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L'uomo non possiede solo una libertà materiale, ma anche una morale, perché in lui vi è una legge

di Francesco Lamendola - 17/11/2008


A proposito del concetto della libertà umana regna, oggi, una enorme confusione; e non solo fra le persone comuni, ma anche fra coloro che - in teoria - dovrebbero essere le guide spirituali o, quanto meno, le lucide sentinelle del pensare e del sentire della società: i cosiddetti intellettuali.
Questa riflessione diventa inevitabile, e abbastanza malinconica, allorché casi come quello di Eluana Englaro investono l'opinione pubblica e un po' tutti ci scopriamo confusi, deboli, soggetti ad impressioni ed emozioni, più che sorretti da certezze e da valori irrinunciabili; e non troviamo affatto quella parola di orientamento e di umana saggezza che ci aspetteremmo dai tanti Soloni della filosofia, della sociologia, della psicologia, i quali, pure, sono solitamente così loquaci dalle colonne delle loro riviste patinate e così prodighi di opinioni, consigli ed esortazioni, finché si tratta di questioni inoffensive, come la diatriba sul sesso degli angeli.
No: ancora una volta, da parte loro, abbiamo udito solo un assordante silenzio; o, peggio, un coro disarmonico e berciante di affermazioni demagogiche, superficiali, poco o niente motivate sul piano dell'etica e della razionalità.
Né la cosa, in fondo, ci dovrebbe stupire. Come si può pretendere di avere le idee chiare circa la portata, i limiti e i doveri connessi all'esercizio della libertà umana, se non si possiede alcuna idea di chi sia l'uomo o se si è elaborata di lui un'immagine stravolta, incompleta e artificiale?
Perciò, prima bisogna chiarirsi le idee su chi sia l'uomo; poi, si potrà tentare di rispondere alla domanda su che cosa sia, effettivamente, la sua tanto decantata libertà (o l'altrettanto decantata assenza di libertà).
I nostri pretesi maîtres-à-penser, come dicevamo, non offrono alcun punto di riferimento saldo e chiarificatore: spargono dubbi a piene mani, ma non hanno la minima idea (e, forse, nemmeno la minima volontà) di dare delle risposte. La tendenza prevalente, oggi, fra i nostri filosofi, è quella più banalmente materialista, secondo la quale l'uomo è la stessa cosa del suo corpo; le sue emozioni, i suoi sentimenti, i suoi pensieri, tutto è corpo, grazie all'equivalenza: cervello, uguale corpo. Che il cervello possa essere soltanto l'organo dell'intelletto, questa semplice verità è stata da essi dimenticata o seppellita sotto una mole enorme di speciosi argomenti iper-razionali.
Un esempio di questa posizione, talmente rozza ed elementare che non meriterebbe nemmeno la qualifica di filosofia, è dato dalla quella di Umberto Galimberti, della quale ci siamo già occupati in un paio di precedenti lavori, per cui non vi torneremo sopra ulteriormente (cfr. F. Lamendola, «Umberto Galimberti e la morale del cristianesimo»; e «Nell'ambivalenza corporea di Galimberti, la riproposizione di un relativismo radicale», entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Dopo aver cercato da tutte le parti, fra gli intellettuali che oggi vanno per la maggiore, siamo giunti, pertanto, alla conclusione che essi ne sanno, su queste cose, meno dell'uomo comune; e ci siamo visti costretti, per così dire, a interrogare - oltre ai grandi filosofi del passato - la dignitosa saggezza dei nostri genitori e dei nostri nonni; di persone colte, che pure non si ritenevano e non erano considerate degli intellettuali, ma che hanno lasciato una traccia chiara e durevole nell'animo di coloro, a cominciare dai giovani e dagli studenti, che hanno avuto modo di ascoltarne la parola.
Tra queste persone, che una o due generazioni fa erano ancora numerose - come insegnanti, come sacerdoti o anche, semplicemente, come conoscenti, per non parlare dei genitori o dei nonni - ci piace qui ricordare quella di Pasquale Margreth, già preside dell'Istituto Magistrale diocesano di Udine, negli anni intorno alla metà del Novecento.
Le autorità cittadine, già da diverso tempo, hanno deciso di dedicargli il nome di una strada; ad onta di ciò, crediamo che ben poche persone, sia a Udine che - a maggior ragione - fuori di essa, sappiano qualche cosa di lui; così come, ad esempio, le nuove generazioni sanno poco e niente di quanto fosse diverso il volto della loro città soltanto qualche decennio fa, con  le innumerevoli rogge che l'attraversavano in ogni senso e col famoso «tram bianco» che la univa a Tarcento, la ridente cittadina ai piedi delle Prealpi Giulie, mentre il «tram verde»la collegava a San Daniele del Friuli.
Il tempo passa impietoso su uomini e cose e tutto sembra ingoiare, tranne le figure e le opere più imponenti; come se le umili vicende della vita quotidiana non contassero nulla, non fossero degne nemmeno di un ricordo.
Noi non abbiamo conosciuto, personalmente, Pasquale Margreth: ne abbiamo sentito solo parlare; inoltre, ci è venuto alle mani un suo corso di religione per la scuola secondaria superiore che, pur con tutti i limiti e le inevitabili semplificazioni dovuti sia al genere letterario, sia agli anni in cui fu scritto, ci ha riservato la sorpresa di una chiarezza concettuale invidiabile, tanto più ammirevole se paragonata ai pretenziosi e inconcludenti sproloqui di tanti intellettuali oggi famosi, pagati profumatamente non solo per i loro libri, ma anche per i più modesti e frettolosi articoli che escono, quasi distrattamente, dalle loro penne instancabili, e vanno a fare bella mostra di sé su qualche rotocalco femminile a grandissima tiratura.

Dunque, alla domanda: «Chi è l'uomo?», l'autore risponde che è un composto di anima e di corpo (e poco importa, se badiamo all'essenziale, una ulteriore distinzione fra anima e spirito; o anche, come vorrebbero teosofi e antroposofi, una suddivisione ancor più minuziosa e articolata delle varie sfere o livelli animici).
Per provare che l'anima dell'uomo è di natura spirituale, Margreth fa presente che l'uomo è in grado di formulare dei concetti astratti ed universali; e, inoltre, che è in grado di formulare, per mezzo dell'intelletto (ma non l'intelletto da sé, indipendentemente) dei giudizi, che possono essere tanto di natura estremamente semplice, quanto estremamente complessa. E conclude che la funzione del cervello, rispetto all'intelletto, è quella di fornire il mezzo o strumento del pensiero all'anima dell'uomo; non quella di essere una fonte autonoma di concetti e di giudizi.
Ma la parte più significativa della sua esposizione è quella concernente la natura della libertà umana.
Dapprima egli  sottolinea che solo l'uomo, fra tutte le creature viventi, è dotato di libertà di scelta, poiché gli animali possiedono solamente l'istinto. È questa la parte meno convincente del suo ragionamento, d'altronde conforme a un certo antropocentrismo di cui la cultura cattolica stenta a liberarsi ancora oggi. L'esempio che egli fa, dell'uomo, del cane e del cibo, sostenendo che solo l'uomo è capace di autodisciplinarsi e di scegliere di non mangiare, mentre il cane, se lo fa, lo fa solo perché minacciato col bastone, è decisamente inadeguato.
Noi stessi possiamo testimoniare il contrario, sulla base di una semplice esperienza diretta: perché abbiamo vissuto a lungo con una cagnetta, di natura affettuosissima e sensibilissima, la quale per tutto il giorno si asteneva dal toccare il cibo che le veniva lasciato nella scodella, fino al nostro ritorno; e solo allora, dopo essersi precipitata a fare le feste a ciascuno di noi, in ordine di affetto (che non coincideva con l'ordine di chi si occupava materialmente di lei; e cominciando, quindi, dalla mamma), finalmente si gettava sul cibo, ingurgitandolo - affamatissima com'era - in pochi, avidi bocconi.
Ma lasciamo perdere ciò, per non allontanarci dall'essenziale. E l'essenziale non è che la concezione sostenuta da Margreth pecchi di eccessivo antropocentrismo (torneremo altra vola su questo aspetto e, in particolare, sulla questione dell'anima degli animali), ma che essa esprima chiaramente la distinzione fra i due generi di libertà di cui è in possesso l'anima umana: quella naturale e quella morale.
Oggi regna una confusione spaventosa fra questi due piani, e si tende a identificare l'uno con l'altro,  o, addirittura, a negare che esista il secondo, per risolvere la vita morale della coscienza unicamente nel primo.
Ed è ben per questo che la nostra società, soggiogata da una concezione puramente scientista e materialista della realtà, non si pone più nemmeno l'interrogativo circa l'opportunità e la liceità delle applicazioni tecnologiche di determinate scoperte scientifiche. Se è possibile, dal punto di vista naturale, fare una determinata cosa - così in genere si argomenta -, perché mai non si dovrebbe farla, dato che tutto è giusto e buono quel che viene dalla ragione strumentale e calcolante?
Ahimé, non è così. Vi può essere una barbarie della ragione, così come vi possono essere una follia e una malvagità della scienza. È questo il concetto induista di tamas, ossia di oscuramento, illusione, ignoranza, che non è detto debba accompagnarsi all'ignoranza materiale (un uomo illetterato può essere più spirituale e più saggio di mille scienziati di un certo tipo), ma che, anzi, può benissimo procedere di pari passo con un progresso tecnoscientifico senza precedenti, quale è quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, ma non sempre in accordo con il nostro più profondo senso morale.
Ne abbiamo già parlato in diversi articoli.
Come ha scritto il matematico Richard L. Thompson nel suo pregevole studio «Le civiltà degli alieni» (titolo originale: «Alien identities», 1993; traduzione italiana di Jackson Libri, Bresso [Milano], 1995, pp. 341):

«Il "tamo-guna", l'influenza dell'ignoranza, non comporta necessariamente una mancanza di sapere e di abilità. In effetti, un vasto sapere materiale è perfettamente compatibile con la più profonda illusione. Il progetto Mahattan  nella Seconda Guerra Mondiale ne è il è perfetto esempio: i migliori fisici del mondo hanno usato le loro conoscenze più avanzate per creare un'arma che continua ancora oggi a minacciare la sicurezza del mondo intero.
Si potrebbe obiettare che c'erano delle ottime ragioni per costruire e utilizzare la bomba atomica. Per esempio, ha salvato la vita a milioni di americani e di giapponesi che sarebbero morti nell'invasione del Giappone, e poi se non avessimo lavorato duro per produrla prima noi, ci sarebbero arrivati prima i tedeschi o i giapponesi. Ma queste argomentazioni mostrano soltanto che l'illusione può avere una struttura logica. Un'illusione può essere così potente e pressante da rendere molto difficile vedere al di là di essa per percepire la realtà.
Nella letteratura vedica, Maya Danava è l'epitome della persona estremamente progredita nella conoscenza materiale e, allo stesso tempo, profondamente immersa nell'illusione. è famoso per aver creato delle meraviglie tecnologiche, come il "vimana" del re Salva (…), ma i suoi sforzi sono quasi sempre tesi a scopi illusori o distruttivi. In generale, nelle storie vediche riscontriamo che gli esseri dominati dall'ignoranza tendono a desiderare una tecnologia progredita e i poteri mistici.»

Dunque, esiste una libertà materiale ed esiste una libertà morale.
La libertà morale è frutto, a sua volta, di una legge morale, che gli animali - in linea di massima - non possiedono (e qui possiamo convenire con Margreth), in base alla quale l'uomo è immediatamente consapevole di avere o non avere il diritto di compiere una determinata azione.
Vi sono numerose azioni che è possibile compiere, ma che non si ha il diritto di compiere - anche se, per renderle accettabili alla coscienza morale, gli esseri umani sono capaci di rivestirle speciosamente di ogni sorta di argomenti razionali, a cominciare da quello della compassione. Come ha giustamente osservato il Thompson, non venne invocato l'argomento della compassione (di voler salvare, cioè, un maggior numero di vite umane) perfino quando vennero sganciate le diaboliche bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki?
E non è sulla base di argomentazioni pseudo-compassionevoli che si è deciso, con la sentenza della Corte di Cassazione, di interrompere l'alimentazione di Eluana Englaro, condannandola a morire di disidratazione e di fame (ma somministrandole sedativi affinché non soffra: suprema ipocrisia di quanti sostengono che ella non è più in grado di sentire nulla, perché tanto è già «morta»!).
Come è piccolo il mondo.
Pare che l'ultimo atto della tragedia di Eluana dovrà avere luogo proprio nell'Ospedale Civile di Udine, la città di Pasquale Margreth (e nostra), dalle cui riflessioni eravamo partiti.

Scrive, dunque, don Margreth nel primo volume del suo corso di religione «Veritas et Vita» (Udine, Del Bianco Editore, quarta edizione, 1946, pp. 112-116):

«Secondo la Fede, l'essenza dell'uomo sta nel duplice principio di cui è composto: anima e corpo.
Tutti gli errori in cui nel corso dei secoli caddero filosofi e scienziati nel trattare la natura dell'uomo, dipendono dall'aver dimenticato questa verità fondamentale.
Il corpo dell'uomo può avere ed ha di fatto molte somiglianze con il corpo di altri esseri; ma ciò che distingue l'uomo dai bruti e che lo colloca in una sfera del tutto superiore è lo spirito. (…)
Se al nostro occhio si presenta per la prima volta un oggetto che non abbiamo mai visto, noi ci formiamo delle immagini particolari: ripensandoci ci si riaffaccia alla memoria quell'oggetto con le qualità con cui l'abbiamo osservato.
Ma se vediamo molti oggetti della stessa specie, il nostro intelletto riesce a separare le qualità particolari da ciò che costituisce l'essenza dell'oggetto stesso, forma cioè il concetto universale. Quando io ho visto molti animali feroci, leoni, tigri, iene, leopardi, se poi voglio rispondere a questa domanda: "che cos'è un animale feroce?", non penso più al leone, né ala tigre, ecc., che ho veduti, ma all'animale, in genere, che non è domestico, pacifico, ma violento, sanguinario, ecc.
Di più io posso farmi dei concetti universali di cose astratte: ho visto molte persone virtuose, viziose, sagge, stolte; persone e cose belle, brutte, mediocri; con la potenza del mio intelletto non mi formo solo i concetti di persona virtuosa, saggia, bella ecc. ma anche di virtù, vizio, bellezza, bruttezza, saggezza ecc.
Il nostro intelletto giunge anche a formare dei giudizi, a stabilire cioè la convenienza o disconvenienza di due concetti fra loro. Nella semplicissima rase: "Il cane è fedele" io metto in relazione due termini, quello del cane e quello di fedeltà; e trovo che il concetto di fedeltà è ben appropriato al cane; formulo così un giudizio.
Ora se in noi c fosse solo un principio materiale, non potremmo formare né concetti immateriali né giudizi.
Si deve pertanto conchiudere che nell'uomo vi è un duplice principio, uno materiale, il corpo, l'altro spirituale, l'anima.
Contro le prove per la spiritualità dell'anima desunte dalla capacità dell'intelletto di formare concetti astratti e giudizi, i materialisti oppongono che non è l'intelletto che pensa, ma il cervello; con una lesione al cervello può succedere la idiozia o lo squilibrio mentale.
Si deve rispondere che l'uomo non è come gli angeli una sostanza puramente spirituale, ma è una sostanza composta di anima e corpo; gli angeli intendono per mezzo di specie intelligibili immagini infuse da Dio, l'uomo, per pensare, si serve del cervello; ma questo non è altro che il mezzo o lo strumento, non la causa del pensiero.
Per scrivere io ho bisogno della penna, ma sono io che scrivo; nemmeno Raffaello Sanzio, con tutto il suo genio, avrebbe potuto dipingere una delle sue magnifiche tele senza il pennello; il pennello, però, non era la causa efficiente principale del quadro, ma solo il mezzo, lo strumento.
Così, se la penna con cui scrivo è guasta, la scrittura mi riesce imperfetta; se il pennello è scadente, misero sarà anche il quadro del più grande pittore.
Altrettanto si dica dei rapporti tra intelletto e cervello.
La natura umana esige che i sensi portino al cervello le immagini degli oggetti; l'intelletto poi elabora le immagini e forma concetti e giudizi: però è sempre lo spirito che pensa e che agisce, non la materia cerebrale.
Insieme all'intelligenza l'uomo ha un'altra dote in cui risplende l'immagine e la somiglianza di Dio: la libertà del volere.
L'animale non ha volontà, non ha libertà., è guidato dall'istinto. È tratto necessariamente ad agire in un determinato modo a meno che qualche forza maggiore lo trattenga.
Di fronte a un cibo che solletica la gola, l'uomo può vincere il suo desiderio, il suo appetito, astenersi dal mangiare; l'animale di fronte a un cibo che lo alletta può fare a meno di mangiare; ne farebbe a meno, qualora, per esempio, vedesse vicino a sé persona pronta a percuoterlo se mangiasse quel cibo, allora è una forza più potente che lo determina, lo costringe ad astenersi dal cibo; in altre parole è un istinto, quello della difesa o della conservazione, che supera l'istinto della gola.
Se l'animale non sapesse determinarsi a una cosa, ciò significherebbe che è attratto da due forze identiche e contrarie che si neutralizzano a vicenda, cosa ben difficile nella pratica.
Ma l'uomo non è in tali condizioni: l'uomo ha la facoltà di scelta; può fare una cosa e può non farla. Uno si trova nell'occasione di rubare: da una parte sente i desiderio d'impossessarsi della somma di denaro che gli può essere utile, dall'altra sente l'impero della legge morale che glielo vieta; egli si determina all'una o all'altra cosa non perché sia trascinato irresistibilmente, necessariamente, ad essa, ma perla sua libera elezione. (…)
Ma qui per non creare equivoci è necessaria una distinzione: altro è libertà fisica e altro è libertà morale.
Quella di ci abbiamo parlato finora è la libertà fisica, cioè la capacità che l'uomo ha di fare una cosa o di non farla, farne una a preferenza di un'altra.
Agli animali Iddio non ha dato la facoltà di scelta nei loro atti; essi seguono ciecamente l'istinto: all'uomo invece ha dato questa capacità di scelta. Però ha aggiunto anche una legge morale, che non distrugge la libertà fisica o naturale che sopra abbiamo descritto, ma che toglie il diritto di fare un'azione che non sia conforme a tale legge, che gl'impone un dovere di seguirla, tantoché se l'uomo, usando della sua libertà fisica, s determinasse a compiere un'azione in contrasto con la legge morale, peccherebbe.
Per ritornare all'esempio del ladro che si trova nell'occasione di rubare, diciamo che egli ha la libertà fisica di compiere il furto, ma non ha la libertà morale, perché la legge di Dio glielo proibisce…»

Vi sono - lo ripetiamo - diverse cose le quali, alla luce della nostra sensibilità di cittadini del terzo millennio, stridono un poco nella prosa di questo brano.
Invitiamo però le persone libere a ignorare quanto di anacronistico o di limitato (in senso confessionale) può esservi in esso e di concentrarsi sull'essenziale, così come si dovrebbe sempre fare, non solo di fronte ai libri, ma anche di fronte alle persone, che troppo spesso siamo portati a giudicare sulla base delle semplici apparenze (cfr. il nostro precedente articolo: «Ogni passo che ci porta fuori del nostro piccolo io è una apertura che ci avvicina all'Assoluto», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
L'essenziale è l'idea che esiste nell'uomo, inscritta nel profondo della sua coscienza, una legge morale che gli è connaturata e che, crediamo, gli è stata data dall'alto, proprio per aiutarlo ad orientarsi nel labirinto delle leggi minori e imperfette che l'ambiente, di volta in volta, elabora intorno a lui (le quali possono giungere fino al limite estremo di pervertire completamente il senso di quella legge originaria).
Se noi non teniamo fermo questo caposaldo, inevitabilmente cadremo - presto o tardi - nel relativismo etico e ci troveremo in balia di un caos di interessi contrastanti, ciascuno dei quali tenderà a sopraffare l'altro; e il mondo si trasformerà in una foresta di belve dalle zanne insanguinate, ove nessuno avrà compassione dell'altro, se non - forse - sulla base di un proprio preciso calcolo e di un proprio preciso tornaconto.
I sostenitori di un tale relativismo  dovrebbero inoltre assumersi la responsabilità di dichiarare inutili e assurdi sia i premi che i castighi, perché nessuno sarebbe più responsabile del bene o del male compiuto, ma ognuno agirebbe puramente e unicamente in base a una libertà naturale, paragonabile all'istinto degli animali e, di fatto, poco o punto più evoluta di esso.
Oppure, come ha fatto Hobbes, i sostenitori del relativismo etico dovrebbero avere la coerenza di esigere l'intervento di una legge estrinseca paurosa e terribile, capace di mettere ciascuno in soggezione, come il mitico mostro Leviatano; e di dichiarare pubblicamente che l'unica forma di vita associata che si addice agli esseri umani è quella di un gregge di bruti, che la sferza del padrone tiene costantemente in rispetto, e senza la quale si getterebbero gli uni sugli altri, distruggendo in se stessi fin l'ultimo barlume di umanità.
Ma, in una società cosiffatta, dovremmo rinunciare a ogni forma di libertà politica e sociale, riconoscendoci assolutamente incapaci di meritarla e di gestirla; e rassegnarci a vivere sotto la sferza implacabile della legge esteriore.
Il fatto che, al contrario, la legge degli uomini preveda delle pene maggiori o minori, a seconda delle circostanze che accompagnano la sua infrazione, tenendo conto di tutta una serie di fattori che possono aver diminuito la libertà morale dell'uomo, è la miglior prova che, per unanime consenso, gli esseri umani riconoscono l'esistenza di quella legge morale innata, senza la quale sarebbe una forma di inutile violenza il castigo del delinquente, così come sarebbero un arbitrio e un capriccio ogni premio e riconoscimento assegnati al merito.
Solo tornando a recuperare pienamente il concetto di una nostra libertà morale, distinta e differente da quella puramente fisica e naturale, potremo anche tornare a costruire dei rapporti sociali basati sulla perfettibilità dell'uomo, sulla sua aspirazione al bene, sulla sua capacità di operare delle scelte che siano veramente morali, proprio perché veramente libere.
E solo così facendo potremo riscoprire il concetto ed il relativo sentimento della compassione, distinguendoli da quella loro pietosa, grottesca contraffazione che consiste nel mascherare di buone intenzioni delle scelte moralmente illecite, perché contrarie alla legge innata della coscienza.
Dai suoi frutti, è stato detto, potremo riconoscere la liceità morale di una determinata scelta: perché l'albero buono non può dare frutti cattivi, né l'albero cattivo potrà mai dare frutti buoni.