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Una pagina al giorno: Sono buoni gli Inglesi?, di Concetto Pettinato

di Francesco Lamendola - 21/12/2008


 

Nel precedente articolo «I giorni di Lublino nel 1914, di Concetto Pettinato» (consultabile anch'esso sul sito di Arianna Editrice) ci eravamo già occupati di questo giornalista che fu corrispondente di guerra sui campi di battaglia della Polonia fra Austro-Ungarici e Russi.
Avevamo anche osservato che intorno alla sua memoria è stato disteso un pesante velo di oblio, destino toccato anche a un altro notevole giornalista italiano del periodo fascista, Mario Appelius (cfr. F. Lamendola, «Una pagina al giorno: L'ultima vergine, di Mario Appelius» (sempre sul sito di Arianna Editrice); e che tale oblio non è certamente casuale, ma piuttosto una diretta conseguenza del fatto che egli si distinse, nel periodo della Repubblica Sociale Italiana, per un deciso impegno nella politica interna ed estera mussoliniana, in senso spiccatamente anti-borghese e anti-britannico, attirandosi anche l'aperta ostilità degli elementi più reazionari del partito fascista; e che - "horribile dictu" - a guerra finita non fece alcun "mea culpa", non strisciò ai piedi del vincitore e non si cosparse il capo di cenere per le sue colpe politiche.
Il che, nella Repubblica del Gattopardo e dei camaleonti d'ogni colore e d'ogni sfumatura, diede decisamente fastidio a più di qualcuno.

Ma chi era Concetto Pettinato?
Nato a Catania il 3 gennaio 1886 e morto ad Este il 12 gennaio 1975, Pettinato è stato una voce originale e non trascurabile nel campo del giornalismo e della saggistica.
Viaggiatore curioso e instancabile fra la Russia, la Francia, la Turchia e la Polonia, inviava le sue corrispondenze al direttore e proprietario de «La Stampa» di Torino, Alfredo Frassati, dapprima come corrispondente volontario e poi come inviato ufficiale del quotidiano torinese.
Nel 1914 si trasferisce a Parigi e, di lì, allo scoppio della guerra, in Polonia.
Entrata in guerra anche l'Italia, nel maggio del 1915, egli vi prende parte come membro del Comando supremo del generale Cadorna, in qualità di responsabile dell'Ufficio informazioni.
Nel 1918, alla conclusione della guerra, riprende servizio presso «La Stampa» ed è di nuovo inviato speciale in Ungheria all'epoca della rivoluzione comunista di Béla Kun, repressa dall'intervento dell'esercito romeno e dalla reazione dei latifondisti e dalle forze della borghesia magiara.  Inviato speciale a Berlino dal 1920, fino al 19126 vive e lavora fra la Germania e la Francia, nella sua vecchia sede di Parigi.
Iscritto al partito fascista dal 1926, diviene poi inviato speciale in Spagna, a Madrid. Nel 1938 è tra i firmatari del manifesto di adesione alle Leggi razziali varate dal regime fascista.
Alla fine del 1942, dalla Svizzera dove si trova per lavoro, pubblica (a sue spese, perché non trova un editore disposto a finanziarlo) un "pamphlet" che desta scalpore e un notevole imbarazzo anche all'interno del regime: «Gli intellettuali e la guerra». In esso egli sostiene che gli intellettuali sono venuti meno ai loro doveri verso la nazione, perché non hanno creduto nella giustezza della guerra e non hanno sostenuto il Paese nello sforzo bellico (siamo ormai all'indomani della sconfitta di El Alamein); e ciò mentre la propaganda nemica sa sfruttare abilmente ogni occasione per avvilire gli Italiani, anche ai loro stessi occhi.
Né Pettinato si limita ad accusare gli intellettuali di latitanza morale nei confronti della guerra in corso; ma di avere confermato, nelle attuali circostanze, un loro antico e inestirpabile vizio; quello di separarsi dai problemi concreti e immediati della nazione, per rifugiarsi in un loro mondo evanescente, fatto di cose lontane dal destino del popolo italiano.
Nel 1943 aderisce alla Repubblica Sociale Italiana e riceve da Mussolini l'incarico di dirigere «La Stampa», alla quale - d'accordo con il Duce - imprime un indirizzo di discussione critica all'interno del regime, appoggiando, fra l'altro, «L'Italia del popolo» e il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista di Edmondo Cione.  Il 21 giugno 1944 pubblica il famoso articolo: «Se ci sei, batti un colpo"», rivolto a Mussolini e inteso a spronarlo a riprendere vigorosamente il programma economico-politico di socializzazione delle grandi imprese e di rompere decisamente con la borghesia.
Tale indirizzo non piace ai «duri e puri» di Salò, tanto che nel marzo 1945 Pettinato viene addirittura arrestato dalla polizia fascista.
Dopo la caduta della Repubblica Sociale e la fine della guerra, Pettinato si nasconde a Milano, ma nel giugno del 1946 viene arrestato e processato a Torino, dove un tribunale lo condanna a ben quattordici ani di carcere per collaborazionismo; ma lo stesso anno viene rimesso in libertà, per effetto della sopraggiunta amnistia del Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti.
Nel secondo dopoguerra, a differenza di tanti e tanti intellettuali italiani che, dopo aver flirtato per vent'anni col fascismo, passano con la massima disinvoltura nel campo dell'antifascismo, egli rimane fedele alle sue idee di «fascista di sinistra»  e nel 1947 si iscrive al Movimento Sociale Italiano. Ma, scomodo e irrequieto come lo era sempre stato nell'ambito del fascismo stesso, nel 1952 si dimette anche da quel partito.
Negli ultimi anni della sua vita diviene collaboratore fisso per «Il Tempo».

Un personaggio atipico, insomma; sia per quella sua coerenza e fierezza politica, che lo rendono incapace di curvare la schiena davanti ai potenti di turno; sia per quel taglio decisamente "di sinistra" del fascismo da lui professato. Per lui, il fascismo "vero" è, ancora e sempre, quello di Piazza San Sepolcro: repubblicano, anticapitalista e antiborghese.
Ciò spiega la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana, vista come un ritorno alle origini del fascismo: dopo che il tradimento della borghesia, consumatosi fra il 25 luglio e l'8 settembre del 1943, aveva dimostrato "ad abundantiam", e in maniera ormai inequivocabile, che di tale classe non era più possibile fidarsi in alcun modo.
In perfetta coerenza con tale impostazione, Pettinato individua negli Stati Uniti d'America e nel Regno Unito - i due "cugini" anglosassoni, come egli li chiama - i principali nemici dell'Italia in guerra e del fascismo; come, del resto, pensava anche Mussolini e fin da prima del 25 luglio, allorché aveva tentato sino all'ultimo - ma senza successo - di convincere Hitler a concludere una pace di compromesso con l'Unione Sovietica, per rivolgere tutte le forze dell'Asse contro le potenze occidentali.
In questa cornice ideologica e politico-militare si inquadra il volume del 1944 «Questi Inglesi», di cui sopra abbiamo presentato qualche pagina; e che denota una conoscenza fuori del comune della storia britannica, dai tempi della regina Elisabetta al XX secolo.

Dal capitolo quindicesimo del libro di Concetto Pettinato «Questi Inglesi» (Milano, Bertieri Editore, 1944, pp. 138-147):

«Giunti a questo punto, i lettori mal prevenuti peseranno che esagero e che il profilo tracciato degli Inglesi nelle pagine che precedono costituisce una vendetta politica e non un ritratto, un libello e non un libro serio. "Gli Inglesi! Figuriamoci: il popolo più civile della terra! Il meglio educato! Il più aristocratico! Il più virtuoso! Il più liberale! Il più longanime! Il più bello! Sicuro, anche il più bello. Non è forse questa la conclusione imposta ai malevoli dai musei e dai castelli del Regno Unito, con quella imponente sfilata di esemplari d'una umanità superiore, dove Holbein sembra gareggiare con Van Dick, Reynolds con Lawrence, Gainsborough con Romney e Cooper col Cosway per strappare al mondo un grido d'estasi e d'adorazione? Quell'Endymion Porter, il favorito di Carlo I, quel George Villiers duca di Buckingham, quella contessa di Shrewsbury, quella Nell Gwynne, quel Nash, quell'Henry Tufton conte di Thanet, quel Pitt il giovine dall'incarnato verginale, quelle tre sorelle Rushout dal sorriso ammaliante, quella Elizabeth Nugent, quella contessa di Jersey dalle chiome di Maddalena, quel Byron dal collo di serafino! S'è mai veduta sotto il sole assemblea più degna di riverenza? Altro che volto di Medusa! Questa è la patria dei Giovi, degli Apolli, delle Veneri, delle Diane, un Olimpo moltiplicato per mille, una nuova Ellade! E non ti basta? Giù il capello, sciagurato, davanti al corteo dei milordi, dietro i cui cocchi l'Europa migliore corre da tre secoli tendendo la mano nella polvere e offrendo locande, palazzi, reggie, quadri, statue, gemme, virtù, coscienze, amori, tradimenti, dedizioni, rinunzie!…"
Ebbene, no!, rispondo all'ipotetica diatriba. Che anche in Inghilterra nascano, vivano ed operino delle brave persone non perderò tempo a discutere. Ma non son stato io a scrivere quel che si legge nel primo capitolo dell'"Essay on depravation of the human nature" dato alle stampe da un tal Mac Mahon nel 1774 - l'epoca dell'illuminismo ottimista - che "se ogni padre lo potesse ammazzerebbe suo padre e se ogni re lo potesse ammazzerebbe il suo popolo". Perché alligni, sia pure nella patria dell'Hobbes, una sfiducia così truce sul conto della progenie d'Adamo, una così sciagurata certezza dell'universale genio del male, una buona ragione deve pur esserci. Chi non ricorda, che abbia qualche dimestichezza con le lettere d'oltre Manica, l'amara invettiva scagliata contro gli Inglesi dal De Foe nel suo "True born Englishman"? "Inglesi, fatevi dunque beffe degli stranieri! Dimenticate forse che nasceste da una stirpe di briganti, di pezzenti e di vagabondi? Quali furono gli avi vostri? Il feroce pittone, il brettone tatuato, il perfido scoto, il pirata della Norvegia e il corsaro di Danimarca. Ecco progenitori, affé, venerabili e vi consiglio d'esserne fieri. I Normanni feroci e famelici venero poi a ripopolare la vostra isola; e re Carlo II, durante il suo regno d'ignavia e di corruttela, mescolò il sangue vostro con quello d'una turba di guatteri francesi, di bastardi italiani e di accattoni scozzesi…. Tetri come i Danesi, saccheggiatori come i Normanni, cocciuti come i Pittoni, perfidi come gli Scoti, nelle vostre vene scorre il sangue di tutte le razze perdute ed infami. Quel poco d'onestà che vi avanza è l'estremo retaggio degli antichi Sassoni, e sallo Iddio se tale fonte sia esausta!".
Diremo che il De Foe era un libellista accecato dalla passione di parte? Ma David Hume era un filosofo e uno storico, e questo non gli impedì d'intitolare gli Inglesi di "barbari del Tamigi" e l'Inghilterra" covo di briganti". E che non dovesse esser solo a pensarla così basterebbe a provarcelo la più fugace delle occhiate alla storia di un popolo il quale, se ebbe il proprio Rinascimento, come vedremo, nel secolo XIX, protrasse il Medio Evo e i suoi errori sino a età moderna inoltrata. Giacché tragedie di puro stile medievale furono quella guerra delle Due Rose che portò allo sterminio reciproco del patriziato britannico, e figure medievali quel Riccardo III che insanguinava l'Inghilterra quando già l'Italia toccava coi suoi due Lorenzi, il Valla e il Magnifico, le limpide vette dell'Umanesimo, e quell'Enrico VIII, Falstaff teologo, piantato a gamba aperta fra i roghi di Smithfield e i patiboli della Torre mentre su un arpione di London Bridge imputridisce il capo mozzo dell'amico d'Erasmo, primo contributo inglese alla libertà di pensiero!, e quella Maria Tudor che per restaurare il cattolicesimo gettava nelle fiamme trecento protestanti, e quell'Elisabetta che per ristabilire l'anglicanismo faceva impiccare, squartare, bollire, come suo padre, ma dopo averli arrotati sulla così detta "figlia d'Exeter", centoquarantasette ecclesiastici, una cinquantina di gentiluomini e gran numero di popolani dei due sessi, e quel Titus Oates, prete spretato e manutengolo di ladri, che nel 1678 trovava modo di mandare al capestro  sotto un'accusa immaginaria duecento cattolici, e quel Giacomo II che ancora alla fine del secolo, quando Newton ha 45 anni e Locke 54, tentava una rivoluzione religiosa coi selvaggi metodi tudoriani mentre per le vie di Londra i suoi sudditi, di parer contrario, davano la caccia ai papisti rompendo loro sul gobbo il "protestant flail" o, per dirla più semplicemente, il randello. Nel 1726, il re di Brondingnac non nascondeva a Gulliver di giudicare la storia d'Inghilterra, che ancora non illustravano i crimini della conquista delle Indie e dell'Africa né i disordini del liberalismo industriale, "un orrendo seguito di congiure, di ribellioni, di assassinii, di massacri, di rivoluzioni, di esilii e dei più atroci effetti che avarizia, spirito fazioso, ipocrisia, perfidia, crudeltà, ira, follia, odio, invidia, malizia e ambizione possono generare" e di tenere i Britanni in conto dei più malefici vermi cui Natura abbia mai permesso di strisciar sulla terra (Swift, "Gulliver's Travels", II, 6).
Ma questi "vermi", mutatisi in pirati e salirti a bordo di bei vascelli gonfi di vele, invece di strisciare navigavano, e d'onda in onda, di mare in mare s'erano impadroniti sin delle terre più lontane, secondo un procedimento che lo stesso Swift ricostruisce senza inutili eufemismi: "Una tempesta spinge i pirati in regioni sconosciute; un bel giorno uno dei loro mozzi scopre terra dalla coffa dell'albero maestro; la ciurma scende per saccheggiare e rubare; un popolo inoffensivo li accoglie con bontà; i pirati impongono alla contrada un nome nuovo; ne prendono possesso in nome del Re; piantano un trave marcio o una pietra a memoria dell'avvenimento; trucidano due o tre dozzine d'indigeni e ne pigliano a bordo un paio un qualità di campione; poi tornano in patria, e il Re fa loro grazia d'ogni pirateria. E da questo momento ha inizio una nuova dominazione di diritto divino. Alla prima occasione si mandano sul luogo delle navi del governo, si scacciano o si annientano i nativi del nuovo dominio; si torturano i loro principi per obbligarli a rivelare l'oro che posseggono; si autorizzano tutti i possibili atti di crudeltà e di licenza; s'annaffia il suolo col sangue degli abitanti. E l'esecrando equipaggio di carnefici adoperato per questa pia spedizione forma una colonia moderna per convertire un popolo d'idolatri e di selvaggi" (op. cit., IV, 12). Così, sull'orme dei "sea devils", servi e apostoli del genio del male, nacque l'impero britannico e scomparve, per cominciare, un'intera razza a occidente dell'Atlantico.
Era quella, si osserverà, la civiltà del tempo, e gli Spagnuoli non fecero di meglio dei loro rivali. Sentite allora, sul conto degli Spagnuoli, quanto prova il bisogno di scrivere l'altro grande testimone inglese del medesimo secolo: "E qui debbo riconoscete, a onore di questi Spagnuoli, che, qualunque cosa si possa narrare della crudeltà di questo popolo al Messico e al Perù, io non incontrai mai in verun paese diciassette uomini d'una qualunque nazione che fossero in ogni occasione così modesti, moderati, virtuosi, cortesi e di così buon carattere. Per quel che riguarda la crudeltà, non se ne vedeva ombra nell'indole loro; non si trovava in loro inumanità né barbarie, né passioni violente; e tuttavia erano tutti uomini di grande ardore e di gran coraggio (De Foe, "The life and adventures of Robinson Crusoe", Brighton, 1889, parte II, pag. 232). Fingeremo di non intendere il senso di una tale deposizione?
Venne poi, nel secondo quarto del secolo XVIII, la lotta per le Indie, che doveva durare fino al 1885 e coprire i Giovi e gli Apolli del Regno Unito di tesori insanguinati, portando all'apogeo la loro potenza economica, sociale e politica e offrendo al mondo lo spettacolo non comune d'un popolo di azionisti che con una mano bada a riscuotere dividendi e con l'altra si copre pudicamente il viso per non vedere quel che fanno i propri consiglieri delegati. Da Londra i direttori della Compagnia chiedevano a Madras e a Calcutta somme d'anno in anno più grandi: quando, poi, la fama recava loro l'eco delle stragi del Bengala, delle estorsioni di Vansittart, del massacro di Rohilla, del supplizio di Nuncomar, della cacciata del ragià di Benares, dell'arresto delle sovrane di Ude, quando, a forza di decimare province, di usurpare eredità, di corrompere nababbi, di farsi esecutori prezzolati di vendete domestiche, s'erano ridotti alla mendicità i potentati locali e impinguate le casse dell'Olimpo inglese, questo medesimo Olimpo, in un sobbalzo di sdegno virtuoso, si offriva il lusso d'intentare il processo ai suoi Verre, come fece nel 1755 con lord Clive e nel 1788 con Warren Hastings, e uno Sheridan puntava l'indice vendicatore contro i nuovi nababbi che non esitavano ad assediare una città per riscuotere una cambiale e a spodestare un principe per pareggiare un bilancio - sempre la politica del Bonomo Riccardo! - e un Burke si alzava dal banco degli accusatori per dire all'Hastings: "Sul suo capo si ammucchiano tutte le frodi e tutte le tirannidi. Io lo accuso di aver rubato i beni dell'orfano e della vedova, di aver devastato intere contrade conducendone a morte gli abitanti a furia di sevizie e angherie. Lo accuso di averli insultati e torturati con l'aiuto dei miserabili che gli davan mano nei suoi delitti. Ladro, tiranno, truffatore, bugiardo: mi rincresce soltanto che la nostra lingua manchi di vocaboli più adeguati all'enormità delle sue colpe. In nome della nazione inglese di cui ha macchiato l'onore, in nome del popolo indiano la cui patria ha mutato in deserto, in nome d'ambo i sessi, in nome di tutti i tempi e di tutte le classi, metto in istato d'accusa il nemico comune e l'onta dell'uman genere". C'è forse bisogno di dire che l'oggetto di sì obbrobriosa scomunica fu assolto, visse, fatto segno alla gratitudine delle camere, ancora un quarto di secolo, morì consigliere privato del Re e dottore onorario dell'Università di Oxford ed ebbe un bel ritratto, di mano del Lawrence, su una parete della National Gallery?
Non appena finito con l'India, d'altronde, si ricominciava con l'Africa. E anche questa vota l'imperialismo dei milordi volle il suo processo, come i beneficati dei Santi vogliono l'ex voto da appendere in chiesa per sdebitarsi della grazia ricevuta. Ma per bollare le imprese di Cecil Rhodes non si trovò un Burke, e il processo del 1896, dopo il fallimento del secondo tentativo per impadronirsi del Transvaal, fu una semplice commedia destinata a salvare l'amor proprio di Joe Chamberlain e a meglio addormentare la diffidenza di Krüger, cui tre anni dopo si sarebbe fatta la guerra sul serio. Cecil Rhodes, figlio di pastore e collo torto, il quale nel 1893 aveva sguinzagliato Jameson sulla futura Rhodesia telegrafandogli a titoli di viatico un versetto del Vangelo di San Luca, si prestò alla commedia.., serbò i sei o sette milioni di sterline ammassati coi diamanti di Kimberley e con l'oro del Rand ed ebbe la soddisfazione di vedersi nominato a sua volta dottore onorario a Oxford, acclamato per le vie di Londra dalle imperiali dei "buses" e appeso in effige, con la sua mascella sorridente e la sua fossetta sul mento, a un'altra parte della National Gallery. Trattamento che segnava un progressi su quello usato un secolo prima a Warren Hastings, ma al quale non fu forse estranea la prudenza di un uomo la cui massima favorita era che "negli affari coloniali non bisogna dimenticar mai d'introdurre un 5 per cento di filantropia". Dopo di lui, il governo inglese soppresse anche quel 5 per cento, e Milner e Kitchener, per strappare la capitolazione di Veereniging a un popolo libero che si batteva da due anni e che aveva ucciso loro 20 mila soldati, inventarono i campi di concentramento, forma di ricatto inedita, destinata a disarmare gli uomini facendo la guerra alle donne.
E si rinunziò anche ai processi. L'occupazione dell'Egitto ne promosse uno solo, ma fu un processo contro gli Egiziani: quello di Denshawai, finito con l'impiccagione di quattro dei loro e con la fustigazione e i lavori forzati a vita di molti altri, pe aver dato una legnata in testa a un ufficiale britannico che , cacciando il piccione in compagnia di commilitoni, aveva appiccato il fuoco a un campo e ferito una contadina. Gli scrupoli inglesi non brillarono mai tanto per la loro assenza come sulle rive del Nilo, dove in tre quarti di secolo la borghesia capitalista della City riempì i propri forzieri anche più comodamente che non nei campi minerari dell'Africa australe, estorcendo al "fellah" famelico interessi usurari per un debito pubblico destinato ad alimentare soprattutto l'industria del Regno Unito e tenuto vivo da un fondo di ammortamento che invece di servire ad estinguerlo serve a coprire spese sempre nuove, mentre distribuiva ai propri membri non meno di 20 milioni di sterline l'anno di utili sulle imprese locali e dividendi del 70 e dell'80 per cento sulle azioni del Canale di Suez. Milioni, miliardi intrisi, beninteso, anche questi di sangue: dal massacro di Alessandria del 1882 al "lunedì rosso" del 1921; dalle atrocità che alla fine dell'Ottocento valsero al sullodato Kitchener, altro semidio effigiato dai più illustri pennelli del secolo, alla vigilia di partire pel Transvaal, la qualifica di "macellaio" per aver fatto, fra l'altro, dissotterrare, decapitare e gettar nel Nilo la salma del Madhi, il Gandhi sudanese, e ordinata la strage dei suoi seguaci feriti e fuggiaschi, agli eccidi antiwafdisti che nel 1919 costarono la vita a più d'un migliaio di partigiani di Zaghlul; dal bombardamento di Alessandria, eseguito tre mesi dopo la firma del protocollo di Costantinopoli, mentre a Londra il "puro" Gladstone dichiarava che "una occupazione britannica dell'Egitto sarebbe stata contraria ai propositi del governo di S. M. nonché in contrasto con gli impegni presi verso l'Europa", alle repressioni di Kartum ordinate nel 1924 da un altro puro: il laburista Mac Donald.
Sangue e oro, oro e sangue: è questa tutta la storia imperiale inglese dei due ultimi secoli. "Dappertutto voi esigete l'oro - verseggiava il vecchio Cowper - e per darvi quest'oro che solo vi sazia, i deboli soccombono mentre il conquistatore si aderge sul metallo insanguinato" ("The Task"). Ma era scritto che sul nuovo trono di Davide il genio del male terrebbe compagnia all'erede di Salomone. Nel 1840 si fa la guerra alla Cina per impedirle di chiudere le proprie frontiere all'oppio delle Indie che ne avvelena le popolazioni; nel 1920, quando la Cina è diventata essa medesima produttrice della droga funesta, si ottiene dalla Lega delle nazioni, in omaggio alla morale e all'igiene, il divieto della coltivazione del papavero su territori della Repubblica, affinché l'oppio delle Indie, che Ginevra finge d'ignorare, possa invadere silenziosamente una seconda volta il mercato cinese per la via di Hong-Kong a prezzi di monopolio. Nel 1888 si occupa l'Africa Orientale sotto il pretesto di sopprimervi la schiavitù; ma in pari tempo si espropriano gli indigeni e vi si crea un enorme proletariato agricolo per procurare alle imprese britanniche la manodopera più o meno gratuita che fa loro gola, proletariato che là dove la terra è più cara, come a Mombasa e a Nairobi, si rinserra in agglomerazioni malsane e si abbandona al flagello di malattie ieri ignote, dalla tubercolosi alla sifilide, votandolo a una mortalità spaventosa. E intanto lo scudiscio sibila sulle schiene nude e gli aguzzini danno la caccia ai lavoratori fuggiaschi, di cui talora le punizioni spietate provocano anch'esse la morte, come nelle piantagioni delle Antille al tempo della tratta. Torna in mente un altro passo  cowperiano, l'apostrofe all'Inghilterra dell'"Expostulation" "Non hai tu forse, benché allevata col late della libertà, introdotta la schiavitù nel conquistato Oriente, "exorted slavery to three conquer'd East?".
Senonché, se fosse vera schiavitù il caso sarebbe forse men grave. Quando si tratta di schiavi, cioè di capitale, il padrone ha infatti sempre, come riconosce un'inchiesta del "Research Department" laburista, un certo ritegno a lasciarli soccombere. Ma si tratta di proletari, cioè di gente di nessuno: e che importa la loro sorte alla ditta che li impiega?
Non so se le rievocazioni che precedono possano insegnare ancora qualcosa a qualcuno. Per confondere Albione, a noi del 1943 le testimonianze dei suoi storici, dei suoi prosatori e dei suoi poeti non occorrono più. Chiunque può misurare la moralità d'un popolo che in pieno secolo XX si serve dell'assassinio quale arma politica come in pieno Rinascimento e sacrifica alla ragion di Stato, con un semplice cenno ai propri sicari, ora un Feisal, ora un Ghazi, ora un Sabri pascià, ora un Chiappe, un Razza, un Darlan, un Sikorski. La capacità a delinquere del britanno filantropo e moralista dovrebbe ormai aver aperto gli occhi anche a chi non abbia etto quel terribile squarcio di Bernard Shaw: "Non v'è nulla di turpe che un inglese non possa fare, ma non troverai mai un inglese disposto a riconoscersi in fallo. L'inglese uccide, spadroneggia e riduce in schiavitù sempre e solo per considerazioni e doveri morali, ma questo non gli impedirà mai di distruggere ferocemente qualunque popolo si ritenga, in omaggio alle stesse considerazioni e agli stessi doveri morali, autorizzato a resistere alla sua prepotenza e alla sua ingiustizia" ("The man of destiny", pag. 247). Abbiamo visto gli Inglesi in guerra, abbiamo contemplato le rovine fumanti e avvelenate di Napoli e di Palermo, di Colonia, di Amburgo, di Berlino, insolute tenute di caccia offerte alle ebbrezze sportive dei due cugini atlantici, e cominciamo finalmente a renderci conto della veridicità delle accuse che nel 1915, quando le trovavamo nei documenti ufficiali tedeschi, giudicavamo iperboliche e calunniose. Abbiamo letti i rapporti compilati nel 1942 dal nostro Ministero della Cultura Popolare intorno agli scempi cui dettero luogo la prima occupazione della Cirenaica e sappiamo quanto poco abbiamo pesato l'onore e l'umanità britannici a Barce, a Bengasi, a Derna, a Bardia e nei villaggi del Gebel. Centinaia di testimonianze irrefragabili ci hanno istruito degli orrori dei campi di concentramento inglesi in Etiopia, e particolarmente  a Dire Daua, dopo la fine della resistenza italiana. Ricordiamo gli attacchi aerei le cento volte deliberatamente sferrati sulle nostre installazioni sanitarie, sui nostri treni e sulle nostre navi-ospedale e non ignoriamo i casi di ferocia individuale del genere di quello del bersagliere prigioniero ucciso in acqua a colpi di remo da un soldato inglese dopo il siluramento del "Laconia", né quelli di ferocia collettiva di cui furono esempio le truppe di Wavell quando, davanti a Gondar, mandarono frotte ignare di schiave etiopiche a far brillare, saltando in aria, le mine che prima di loro un branco di pecore non era riuscito a toglier di mezzo. Ci sarebbe da scrivere in proposito un volume apposta, forse una biblioteca, e probabilmente nessuno, ahimé, li scriverà mai. Ma a edificarci sui metodi di guerra degli Inglesi basti, almeno, un'occhiata al "Manuale pel combattimento a corpo a corpo" del capitano W. E. Fairbairn, capo dell'"Army Special Training Centre", dove si incita il soldato a tornare "alla ferocia dell'età della pietra", gli si insegna il modo migliore per sfondare le costole dell'avversario (pag. 65) o rompergli la spina dorsale (pag. 67), lo si esorta all'impiego del coltello, raccomandandogli le ferite all'addome come "di effetto psicologico meritevole di segnalazione speciale" e spiegandogli per filo e per segno come deve fare a sgozzare il nemico: "Afferragli la testa per di dietro con la sinistra e piantagli il coltello in gola più profondo che puoi fino a tagliar la carotide" (pag. 98), e lo si ammaestra a mettere alla ragione i prigionieri "stendendoli al suolo e saltando loro sul ventre a piedi e ginocchi congiunti in modo che l'orlo dei tacchi ferrati, con l'aiuto del peso del corpo, affondi bene nelle carni…".
Età della pietra o non piuttosto cuore di pietra?».

Leggendo oggi, nel terzo millennio, queste pagine, si potrebbe essere tentati di liquidarle con un'alzata di spalle e di catalogarle, per poi non pensarci più, entro la cornice di quel particolare aspetto del ruralismo fascista che è stato l'antiamericanismo (come lo ha definito lo storico Domenico Settembrini) e la sua variante dell'anglofobia. Che cosa possono dirci, infatti, quelle pagine, documentate sì, ma anche intrise di una passione politica che oggi ci appare doppiamente lontana: perché il mondo è totalmente cambiato e perché quella passione politica ci sembra, con il senno del poi, al servizio di una causa sbagliata e perduta?
Senonché, forse il mondo non è poi tanto cambiato come si vuol far credere, se è vero che i cinque vincitori della seconda guerra mondiale siedono ancora, loro soli, nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in qualità di membri permanenti; se essi solo si arrogano il diritto di mantenere degli arsenali nucleari; se in essi soltanto il nazionalismo non è visto come una ideologia pericolosa, ma anzi, esaltato come un altissimo valore morale (basti pensare al quotidiano alzabandiera delle scuole americane).
Quanto alla Gran Bretagna, si direbbe proprio che quel passato, con il quale essa non ha mai fatto i conti - perché, appunto, uscita vincitrice dalla seconda guerra mondiale, e seduta dalla parte giusta del tribunale di Norimberga, ossia quella dei giudici - non si decida a passare.
Chi non ricorda l'inutile spargimento di sangue della guerra per le Falkland/Malvine del 1982, l'affondamento della vecchissima nave da guerra argentina «Belgrano», che navigava molto al di fuori dell'area di interdizione; e, cosa più ripugnante di tutte, lo sconcio spettacolo dell'opinione pubblica esaltata come ai tempi di Nelson e di Trafalgar; le ragazze che si denudavano il seno per rallegrare i soldati in partenza sulle navi; la madre del primo caduto (non in battaglia, ma in un incidente, presso l'isola di Ascensione) che si disse fiera di aver dato la vita di suo figlio per la vittoria della sua patria?
E chi non ricorda il ruolo decisivo che la Gran Bretagna ha avuto nel sostenere e, forse, nell'istigare gli Stati Uniti a imbarcarsi nella più vergognosa di tutte le guerre moderne, quella aggressione all'Iraq del 2003 che, nata da una colossale menzogna (le famigerate «armi di distruzione di massa» che non esistevano affatto), ha provocato un numero incalcolabile di vittime, specialmente civili, e ha regalato al mondo intero una rinnovata stagione di terrorismo e di instabilità, sopprimendo al tempo stesso le garanzie costituzionali minime di una democrazia che voglia continuare a considerarsi tale, come si è visto a Guantanamo?
Si dirà che sia Margareth Thathcher, sia Tony Blair (si noti: una conservatrice e un laburista) non rappresentano la Gran Bretagna di oggi e tanto meno il popolo inglese, ma che appartengono ormai alla storia.
Può darsi: ma non è una storia trascorsa da molto. La guerra del Golfo è incominciata solo cinque anni fa (e non è ancora finita, a dispetto delle sistematiche bugie dell'informazione controllata dalle agenzie di stampa anglo-americane); e Tony Blair ha lasciato la guida del governo solo da poco tempo.
E che dire della condizione in cui sono costretti a vivere i cattolici dell'Ulster, in casa loro, dopo cinque secoli di dominio coloniale britannico, oppressi da una popolazione protestante immigrata dall'Inghilterra e dalla Scozia e diretta discendente di quei feroci conquistatori?

Ci è sembrato, pertanto, che fossero meritevoli di una rilettura alcune pagine di Concetto Pettinato  sulla natura dell'Impero britannico - eretto, come egli giustamente ricorda, sul genocidio di intere popolazioni, come i Tasmaniani - e sull'indole stessa del popolo inglese; concetto che, culturalmente e sociologicamente, non è affatto così antiquato come si crede: non, almeno, fino a che la cinematografia inglese continuerà a sfornare film sulla seconda guerra mondiale in cui i Tedeschi e sono presentati secondo lo schema fisso del cattivo-nazista-meritevole di essere ucciso senza rimorsi.
Certo, oggi le nuove generazioni hanno superato - almeno in apparenza - certi retaggi del passato; viaggiano in tutto il mondo, si frequentano, scambiamo idee e modi di vivere (se non pure il solo modo di vivere che oggi sembra trovare spazio: quello americaneggiante). Ed è bello che i giovani non serbino rancori né pregiudizi, che si considerano tutti membri di un'unica famiglia europea - e, magari, mondiale.
Tuttavia, crediamo che il solo modo per realizzare una pacificazione fra i popoli passi attraverso la conoscenza del passato, non attraverso la sua rimozione o la sua ignoranza.
Troppo a lungo ci è stato ripetuto il ritornello dell'Inglese colto, pacifico, generoso, democratico e sempre pronto a battersi per una nobile causa (l'indipendenza del Belgio nel 1914, quella della Polonia nel 1939).
Forse è arrivato il momento di dire che le due guerre mondiali - e, con esse, il suicidio dell'Europa - sono state provocate, in larga misura, dalla smisurata cupidigia britannica che, dopo avere invaso e soggiogato un quarto delle terre emerse, spremendone ricchezze favolose e obbligandone gli abitanti ad acquistare a caro prezzo le merci inglesi - non tollerava rivali nel ruolo di piovra dell'economia mondiale.
E che la guerra che essi condussero, al fianco degli Stati Uniti d'America e dell'Unione Sovietica, e per la quale pretendono ancora eterna riconoscenza dai popoli di tutto il mondo, non è stata una guerra per liberare l'Europa, ma per conquistarla, dividerla, umiliarla e ridurla alla completa impotenza; e perché la City di Londra potesse continuare a fare il bello e il cattivo tempo, insieme a Wall Strett, nella finanza mondiale.
Forse, i nostri caduti di El Alamein non sono stati soltanto - come la Vulgata democratica ripete da sessant'anni - gli eroi sfortunati di una guerra sbagliata, voluta da un regime irresponsabile; ma i legittimi continuatori di Custoza, Solferino, Lissa, Caporetto e Vittorio Veneto: gli eredi, cioè, della nostra tradizione risorgimentale.
E allora, se fu sbagliata la guerra di El Alamein, bisogna avere il coraggio e l'onestà intellettuali di riconoscere che furono sbagliate anche le guerre del Risorgimento.
Ma l'alternativa, qual era? Che la Gran Bretagna continuasse a spadroneggiare nel Mediterraneo,  come via di transito verso il suo impero delle Indie? Che centinaia di milioni di esseri umani continuassero a vivere in miseria, dall'Egitto alla Birmania e a Singapore, perché le signore londinesi potessero sfoggiare il loro inesauribile guardaroba di pellicce, o perché i lord e i magnati dell'industria e della finanza britanniche potessero continuare a godersi in santa pace le ricchezze succhiate con mostruosa voracità e conservate con durezza implacabile?
Ecco: non per odio, ma per una più obiettiva conoscenza del passato, forse le pagine di Concetto Pettinato sugli Inglesi - pur così datate, per taluni aspetti - sono ancora meritevoli di una lettura.
Del resto, una semplice osservazione conclusiva.
Il criminale di guerra Winston Churchill, il freddo pianificatore della distruzione di Dresda a guerra ormai quasi finita, ha ricevuto niente di meno che il Premio Nobel per la letteratura, in grazia della sua tendenziosissima e insopportabilmente compiaciuta storia della seconda guerra mondiale (oltretutto, commissionata ad altri e da lui solo rivista e firmata): e milioni di lettori, in tutto il mondo, l'hanno letta e ne hanno condiviso idealmente il punto di vista.
Perché noi Italiani non dovremmo leggere ancora libri come quello di Concetto Pettinato, se non altro per comprendere il punto di vista di quei nostri connazionali i quali, a torto o a ragione ("right or wrong", per dirla all'inglese) credettero nella guerra contro le plutocrazie occidentali e non si rallegrarono troppo di essere da loro "liberati", ricordando fin troppo bene l'antico vizio italico di chiamare in casa gli stranieri per liberarsi del proprio avversario politico?