo mai imitare, foss'anche del pittore più abile o del poeta più profondo.
Qualcosa di enigmatico si era rivelato, manifestandosi in un linguaggio arcano.
Erano luci viventi: erano le luci d'innumerevoli insetti notturni: e quella scoperta, nella grande pace e nel sovrano silenzio della notte di montagna, gettava un riverbero d'incommensurabile splendore sulla magia di quella strana marcia nel buio che, dopo tanta strada, sembrava vederci sempre fermi, come sottoposti all'influsso di un incantesimo.
Incredibile, dolcissima rivelazione di una notte d'estate carica di umori e di profumi, di sogni e di bellezza; quando tutto era così vivo, così saturo di splendore, che le cose di ogni giorno parevano svanite, dimenticate, cancellate, e non restava altro che il rapimento di quella superba, emozionante fusione con la vita arcana e inafferrabile della foresta popolati di mille erbe, di mille animali e d'infiniti spiriti benevoli, signori incontrastati di quei luoghi solenni come una immensa cattedrale a cielo aperto.

Era tanto tempo fa; c'erano ancora, le lucciole: e Pasolini non ne aveva ancora denunciato la scomparsa in quell'articolo memorabile, facendone la metafora della scomparsa del mondo pre-industriale e dell'avvento, chiassoso e prepotente, del cosiddetto benessere economico.

Sono passati molti anni, ma l'incanto di quella rivelazione non si è affievolito.
Vi sono delle esperienze estatiche che durano per sempre: ed essa fu una di quelle. Mai più ho respirato un tale incanto, un tale trasporto, un così struggente senso di poesia.
Vi sono momenti, nella vita dell'anima, che segnano delle tappe decisive; che ci svelano, per così dire, il senso primigenio del Tutto: ed essa li custodisce con amore, consapevole che si tratta di un tesoro inestimabile, che per nessuna ragione può essere scordato.
Dimenticare quei momenti, vorrebbe dire perdere molto di più che un semplice ricordo: vorrebbe dire perdere la propria anima.

Vi è una pagina in cui l'esploratore russo Vladimir K. Arsen'ev bene esprime quel senso estatico di fusione con la realtà, attraverso lo spettacolo meraviglioso di una notte d'estate, nel suo libro «Dersu Uzala. Il piccolo uomo delle grandi pianure», da cui Akyra Kurosaawa ha tratto il bellissimo film omonimo (titolo originale: «Dersu Uzala»; traduzione italiana di Costantino Di Paola e Sergio Leone, Milano, Mursia Editore, 1977, 1986, pp. 61-62).

«Il bosco finì, e davanti a noi si aprì come per magia un grandioso panorama montano A occidente si vedeva chiaramente il Sichote Alin'. Io mi aspettavo di vedere un massiccio montuoso con multiformi e aguzze cime, davanti a me c'era invece una catena piuttosto uniforme con un crinale smussato e un alternarsi di cime a forma di cupola  e di ampie insellature. Il tempo e le acque  avevano fatto il loro lavoro. Verso le dieci del mattino incontrammo sul sentiero delle tracce di ruote. Giungevano proprio a proposito. Negli ultimi giorni i cavalli s'erano stancati terribilmente. Riuscivano appena a muovere le gambe e a stento si trascinavano avanti, come ubriachi.
Il sentiero, con i solchi delle ruote ci condusse al fiume. Sull'altra sponda, all'ombra di enormi olmi, c'era una "fanza" [tipo di abitazione contadina dell'Estremo Oriente, spec. della Cina e della Corea] cinese. Ci rallegrammo come se avessimo visto un albergo di prima categoria. Saputo che negli ultimi due giorni non avevamo mangiato nulla, gli ospitali cinesi si affrettarono a prepararci la cena. Focacce all'olio di fava e polenta di "cumiža" [graminacea dai cui chicchi si ricava una farina pregiata] con legumi salati ci sembrarono gustosi più dei raffinati piatti di città. Non fu necessario accordarci verbalmente per decidere di rimanere  anche a pernottare nella "fanza".
I cinesi spostarono le stuoie e ci concessero la maggior parte dei loro "kany" [degli aggetti di pietra o d'argilla, lungo le pareti, sotto l quale passano i tubi della stufa, e che servono da letto].. Questi ultimi erano fortemente riscaldati, ma noi preferimmo essere tormentati dal caldo piuttosto che soffrire per i moscerini.
Per tutti quegli uomini ammucchiati, nella "fanza" non si poteva quasi respirare, c'era afa, resa ancor più insopportabile dal fatto che tutte le finestre erano starte chiuse con delle coperte. Allora mi vestii e uscii all'aperto.
La notte era silenziosa, proprio come l'amano gli insetti notturni. Quello ch'io vidi mi colpì così profondamente da dimenticare i moscerini che mi stavano tormentando. Ero come estasiato.
L'aria era piena di sfavillanti scintille verde-azzurro. Erano le lucciole. La luce, che esse emettevano ad intermittenza,  durava non più d'un secondo. Scegliendo una di queste scintille, si poteva seguire il volo della lucciola. Le lucciole non compaiono tutte insieme, ma gradualmente, una alla volta. Si racconta  che i coloni russi quando videro per la prima volta quello scintillare di luci, cominciarono a sparare all'impazzata col fucile, poi, spaventati, fuggirono. In quel momento le lucciole erano a migliaia, a milioni. Volavano tra l'erba, basse sulla terra,  sui cespugli e alte sopra gli alberi. Era come una danza della luce. D'un tratto balenò un vivido lampo e di colpo tutto  intorno s'illuminò.  Un'enorme meteora con la lunga coda attraversò veloce il cielo. Un istante dopo quella massa di luce si aprì in migliaia di scintille e scomparve dietro le montagne. E tornò l'oscurità. Come per incanto erano scomparse anche le lucciole. Passarono uno, due, tre minuti e d'un tratto  in un cespuglio s'accese una piccola luce, , poi un'altra, poi dieci, e dopo mezzo  minuto nell'aria di nuovo volteggiavano migliaia di scintille.
Per quanto bella fosse quella notte, per quanto grandioso fosse stato lo spettacolo degli insetti luminosi  e della meteora non potevo rimanere ancora a lungo  in quella radura. I moscerini mi avevano coperto il collo, le mani, il volto, erano penetrati trai capelli. Tornai nella "fanza" e mi distesi sul "kan".   La stanchezza ebbe il sopravvento e mi addormentai.»

Vi sono dei momenti, nella vita, nei quali il mistero ci sfiora con ali leggere di farfalla: il mistero della bellezza, il mistero della vita, il mistero dell'Essere.
Forse, esso ci sfiora continuamente; ma è solo in particolari circostanze, quando la natura stessa sembra apparecchiata per ridestare dall'assopimento il nostro occhio interiore, che ne abbiamo la percezione: e non sempre la cogliamo sino in fondo.
Il più delle volte, si tratta di un vago presentimento che presto svanisce e viene poi, se non dimenticato, sospinto e relegato in qualche angolo oscuro della coscienza, come si fa con gli oggetti che non osiamo buttare, ma dei quali, per il momento, non sapremmo proprio che fare.
Eppure, è importante saper riconoscere quei momenti, quando arrivano: perché sono messaggeri di bene, che giungono da lontano a portarci notizie preziose su noi stessi. Hanno fatto tanta strada, per arrivare fino alla nostra porta; e noi, magari, non li udiamo bussare e li lasciamo fuori, per superficialità e distrazione.
Come è possibile lasciare fuori della porta dei messaggeri di bene, che hanno percorso un così lungo cammino per rivelarci il mistero dell'Essere?
Il profeta Isaia, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, ha espresso questo concetto con una potente immagine (52, 7):

«Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero che annunzia la pace, del messaggero di bene, che annunzia la salvezza…»

Dobbiamo imparare a riconoscere questa bellezza; dobbiamo imparare a riconoscere il messaggero, a esultare quando lo vediamo incedere sui monti, diretto verso di noi.
È il messaggero di bene che ci annunzia la pace, il richiamo splendente dell'Essere.
E dobbiamo imparare a vederlo e ad ammirarne la bellezza, anche nelle circostanze quotidiane, nelle situazioni più umili e, all'apparenza, banali.
Sempre egli bussa alla nostra porta: dobbiamo fare l'orecchio fino.
Dobbiamo aprirgli, perché possa entrare: solo così potremo permettergli di rinnovarci. Da soli, non ne saremmo capaci.

Non è mai troppo tardi.
E anche un'altra cosa, dobbiamo fare.
Dobbiamo imparare a riconoscere che era lui, in tutte quelle occasioni in cui non lo abbiamo riconosciuto e non gli abbiamo aperto.
Questo ci renderà più saggi per il futuro, più solleciti a scorgere i segni.
Ci renderà migliori: farà di noi degli nuovi, pieni di speranza, di amore e di fede.