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Eluana, ultimo atto

di Francesco Lamendola - 08/02/2009

Si ha ritegno a parlare di Eluana, ora che tutti ne parlano e gridano il suo nome, sovente impugnandolo come una bandiera o addirittura come un'arma da brandire contro gli avversari della propria ideologia.
Si ha ritegno, anche perché solo quanti sono coinvolti da vicino in una vicenda del genere possono sapere cosa significhi, in realtà, doversi confrontare con il mistero della malattia, della solitudine, della perdita di speranza.
Pure, la piega che hanno preso gli avvenimenti ci induce a rompere quel riserbo e a dire una parola in merito; con tutto il rispetto per il dramma dei parenti, e anche con il bagaglio di esperienza di chi si è trovato a vivere una situazione analoga.
Non staremo tanto a girarci intorno e diremo subito, con tono sommesso ma anche chiaro e inequivocabile, che non comprendiamo, né mai potremo comprendere l'atteggiamento di quella famiglia; perché, per quanto tragica e straziante sia la situazione che essa sta vivendo, dovrebbe bastare anche il solo legittimo sospetto che Eluana non sia morta diciassette anni fa, come alcuni dicono, ma che sia ancora viva, sia pure in uno stato di coma vegetativo, per inibire qualunque tentazione di sospenderne l'alimentazione e l'idratazione artificiale.
Bisogna essere molto chiari su questo.
I casi sono due: o la vita è nostra, oppure non lo è.
Se è nostra, allora essa ha un valore fino a tanto che preservi e garantisca alcune condizioni minime di benessere o, quanto meno, di coscienza; venute meno quelle condizioni, staccare la spina è un atto perfettamente logico, se non addirittura doveroso.
Al contrario, se la vita non è nostra, allora noi non abbiamo il diritto di lasciarla andare, così come non abbiamo il potere di darcela da noi stessi. In questa prospettiva, la vita non ha un valore, ma è un valore: un valore altissimo, in sé e per sé.
Non il valore supremo: infatti, essa può essere legittimamente sacrificata in vista di un valore ancora più grande, quale - ad esempio - la difesa della vita di altri esseri umani. Masimiliano Kolbe, che spontaneamente dà la sua vita per salvare quella di un altro prigioniero, padre di famiglia, ne è un esempio.
La vita, pertanto, nella prospettiva spiritualistica, non è il valore supremo, ma è pur sempre un valore in se stessa: ed è tale in virtù del mistero da cui discende, e che a noi non è dato penetrare sino in fondo.
Noi non conosciamo le ragioni ultime del nostro vivere: possiamo ricercarle e perfino intravederle; ma il progetto complessivo in cui essa s'inscrive, rimane per noi sostanzialmente misterioso; così come misteriosa è la presenza del male, della sofferenza, della stessa morte.
Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo («Di chi è la mia vita?», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice); vogliamo qui ricordare il punto centrale della nostra riflessione di allora.
Il problema che qui discutiamo è il valore da attribuirsi alla vita umana quando essa sia stata gravemente menomata, fisicamente o anche psichicamente, ad esempio in seguito a un grave incidente o a una malattia degenerativa. Senza pretendere di possedere il segreto miracoloso di individuare la giusta strategia negli svariati casi concreti che si possono presentare, ci sentiamo però di enunciare una indicazione di massima: che il valore intrinseco della vita non si può misurare in base a criteri oggettivi di qualità della stessa.
Infatti, la qualità della vita dipende in larga misura da parametri soggettivi: per qualcuno essa può essere elevata pur in presenza di gravi menomazioni e di sofferenze continue, se però sia illuminata da una determinata fede (non necessariamente di tipo trascendente); mentre può essere percepita come inadeguata da altri che, secondo le apparenze, non avrebbero motivo di lamentarsi troppo. Cade perciò la pretesa di sostenere che una vita perde la sua dignità e diventa un dis-valore in base a una misurazione oggettivistica della sua qualità.
Ancora più spinoso è il problema che si pone allorché ci si trova davanti a una vita che abbia perduto il bene dell'autocoscienza, una vita ridotta al puro stato vegetativo. Come la si deve considerare; quali strategie mediche si devono adottare; quale è il suo vero bene, a giudizio dei medici e dei parenti: prolungarsi o finire?
Si tratta di un mistero abissale, di quelli - direbbe Dante - che fanno tremar le vene e i polsi. Anche qui, non pretendiamo certo di avere la formula magica per rispondere sempre e comunque; possediamo però un orientamento di massima: nessun accanimento  terapeutico, quando l'evidenza mostra che la vita non è e non sarà mai più in grado di svolgersi autonomamente sul piano biologico e quando non vi sia alcuna speranza di ritorno alla coscienza; ma, al tempo stesso, nessuna somministrazione volontaria della morte.
In ogni caso, la rinuncia all'accanimento terapeutico non potrà mai sconfinare nella  pratica intenzionale della morte; si tratta di due cose ben diverse.
Le ragioni per adottare un atteggiamento di estrema cautela, di pensoso rispetto e di riconoscimento di un limite alla nostra capacità di comprendere e di agire, comunque, non derivano solo dalla soggettività della percezione della qualità della vita, di cui abbiamo già detto; ma anche dal fatto che, se la vita di ciascuno è strettamente correlata a una rete di relazioni universale, ne consegue che il suo valore non può essere misurato solo osservandola come un fenomeno del corpo. La «nostra» vita, proprio perché non è nostra, non si riduce alle funzioni del nostro organismo e neanche a quelle del nostro sistema nervoso centrale.
Essa è una parola rivolta a tutti gli altri esseri e, pertanto, quel che ha da dire trascende l'ambito circoscritto del suo corpo, del suo letto d'ospedale, della sua situazione biografica e contingente. In altre parole, essa ha, sempre e comunque, una portata universale che significa qualcosa per tutti gli altri esseri viventi, umani e non umani.
Per esempio, se ammettiamo che l'amore sia un valore superiore alla vita stessa, non si dovrebbe pensare all'eutanasia come gesto di amore verso una vita mutilata e sofferente; forse, in realtà, non si tratta tanto di amore, quanto di pietà; ma quella vita, pur così mutilata e sofferente, forse ci sta dicendo qualcosa, e quel qualcosa è amore. Amore che ci sfida, che c'interroga, che ci provoca, che ci sconvolge: il mistero dell'amore che segue strade tutte sue per giungere alla nostra coscienza e che non parla il linguaggio auto-evidente della salute, del benessere, della felicità.
Si dirà che, in ogni caso, la decisione se conservare una vita gravemente e irrimediabilmente compromessa sfugge alla decisione del diretto interessato e che la «sua» vita, a quel punto, è chiaramente nelle mani di altri. Il punto essenziale, però, non è questo.
Il punto essenziale è che se la nostra vita è un discorso, chi siamo noi per pensare che tale discorso non interesserà più nessuno e diverrà privo di significato, qualora un incidente o una grave malattia dovessero ridurre quel discorso a un soffio o, magari, ad un rantolo?
Tutto è grazia, diceva Bernanos. Anche un soffio, anche un rantolo solo un discorso carico di significato, per chi lo sa ascoltare. Anche attraverso di essi parlano i valori supremi, e si servono del valore della vita - sia pure mutilata - per comunicare qualcosa a qualcuno.

Ribadiamo il concetto: questo non è un valore negoziabile. La posta in gioco non è un principio astratto, ma una realtà concreta: il diritto alla vita e alla morte degli esseri umani. Si può mediare su tutto, ma non su questo.
Perciò, il vero problema non è quello di sapere se davvero Eluana abbia espresso quella volontà, prima di subire l'incidente che l'ha portata in coma (per quanto sia anche questa una questione non certo irrilevante: chi potrà garantire, in futuro, che i parenti interpretino veramente le volontà del congiunto in coma?); ma di stabilire se un essere umano può decidere di non vivere più, mediante un intervento medico.
Si dirà che l'intervento era proprio quello che teneva in vita Eluana e tanti altri come lei. È vero, ma come è vero che milioni e milioni di persone possono continuare a vivere grazie ai farmaci che assumono, pur non trovandosi in condizioni paragonabili a quella di Eluana. La verità, dunque, è che la medicina in quanto tale è «artificiale» (tranne, appunto, la medicina naturale), e che non si può stabilire un confine netto tra i vari gradi di questa artificialità.
Certo, l'accanimento terapeutico è sbagliato, perché pretende di prolungare una vita in modo del tutto artificiale. Non è il caso di Eluana: ella non assume farmaci, viene solo alimentata. Le sue funzioni vitali sono integre, mestruazioni comprese. Staccare la spina è una forma esplicita di eutanasia, checché se ne dica: bisogna chiamare le cose con il loro nome.
L'eutanasia è l'espressione della mentalità laicista, radicale, materialista, secondo la quale la vita è soltanto nostra, e possiamo farne quel che vogliamo. Dietro il dramma di Eluana e della sua famiglia c'è la longa manus dei radicali, il cui scopo dichiarato è quello di sovvertire completamente i fondamenti morali della società attuale, per sostituirli con dei nuovi.
Essi agiscono sempre così: agitano davanti all'opinione pubblica un caso umano particolarmente pietoso, per far passare - a titolo di eccezione - una nuova legislazione che poi, invece, diventa la porta d'ingresso di una quantità impressionante di casi ben diversi, sempre più lontani dalle circostanze iniziali.
Fecero così anche per la legge sull'aborto. Lo presentarono come il male minore rispetto a dei singoli casi particolarmente toccanti; poi, la nuova legge spalancò le porte a una nuova modalità di contraccezione: l'uccisione del feto per via chirurgica e legale.
Così, quella che doveva essere una legislazione d'eccezione, volta a tutelare i più deboli e i più sfortunati, è divenuta una pratica largamente diffusa, che la coscienza collettiva ha accettato al punto che rimetterla in discussione parrebbe un intollerabile rigurgito reazionario. E così avverrà con l'eutanasia: diverrà una pratica talmente «normale» che riaprire il dibattito sulla sua liceità verrà percepito come un attentato alla sacrosanta libertà di morire in pace e senza dolore.
Libertà, libertà: ecco la parola magica, lo specchietto per le allodole, cinicamente strumentalizzato da gruppi di pressione potenti, e dei quali a noi è dato vedere solo una minima parte. Ma che cosa c'è dietro di essi? Dobbiamo pensare a una regia occulta, a un consapevole disegno complessivo per strappare l'anima della nostra società, estirpando i valori etici fondamentali?
Ma lasciamo stare la politica, anche se ora fanno tutti a gara per cavalcare la tigre delle passioni viscerali e per assicurarsi il pieno di voti per la prossima campagna elettorale; e torniamo alla sostanza del problema, che è squisitamente morale.
Le suore di Lecco avevano chiesto, avevano supplicato di poter continuare a tenere presso di sé Eluana: la sua famiglia non sarebbe rimasta sola a dover gestire quella difficilissima situazione. Il suo rifiuto di una tale proposta appare difficile da comprendere.
La cultura giuridica e morale dell'Europa, a differenza di quella degli Stati Uniti, non pone al primo posto il fattore economico (muori, se non puoi pagarti le cure), ma la persona: e dovrebbe essere un legittimo motivo di vanto da parte del Vecchio Continente. Nessun medico aveva fretta di staccare la spina; è stata la famiglia a chiederlo, percorrendo tutti i gradi della giustizia, fino alla sentenza della Corte d'appello di Milano e della Corte di Cassazione.
La verità è che la medicina sa molte meno cose di quello che comunemente si pensa, e i medici migliori e più intellettualmente onesti sono quelli che ne convengono con franchezza.
La medicina non sa quale sia il preciso confine tra la vita e la morte: nemmeno dopo diciassette anni di osservazione. Alcuni dicono che la morte sopraggiunge quando il cuore smette di funzionare; altri, quando cessa la respirazione; altri ancora, quando l'elettroencefalogramma diventa piatto. La realtà è che non lo sanno; e tanto meno lo può decidere una scienza puramente materialistica, la quale nel fenomeno vita non vede null'altro che un complesso di organi al lavoro, di vene ed arterie che pompano il sangue, di fenomeni metabolici, di impulsi elettrici del cervello.
Noi, però, siamo qualcosa di più della somma dei nostri organi, qualche cosa di più del nostro corpo. C'è un mistero, in noi e intorno a noi, di cui la vita è una straordinaria manifestazione. Davanti a un tale mistero, dovremmo imparare a parlare a bassa voce e a camminare in punta di piedi.
Il mistero è, per definizione, qualcosa di più grande di noi.
Dunque, noi non abbiamo il diritto di staccare la spina, perché colui che è più piccolo non può arrogarsi il potere di decidere il destino di ciò che lo sovrasta.
È un mistero che, talvolta, ci sconvolge e ci fruga sino al fondo all'anima, per vedere fino a che punto siamo capaci di farci piccoli e accoglienti: cioè fino a che punto siamo capaci di amare.
Amore è accoglienza, apertura, condivisione e compassione; non può essere rifiuto od  allontanamento, e sia pure per una forma di pietà.
Chi siamo noi per giudicare il mistero della vita e della morte, se non riusciamo neppure a penetrare il mistero del mondo intorno a noi?
È stato detto che, se delle creature aliene molto più evolute di noi stessero interagendo, in questo preciso momento, con la Terra, noi non ce ne accorgeremmo più di quanto uno sciame di formiche si accorgerebbe del ragazzo che, per gioco, ha rovesciato la pietra sotto la quale aveva costruito il proprio formicaio; né riconoscerebbe il piede dell'intruso che ha fatto rotolare quel sasso: tanto piccolo è l'essere umano.
Oppure si pensi a un uccello che drizza le ali verso il cielo: gli basterà salire di poche centinaia di metri per non udire più alcun suono della presenza umana sulla terra: uno dopo l'altro tacerebbero tutti i rumori, da quello delle voci, a quello delle automobili, a quello delle fabbriche; non sentirebbe più nulla: tanto flebile è l'essere umano.
È come se il mistero della vita e della morte fossero scritti in giganteschi caratteri davanti a noi; ma noi non riusciremmo mai a comprendere quel messaggio, perché non saremmo in grado nemmeno di vedere le lettere che lo compongono.
Dunque, prudenza; prudenza e tanta umiltà.
È meglio eccedere in cautela, che correre un rischio: il rischio di lasciar andare una vita umana, senza nemmeno essere stati capaci di udire la parola ch'essa ci sta rivolgendo.