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Pensieri svolti sulla riva del mare sotto un vento gagliardo di fine d'anno

di Francesco Lamendola - 29/12/2008


 

A una amica che compie gli anni.

Strano spettacolo la spiaggia in riva al mare, nel cuore dell'inverno, con la sabbia accumulata da un vento gelido e incessante a ricoprire la passeggiata che, nei mesi estivi, risuona di mille voci allegre e si anima di mille macchie di colori vivaci.
Adesso le onde rotolano sotto il pontile incollerite, irte di spuma come le creste di draghi favolosi, mentre il rumore della risacca è duro e rabbiosoo e le raffiche di vento giungono dal largo, taglienti, con una forza tale che toglie il fiato e penetra fino alle ossa.
Il cielo è percorso da nuvoloni bianchi e grigi che si spostano a velocità fantastica e un sole che non riscalda fa capolino tra essi, illuminando con una luce cruda, elettrica, lo spettacolo grandioso dei cavalloni che si succedono avanti e si frangono con violenza sulla riva, come gli squadroni di un'armata di cavalleria che si scagliano all'assalto l'uno dopo l'altro, con furia fredda e metodica, senza mai rallentare o flettere il proprio slancio guerresco.
Queste giornate di fine d'anno, le più corte di tutte, con la campagna raggrinzita nella morsa della neve e del ghiaccio e l'aria limpida che pare sul punto di incrinarsi come una lastra di cristallo che abbia ricevuto un colpo, unite al grande silenzio sovrastato dal rombo del mare mosso e allo spettacolo della spiaggia deserta, inducono alla riflessione.

È tempo di bilanci, di introspezione.
È tempo di domandarsi se si sta spendendo bene la propria vita, se si stanno facendo le scelte giuste; quanto ci si stia avvicinando a se stessi.
Il fatto è che, per avvicinarsi al centro di se stessi, bisogna allontanarsene con la massima decisione: questo è il mistero, questo è il paradosso.
Bisogna perdersi per potersi ritrovare: solo così si riacquista la giusta prospettiva. Altrimenti c'è il pericolo di non vedere nulla, pur avendo ogni cosa proprio davanti agli occhi.
La grande scoperta è, appunto, che noi non abbiamo un centro: che ogni istante della nostra vita è il centro, ogni pensiero, ogni emozione. Non vi è un centro, ma una rete a maglie fittissime; e ogni nodo di questa rete è prezioso, unico, insostituibile; e la rete acquista una forma, un disegno, un significato, solo se viene colta con uno sguardo d'insieme.
Non solo: la nostra rete non è isolata; non può essere valutata in sé e per sé, come se esistesse per conto proprio. Al contrario: essa ci mostra la propria fisionomia solo ed esclusivamente allorché si esprime nel rapporto con tutte le altre reti - tutte, anche quelle apparentemente più lontane: perché ogni vita, ogni pensiero, ogni ente, non sono che il punto d'intersezione reciproca di innumerevoli vite, pensieri ed enti.
La stella più lontana interagisce con l'umile fiore che, a sera, chiude i propri petali e si ripiega sullo stelo, nella dolce quiete della valle; nulla e nessuno è isolato, nulla e nessuno esiste unicamente per conto proprio. Non siamo delle note intermittenti, ma parti di un'unica, immensa armonia cosmica: e l'armonia nasce dall'accordo di tante note individuali.
E ciò vale anche per quelli che noi chiamiamo gli aspetti negativi dell'esistenza: la delusione, la solitudine, il dolore, la separazione.
Essi ci appaiono in una luce negativa solo finché li consideriamo isolatamente dal contesto dell'armonia cosmica; ma, se li inquadriamo all'interno di essa, ecco che si trasformano.
Diventano tappe della nostra evoluzione: momenti di un unico, complesso rito di passaggio, simile a quelli che venivano praticati dalle popolazioni native.
Sì: la vita, il fatto di esserci, corrisponde automaticamente a un grande rito di passaggio: il passaggio dall'Essere all'esistente e, dall'esistente, di nuovo all'Essere, secondo il simbolo antichissimo della spirale doppia - destrorsa e sinistrorsa - che troviamo inciso e raffigurato in migliaia e migliaia di pietre, di manufatti, di tatuaggi.
Noi dobbiamo percorrere due volte il grande rito del passaggio: non è vero che veniamo da nulla e torniamo nel nulla; questa è una doppia menzogna: veniamo dall'Essere e aspiriamo a tornare nell'Essere.
Come il viandante sospira il ritorno nella propria dimora; come il viandante assetato, accaldato, smarrito nella pianura interminabile, agogna le fresche acque dei monti e anela al verde dei pascoli e dei boschi: così noi perseguiamo il nostro reintegro nell'Essere, fin dal momento in cui siamo entrati nella sfera del finito e del contingente.
Fin dal momento della nostra entrata nel mondo, aneliamo a ritrovare l'Assoluto; ne portiamo la nostalgia in cuore, come il marinaio che si avventura in paesi remoti porta sigillato nel cuore il dolce ricordo della sua casa.

Talvolta ci sembra di aver placato la nostra sete e di aver saziato la nostra nostalgia; ma non è che una breve illusione, dopo la quale la fatica del nostro vagabondare sembra farsi più opprimente e la delusione per la meta mancata ci morde con forza più aspra.
E, su tutto, il fantasma del nulla ci sovrasta e ci atterrisce, con l'ineluttabilità della morte.
Ma è proprio vero che la morte avrà l'ultima parola? Che noi nasciamo soltanto per morire; e che la nostra vita è solo una corsa cieca verso l'annientamento?
Un grandissimo spirito incarnato, quello di Sri Aurobindo, non lo credeva affatto: e nel suo grandioso poema «Savitri» ha bene espresso, attraverso la lotta della sposa Savitri per strappare al Signore della Morte il suo diletto sposo, Satyavan, questo concetto. Figlia del Sole, Savitri, che discende nelle fauci della morte per restituire all'anima, con la vita immortale, la coscienza di se stessa e della verità dell'Essere impressa nelle sue profondità, è una metafora bellissima e commovente della Parola divina.
Citiamo alcuni versi del grande poema, là dove Savitri si rivolge al Signore della Morte per dichiarargli che ella vuole redimere da lui non solo l'amatissimo sposo Satyavan, ma ogni essere vivente (da: Tommaso Iorco, «Savitri, l'epopea della vittoria sulla morte», Edizioni Sarva, 1995, pp. 123-124):

«L'anima è una figura del Non-manifesto,
la mente lavora per pensare l'impensabile,
la vita per chiamare l'immortale nella nascita,
il corpo per ospitare l'Illimitabile.
Il mondo non è tagliato fuori dalla Verità.
Invano hai scavato l'oscuro invalicabile golfo,
invano hai costruito il cieco muro senza porte:
l'anima dell'uomo ti scavalca,
il sole del cielo costringe le tue vie attraverso la notte;
la sua luce è visibile sulle sommità del nostro essere.
La mia mente è una torcia accesa dall'eterno sole,
la mia vita un respiro insufflato dall'Ospite immortale,
il mio corpo caduco è la dimora dell'Eterno.
Non sono schiava del pensiero, dei sensi o delle forme;;
io vivo nella gloria dell'Infinito,
sono vicina al Senza-Nome Inconoscibile,
l'Ineffabile è il mio intimo amico.
Ma sul margine luminoso dell'Eternità
Ho scoperto che il mondo è Lui;
l'ho inseguito nella sua forma terrestre.
Una solitaria libertà non può soddisfare
un cuore che è diventato uno con ogni cuore:
io sono la deputata del mondo che aspira,
la libertà del mio spirito la chiedo per tutti.»

Tali sono la nostra nostalgia, la nostra aspirazione; tale la promessa che ci è stata fatta nell'atto stesso con il quale siamo stati chiamati alla vita nel regno del Manifestato.
L'essere umano, unico fra tutti i viventi, possiede la facoltà di smarrirsi, di perdersi; di obliare le ragioni che l'hanno chiamato all'esistenza. Avviluppato nelle reti dell'ignoranza e della follia, smette di cercarsi; e, così facendo, perde il contatto con la parte più vera di se stesso: quella che conferisce un senso a tutto il resto.
Così, ridotto a vagare a tentoni senza sapere dove né perché, senza neppure ricordare chi egli sia e perché si muova nel mondo, egli si lascia fuorviare da mille riflessi ingannevoli della propria immagine, si lascia turbare da mille inquietudini e sopraffare da mille fantasmi.
A quel punto, egli non è più che la triste controfigura di se stesso: senza più splendore, né speranza, né coraggio; senza dignità e senza fierezza; senza più alcun sentimento del legame che lo unisce agli altri enti e della comune appartenenza nei confronti dell'Essere. Preda di infiniti richiami ingannevoli, non è che un albero sradicato, che la piena del fiume afferrerà nel suo vortice impetuoso per poi trascinarlo a valle, chissà dove.

Gli esseri umani disancorati, privati del senso del proprio mistero e sballottati lontano dai propri centri esistenziali, sono paragonabili a questo paesaggio invernale, stretto nella gelida morsa della neve e del ghiaccio.
Simili al bosco ricamato di bianco, ai rami candidi per la neve ghiacciata che li avviluppa come una trina crudele, sono le persone che hanno smesso di cercarsi, di ascoltarsi, di dirigersi verso la verità del proprio destino. Sono divenuti spettrali fantasmi intirizziti, di un pallore cadaverico che appartiene a un altrove pauroso: al Signore della Morte.
Quanti esseri umani sono già morti in questa vita, senza neppure essersene accorti? Quanti si sono irrigiditi nel biancore sinistro di un'esistenza pietrificata, disanimata, totalmente svuotata di calore e di bellezza?
Quanti hanno lasciato che si allentassero e si sciogliessero i nodi della propria rete vitale; quanti hanno permesso a quest'ultima di separarsi da tutte le altre reti, insieme alle quali soltanto si può parlare di un tutto armonico e vivente?
Perché un essere umano, per dirsi pienamente vivo, deve conservare sempre, anche in mezzo alle peggiori tempeste e ai passaggi più difficili, il ricordo della propria origine e la tensione verso la propria meta: senza di essi, egli è perduto.
Ecco, allora, che tornare a noi stessi significa volgere le spalle a quel futile narcisismo che ci inganna, trascinandoci all'inseguimento di false immagini di noi; per riscoprire tutta la bellezza, tutta la serietà e tutta la vertigine del gettarci oltre il nostro piccolo io, proprio allo scopo di poterci ritrovare.
Non ci si può ritrovare, se non si ha il coraggio di morire alla parte effimera di sé stessi.
Basta guardare al mondo della natura.
Questo bosco gelido, intirizzito, stretto nella morsa della neve ghiacciata, tornerà a rivivere in primavera: e sarà di nuovo una esplosione trionfale di colori, di suoni, di profumi.
Anche questo mare livido, rabbioso, frustato dai gelidi venti del Nord, tornerà a brillare nella calda luce estiva e si tingerà di porpora nei tramonti infuocati.
Tutto ritorna a vivere, se ha il coraggio di morire a se stesso, al proprio infantile attaccamento. Tutto ritorna a vivere, se accetta sino in fondo la propria verità, il proprio scopo, l'ardente nostalgia dell'Essere.