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Le radici non gelano. Il conflitto fra Tradizione e Modernità in Tolkien

di Stefano Giuliano - Antonio dall'Igna - 11/01/2010

Fonte: clubghost

 

Davvero una pregevole opera Le radici non gelano di Stefano Giuliano uscita per i tipi di Ripostes. L'Autore è laureato in Filosofia e in Lettere, collabora presso la cattedra di "Storia delle religioni" dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli ed è dottorando di ricerca in "Filosofie, religioni e teorie di salvezza" presso lo stesso Istituto. In questo dotto saggio ha analizzato con grande competenza l'opera principale di J.R.R. Tolkien, The Lord of the Rings. Rimanendo fedele alla natura della propria ricerca e all'intera produzione tolkieniana, Giuliano ha studiato i riferimenti mitici che costituiscono il sostrato della maggiore opera dello scrittore inglese. Ponendo poi particolare attenzione all'analisi dei personaggi viene svelata la loro funzione nell'economia della vicenda e, dunque, nell'intero cosmo de Il Signore degli Anelli - un universo di chiara matrice indoeuropea. Il libro di Giuliano può inoltre esser letto anche da chi non conosce l'opera di Tolkien: viene infatti proposta un'analisi della vicenda che segue, passo dopo passo, la via di Frodo e compagni. Diremmo quasi che Le radici non gelano riesce a esser cardine fra il Lord e il vasto corpus mitologico da cui quest'ultimo - se pur in modo originale - attinge. Sospingendo il fortunato lettore e verso l'uno e verso l'altro.

Che cosa L'ha spinta ad affrontare uno studio sull'opera di Tolkien, troppo spesso considerata narrativa "di genere" e non - come dovrebbe essere - un capolavoro letterario?

In Italia, Tolkien – i cui libri, va detto, sono stati tradotti in italiano con notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei – non è quasi mai stato studiato seriamente sotto il profilo critico-letterario. Prima del gran battage pubblicitario provocato dal film, i testi a lui dedicati si contavano sulle dita di una mano: due volumetti di introduzione (a cura: l’uno, della Palusci, l’altro della Lodigiani), uno studio – alquanto carente – della Noel sulla mitologia di Tolkien, un volume collettaneo curato da de Turris, un breve testo (con qualche spunto interessante) di Paggi, mentre gli studi sulla letteratura inglese, per lo più, lo trascuravano o lo menzionavano appena. Il fatto che i protagonisti delle sue storie fossero Elfi e Hobbit e che l’ambientazione fosse dichiaratamente di tipo medievale spingeva a giudizi negativi una critica piuttosto prevenuta. L’opera di Tolkien era sommariamente liquidata come letteratura d’evasione per adulti immaturi.

A causa di una serie di pregiudizi, nel nostro Paese non ci si è quasi mai avvicinati ai testi di Tolkien con la dovuta attenzione per valutarne, obiettivamente, le qualità stilistiche e per capire, con serietà, i motivi ultimi di un successo così esteso. Ho ritenuto, nel mio piccolo, di poter in qualche modo contribuire a sviluppare un interesse criticamente più attento verso un autore troppo a lungo, e ingiustamente, bistrattato. Tolkien, al contrario, dovrebbe essere annoverato tra i grandi del Novecento.

Grande attenzione in questo periodo su Il Signore degli Anelli, a causa della sua riduzione cinematografica. Che cosa pensa Lei di tale operazione, sebbene sia stato possibile confrontarsi con il solo primo capitolo della trilogia?

Come Lei stesso ha anticipato, per il momento è stato possibile confrontarsi solo con la prima parte della saga e occorrerebbe attendere anche le altre due parti per potersi esprimere compiutamente e dare così un giudizio complessivo sull’intera operazione. Tuttavia mi è parso che, nell’insieme, il film sia abbastanza valido sia nell’aderenza al libro (il sacrificio di Tom Bombadil e di alcuni passaggi come le tappe nella Old Forest e nei Tumulilande, tutto sommato, non inficia la validità della trasposizione) sia, ma con qualche distinguo, nella scelta degli attori: eccezionali Christopher Lee/Saruman, Ian McKellan/Gandalf e Ian Holm/Bilbo; abbastanza bravi gli altri, mentre ho trovato un po’ deludenti Cate Blanchett/Galadriel, Elijah Wood/Frodo e Sean Austin/Sam, e molto poco persuasivi gli attori che hanno impersonato Merry e Pipino.

Resta da vedere se, nel prosieguo della trilogia, il regista sarà riuscito a rendere l’idea di perfezionamento interiore e di maturazione sottesa alle esperienze dei protagonisti del libro o se si è limitato a girare un piacevole film d’avventura. Comunque, credo che nessun film sia mai riuscito – nella storia del cinema – a rendere il fascino di un testo letterario. C’è una differenza essenziale tra cinema e letteratura. Se si legge, la mente può viaggiare come preferisce e costruirsi gli scenari più diversi, da quelli più cupi a scintillanti immagini di luce. La parola scritta è uno stimolo che rinvia a un oltre. L’immagine, invece, vuol dare o dire tutto, o quasi tutto. E la suggestione, l’incanto di certe reveries si perde inevitabilmente. Chiunque abbia letto un libro si accosta a un film con una propria immagine della storia, quasi con un pregiudizio, e nessun regista – per quanto bravo – potrà soddisfare l’attesa. (Ma la colpa è dello spettatore, che attende ciò che non può essergli dato !)

Punto cardine del Suo studio è il tema del viaggio nell'Aldilà. Esso è fortemente presente nell'opera di Tolkien e rivela un percorso iniziatico a cui sono sottoposti i vari personaggi. Può introdurci brevemente alla Sua riflessione?

Il viaggio di Frodo verso la terra di Sauron presenta i tratti tipici del viaggio nell’Aldilà. Mordor, difatti, possiede le caratteristiche della sede oltremondana: terra arida e desolata perennemente avvolta da nere nubi, è un luogo di sofferenza ed alienazione, dove sorgono tetre fortezze, abitata da esseri demoniaci come Sauron, i Nazgûl, gli Orchi, ecc. Inoltre – e mi pare un elemento di estremo interesse – anche le tappe più importanti del viaggio dei vari personaggi, si rivelano itinerari oltremondani. A guardare da vicino, gli episodi di Tumulilande e di Moria sono catabasi peculiari delle saghe germano-scandinave; le fermate nelle terre elfiche di Gran Burrone e Lothlórien sono proprie dei viaggi della tradizione celtica nell’Altro Mondo; e altrettanto può dirsi di vari episodi che attingono a miti e rituali iniziatici. Infine, l’ultimo viaggio compiuto verso la terra degli Immortali, è anch’esso un viaggio nell’Altro Mondo, sul tipo dei viaggi transmarini delle narrazioni irlandesi. E quest’ultimo viaggio – non descritto, ma solo accennato – è forse il più bello, come una sinfonia che si spegne in un progressivo attenuarsi del suono.

Il ripetersi di tante immagini legate all’oltretomba non è certo casuale. In questo senso il topos della discesa agli inferi col suo fondamentale corollario di morte e rinascita assume valore e si carica di significato. Nello specifico, il viaggio di Frodo si pone come viaggio d’iniziazione ascetica, quello di Sam come viaggio d’iniziazione ascetico-guerriera, quelli di Merry e Pipino come iniziazione guerriera (l’uno entra al servizio di Rohan, l’altro di Gondor), infine, quelli di Aragorn e Gandalf, rispettivamente, come iniziazione regale e iniziazione sacrale. L’iniziazione è il concetto fondamentale, e l’Aldilà è da intendersi come via per ottenere l’iniziazione. In questo senso, il viaggio verso le profondità è mirato al ritorno: al ritorno alla luce del sole, alla vita quotidiana, alla necessità di un impegno per la comunità di cui si fa parte.

Lei scrive pure che Mordor non è solo la terra dei morti del mito e del folklore.

Sì. Mordor si delinea anche come un’efficace e suggestiva rappresentazione della modernità vista nei suoi aspetti più deleteri: contaminazione ambientale, sfruttamento delle risorse, degradazione delle coscienze, controllo poliziesco delle libertà altrui (bella e forte l’immagine dell’Occhio di Sauron che tutto scruta dall’alto della propria inaccessibile torre, un’immagine che riecheggia il celebre Panopticon di Jeremy Bentham), ecc. Tutti elementi che fanno del Signore degli Anelli un romanzo di grande valore e sempre attuale. Nel fatto che Mordor sia anche una raffigurazione della società contemporanea è l’assoluta grandezza di Tolkien. Narrando avventure, ha costruito miti, e costruendo miti ci ha dato una lucidissima analisi del nostro tempo, e dei suoi pericoli, dei suoi orrori, di ciò che ci attende, e che stiamo sperimentando.

Figura centrale della vicenda è quella di Frodo. Lei lo ha definito un eroe moderno, in quanto presenta i tratti dell'eroe mitico, ma ha allo stesso tempo una forte connotazione attualizzante: è attraversato da moti di coscienza, vive con profonda sofferenza la propria missione (che comunque ha coraggiosamente accettato come suo ineluttabile destino), ha dubbi e incertezze, e infine forse fallisce… Probabilmente le persone più sensibili dell'oggi non fanno fatica a identificarsi con questo personaggio, avvertendo anch'esse un fardello che grava sulla loro anima…

Rispetto a tutti gli altri protagonisti del libro, i quali restano nei limiti delle maschere che impersonano (Aragorn è l’eroe, Sam il fedele servitore, Gandalf il sapiente, Sauron il malvagio, ecc.), Frodo delinea una personalità complessa ed una profondità psicologica che lo allontanano dai personaggi peculiari dei romanzi epici, piuttosto unidimensionali e fedeli a loro stessi, e lo avvicinano piuttosto a quelli della letteratura moderna, multidimensionali e contraddittori. Egli, in effetti, non possiede alcuna dote soprannaturale, e le sue virtù sono circoscritte nell’ambito dell’umano: integrità morale, generosità, lealtà, spirito di sopportazione, e così via. Inoltre, è continuamente lacerato da dubbi e incertezze, e sembra che sia  sempre sul punto di crollare. Non si sente all’altezza del compito che il destino gli ha riservato e in cuor suo avverte, inconfessabile, il desiderio di tenere l’Anello per sé. Il suo stesso fallimento finale s’inscrive perfettamente in quest’ottica.

Malgrado ciò, Frodo ha un proprio profilo eroico, che sta nella sua capacità di perseveranza, nell’abnegazione con cui, a dispetto delle avversità e sofferenze, porta avanti la propria missione. In questa prospettiva, la sua figura è emblematica della condizione dell’uomo d’oggi, diviso tra le ambigue seduzioni offerte dalla modernità e tuttavia ancora legato ad antichi valori. Frodo è un eroe fragile, che nonostante la propria fragilità interiore, e anche fisica, sa perseverare. Che cosa si può chiedere di più a un uomo del nostro tempo? Frodo è uno di noi. Chiunque, direi, può essere Frodo.

È un tema sul quale sarebbe bene riflettere.

Il Signore degli Anelli è stato anche interpretato come allegoria di eventi tragici che hanno attraversato il XX secolo. Spesso lo si è considerato una critica al potere di stampo totalitario. Premesso che un'analisi chiara presupporrebbe una profonda riflessione sul totalitarismo e sulle diverse forme che esso ha assunto, può brevemente svolgere qualche considerazione alla luce del Suo studio?

Un certo tipo di critica ha creduto di leggere nel Signore degli Anelli alcuni chiari riferimenti ad eventi del Novecento. Sauron è stato interpretato come una raffigurazione di Hitler o di Stalin, Saruman ha fatto pensare a Mussolini, l’Anello, a sua volta, è sembrato un’immagine del potere atomico, e così via. Tolkien ha sempre rifiutato, e con irritazione, questi accostamenti ritenendoli forzature. Basta leggere le sue lettere oppure l’introduzione che egli scrisse per l’edizione del Lord in un unico volume. Certamente c’è una critica del potere tirannico, ed è evidente, ma non può essere ricondotta a specifici casi storici. Un’operazione di questo tipo, impoverisce, immotivatamente, la stessa originalità dell’ispirazione tolkieniana.

Tolkien prende di mira tutte le forme di aberrazione del potere, o, per meglio dire, la capacità ammaliatrice esercitata sull’uomo dal potere e che conducono alla corruzione morale – fatto cui non sfuggono certo neppure le liberaldemocrazie. In particolare, nel libro è piuttosto visibile una duplice concezione del potere perfettamente incarnata dalle figure di Sauron e Aragorn. Mentre il primo rappresenta una forma di potere dispotico, che si fonda sulla sopraffazione e sulla violenza, l’altro esprime un potere benefico, basato sull’armonia e sul diritto. Tolkien aspira a valorizzare questa seconda forma di potere, che non ha bisogno della forza per imporsi poiché la sua autorità s’impone da sé, immediatamente riconosciuta e fatta propria da tutti.

Non a caso, parallelo al viaggio di Frodo, si svolge, altrettanto importante, il viaggio di Aragorn il cui obiettivo è la restaurazione dell’autorità regale e della tradizione. Per Tolkien, insomma, non è negativo il potere di per sé, ma il suo utilizzo arbitrario, il suo abuso.

Si nota ne Il Signore degli Anelli la totale assenza di divinità. Sono i personaggi già essi stessi dei? Attori/autori di una vicenda che vuol avere i caratteri di modello intemporale e di riferimento trascendente tipici del Mito?

No, l’assenza di divinità nel Lord of the Rings non significa che i protagonisti ne assumano in qualche modo le vesti o le funzioni ma s’iscrive nella prospettiva narrativa di Tolkien. Il dio creatore, Ilúvatar, una volta plasmata la Terra di Mezzo, esce di scena denotandosi come un tipico deus otiosus secondo la definizione degli studiosi di storia delle religioni. Gli dei, gli esseri superiori, chiamati Valar, sono protagonisti dei racconti riuniti nel Silmarillion. Peraltro, nel Signore degli Anelli, Gandalf, Saruman e Sauron non sono semplici creature soprannaturali come gli Elfi. Essi, in realtà, sono semidei. Ciò premesso, emerge un dato molto significativo. Pur nel moltiplicarsi delle figure mitiche o fantastiche, Il Signore degli Anelli è una storia umana, che si snoda in quella che Saint-Exupéry avrebbe definito “terra degli uomini”. È la storia di uomini, che cercano di opporsi alla forza del male, e tuttavia … restano semplici uomini.

Dunque, al di là del valore "mitologico" dell'opera, Il Signore degli Anelli sembra avere intenzioni prettamente "politiche", facendo leva sulle forme dell'etica e del potere. O forse, per meglio dire, queste forme sono già integrate in una funzione religiosa, ne sono la manifestazione più presente?

Tolkien sostenne sempre che la sua ispirazione scaturiva unicamente dal suo lavoro di filologo e dal piacere personale che ricavava dall’inventare storie rielaborando i miti del passato, e che non aveva alcuna intenzione di carattere politico. D’altro canto, egli solleva problematiche di grande attualità come il rapporto tra individuo e potere, il ruolo sempre più incisivo ricoperto dalla tecnica e dal progresso scientifico ed il loro impatto sociale ed ambientale, la perdita delle identità culturali, e così via. Tutti temi i cui riflessi sono necessariamente e decisamente “politici”. Inoltre, la stessa scelta di scrivere un romanzo fantastico si poneva in quel periodo come un rifiuto implicito, ma netto, di ogni forma di narrazione “realistica” (come i moderni romanzi sociologici, sperimentali, psicologici, ecc.), ossia di quelle forme che si erano affermate, fino a diventare dominanti, proprio nella prima metà del secolo XX. La scelta di Tolkien può essere interpretata come una scelta “politica” di rifiuto del mondo presente, e di quelle che egli riteneva esserne le brutture, le degenerazioni, le bassezze, per ricollegarsi ad un mondo proiettato in un passato indefinito, nel quale valori e ideali potevano ancora avere un senso.

La parte "luminosa" della Terra di Mezzo rivela i tratti propri delle società organiche tradizionali, che sono invisi alle moderne democrazie. Si può ravvisare nella trilogia di Tolkien anche una critica alla democrazia? In quali termini?

Tolkien non si riteneva un democratico e vagheggiava l’idea di una monarchia non costituzionale (si può leggere la lettera del novembre 1943 al figlio Christopher). Ciò non vuol dire che egli rifiutasse certi princìpi come la libertà e l’uguaglianza. Al contrario, ben consapevole della loro importanza, non tollerava che fossero strumentalizzati in vario modo e per fini ben precisi. La Contea, i reami elfici, Rohan, Gondor si offrono come l’esempio di comunità ideali di tipo tradizionale, nelle quali idealità e valori sono condivisi dall’intero gruppo sociale, consolidato dalla comune origine, dalle comuni aspirazioni, dal comune sentire. Quivi le differenze sono mantenute da una struttura di tipo gerarchico, per la quale chi è in cima alla piramide riassume in sé le virtù e gli ideali di tutto il popolo. Le relazioni verticali si fondano sulla lealtà, sul rispetto reciproco, e ogni componente della scala sociale si sente indispensabile. A questo tipo di struttura piramidale, peraltro, se ne contrappone una identica, ma di segno opposto: a Mordor e Isengard i sottoposti sono sfruttati, e costretti con la violenza ad obbedire. Di qui, a un certo momento, il crollo del potere di Sauron e di Saruman. Manca, nel loro potere, la forza della virtù, né c’è al vertice una superiorità spirituale. La superiorità spirituale è la sola forza che resiste a tutto, anche allo scorrere del tempo …

 Lei ha rilevato, al di là della caratterizzazione in senso pagano-germanico, la presenza di influenze cristiane all'interno dell'opera. Le può brevemente elencare?

Il primo e più importante riferimento in senso cristiano è sicuramente costituito dal tema della Caduta, tema la cui presenza fu più volte segnalata da Tolkien. Tale motivo implica la perdita di una condizione di felicità in forza di una colpa primigenia e, di conseguenza, l’impossibilità per l’uomo di resistere alla tentazione del male. Non a caso la Caduta è sia nel Silmarillion che nel Signore degli Anelli.

Un secondo riferimento è dato poi dall’idea del male come privazione di bene, come non essere, un’idea raffigurata nella mancanza di corporeità o nelle deformazioni fisiche delle creature negative (Sauron è ridotto ad un occhio, i Nazgûl sono privi di sostanza fisica, gli Orchi sono mostruosi come il Balrog, Shelob, ecc.). Per Tolkien, in linea con tutta una tradizione cristiana di origine neoplatonica, il male non è un principio a se stante, equiparabile al bene, ma si delinea solo come assenza, imperfezione, difetto. Si mostra del tutto infondata, quindi, la classica accusa rivolta a Tolkien di aver scritto un libro d’ispirazione dualistica o manichea, strutturato intorno a una radicale dicotomia tra bene e male. Ancora, nel Signore degli Anelli, particolare evidenza ha il valore della compassione (sentimento del tutto assente nei contesti pagani germanico e celtico). Pietà e compassione finanche per i propri nemici provano, infatti, le figure più elevate del libro come Gandalf e Frodo. C’è anche dolcezza, nel Signore degli Anelli …

Interessante è la rappresentazione del Male fornita nel libro. Non un principio dualisticamente opposto al Bene, ma Male=Caduta, privazione. Secondo Lei questo è un elemento di derivazione puramente cristiana o può rintracciarsi anche nella religiosità indoeuropea? Intendo, a esempio, come presenza di un principio unico, stabile nella sua purezza, ma dinamico quando dà luogo al divenire. Esistono forme simili nella spiritualità pagana?

Come ho accennato prima, la concezione del male come assenza di bene, e dunque la sua costituzionale inconsistenza, va fatta risalire a speculazioni cristiane di origine neoplatonica (da Clemente Alessandrino a Sant’Agostino, e così via fino a S. Tommaso). Per costoro, non essendo possibile attribuire a Dio, infinitamente buono, l’esistenza del male – ché altrimenti si giustificavano le teorie gnostiche e dualistiche –, si doveva concludere che esso propriamente non è. Il male, cioè, pur manifestandosi drammaticamente nel mondo, non gode di un’esistenza autonoma. Tale concezione è tipicamente cristiana e, in questi termini, trovare parallelismi presso altre forme di spiritualità richiederebbe un’accurata analisi. In un senso molto ampio, si possono rintracciare analogie nel pensiero di Plotino e di Proclo, gli ultimi grandi esponenti della filosofia pagana, autori verso i quali i Padri della Chiesa furono fortemente debitori.

 Nell'economia della vicenda la figura di Gollum rappresenta, come Lei ha colto, un personaggio dai connotati negativi, ma fondamentale per lo svolgimento e la conclusione della storia. Può essere considerato come male necessario, come figurazione di un nichilismo che l'uomo dell'oggi deve attraversare affinché si compia la sua presenza terrena?

Il personaggio di Gollum come, del resto, quello di Sam, non sempre è stato valutato secondo il peso che effettivamente ha nell’evolversi della vicenda. Gollum è lo specchio di Frodo, il suo alter ego, ossia ciò che l’Hobbit potrebbe diventare qualora tenesse per sé l’Anello. Se per alcuni aspetti, Frodo raffigura il doloroso confronto dell’uomo con la modernità, Gollum appare irrimediabilmente avviato su un cammino di corruzione e decadenza (Shippey ha proposto un paragone tra il morboso attaccamento di Gollum all’Anello e la tossicodipendenza). Val la pena di ricordare che la decisone, presa da Frodo, di risparmiargli la vita si rivela fondamentale per la salvezza dell’Hobbit. Gollum è il male da cui… può anche nascere il bene. Sul Monte Fato, solo grazie all’intervento “provvidenziale” – secondo la definizione dello stesso Tolkien – di Gollum (che ne è inconsapevole), l’Anello è distrutto, la missione compiuta, ed è annullata la potenza di Sauron. Vuol dire che secondo Tolkien il Male è destinato ad essere sempre sconfitto, perché per propria natura non può non esserlo? È un tema per una possibile – e lunga – conversazione, testi alla mano.

 Aleggia sulla conclusione de Il Signore degli Anelli una sorta di sottile ma percettibile tristezza. Un velo che riveste le ultime tappe del cammino di Frodo e il destino della Compagnia. Tra i motivi per la scelta di un tale finale (la partenza verso altre terre di quasi tutti i personaggi principali) quello che più mi affascina è la considerazione che il Mito deve necessariamente oscurarsi. Infatti il Mito, la Tradizione, l'Origine eccedono la Realtà. Può elencare brevemente i motivi per cui, secondo Lei, Tolkien ha deciso di allontanare i suoi personaggi dalla Terra di Mezzo?

Sorprendentemente, nonostante la sconfitta di Sauron e la restaurazione regale operata da Aragorn che inaugura un’epoca di pace e giustizia, Frodo, Gandalf, i sovrani elfici, e altri ancora, sebbene in tempi diversi, lasciano la Terra di Mezzo. In realtà, la vittoria su Mordor è stata solo provvisoria. Il male – come Gandalf spiega a Frodo all’inizio del libro – risorge sempre sotto nuove forme. È un finale ambiguo, forse pessimistico, da cui sembra trasparire la consapevolezza di Tolkien che un’età del mondo è ormai definitivamente tramontata e che non c’è più spazio per alcuni valori. Una nuova era sta ormai sorgendo: l’età degli uomini, ossia l’età della tecnologia applicata, dell’industrializzazione, del progresso scientifico, dello sviluppo economico e finanziario. È un mondo nel quale non può esservi posto per Elfi e Hobbit.

 Vuole aggiungere altro?

No, solo ringraziarLa a mia volta, per l’opportunità che ha voluto gentilmente offrirmi. E La saluto con l’augurio elfico: Elen sÍla lúmenn' omentielvo: Una stella brilla sull'ora del nostro incontro.

a cura di Antonio dall'Igna, intervista del settembre 2002

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