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Perché gli elefanti vegliano i loro compagni morti e perché seppelliscono i cadaveri?

di Francesco Lamendola - 26/01/2010

 

Da molto tempo correvano voci di cacciatori e, poi, di naturalisti e zoologi, relativi allo strano comportamento degli elefanti davanti all’evento della morte, particolarmente quella dei propri simili.
Dapprima sembravano leggende, come quelle relative ai “cimiteri degli elefanti”, ove i pachidermi, sentendosi prossimi alla fine, sarebbero andati a morire, proprio negli stessi luoghi dove la stessa cosa avevano fatto, in precedenza, i loro simili. Ma poi, osservazioni accurate da parte di testimoni attendibili confermarono la veridicità dei racconti relativi al comportamento degli elefanti davanti ai compagni morti, e anche davanti ai cadaveri di altri animali, uomo compreso.
Non solo fu accertato che gli elefanti si stringono intorno al compagno morente, sforzandosi in tutti i modi di sostenerlo affinché non cada, come se volessero prolungarne ad ogni costo la vita; ma si vide anche che il gruppo familiare, o comunque il branco, veglia il cadavere più o meno a lungo, e che alcuni animali se ne allontanano solo dopo molte ore, e con segni evidenti di rammarico e frustrazione. Si sono pure viste delle madri recare i propri piccoli morti sopra le zanne, e portarli con sé, a quel modo, anche per diversi giorni.
Non solo. In numerose circostanze si è riscontrato che gli elefanti (parliamo specialmente di quelli africani, cui si riferiscono le osservazioni che più sotto riportiamo) sembrano manifestare una vera e propria avversione per la mancata sepoltura dei cadaveri. Essi ricoprono questi ultimi con rami, strappandoli dagli alberi vicini, con erbe e frasche; e fanno ciò non solo con i membri della propria specie, ma anche con i cadaveri di altre specie.
Si è potuto constatare, con osservazioni dirette e inoppugnabili, che persino dopo aver ucciso degli esseri umani, gli elefanti si affrettano a ricoprirne il corpo con foglie e rami, né si allontanano prima di aver espletato questo rito apparentemente incomprensibile.
È difficile, a questo punto, evitare un confronto con il comportamento degli esseri umani, per i quali la sepoltura degli animali è un “optional” e perfino quella dei propri simili, specie se si tratta di nemici uccisi in battaglia, non è un obbligo morale né un istinto, ma un atto gratuito e non vincolante di generosità individuale. Si pensi all’ultimo, drammatico colloquio fra Ettore morente e il suo uccisore, il feroce Achille: al primo, il quale domanda che il suo corpo sia consegnato ai genitori per ricevere degne esequie, il secondo risponde che lo lascerà in pasto agli animali selvaggi, anzi, che vorrebbe cibarsi egli stesso delle sue carni, straziandole con i denti, per saziare la sua implacabile sete di vendetta.
Dunque, gli elefanti e la morte: un grande mistero. Certo è che il comportamento di quei mammiferi ci appare come “strano” soprattutto a causa di una deformazione mentale tipica dell’uomo moderno che, da Cartesio in poi, considera tutti gli altri viventi come semplice “res extensa” e, quindi, li ritiene assolutamente incapaci di provare emozioni e sentimenti paragonabili ai propri, compresa la sensazione del dolore morale.
Non importa che decine, centinaia e migliaia di osservazioni, su numerosissime specie animali e non solo sugli elefanti, abbiano fornito e continuino a fornire indizi inequivocabili del contrario; non basta neppure che vi siano dei casi di cani, ad esempio, che si lasciano morire di fame e di sete sulla tomba del padrone, per dissipare una buona volta questo assurdo pregiudizio. La scienza materialista e razionalista della modernità ha sentenziato una volta per tutte, quattro secoli fa, che gli animali sono solamente degli organismi viventi senz’anima, senza pensieri, senza sentimenti; e ciò sembra che basti.
Al massimo, alcuni etologi di mente più aperta sono disposti ad ammettere che, sì, alcune specie animali mostrano qualche cosa di simile ai sentimenti dell’amore, del dolore, della compassione; ma poi subito, quasi pentiti della propria stessa audacia, si affrettano a cercar di “spiegare” la cosa in termini di vantaggio che la selezione naturale può assicurare agli individui portatori di tali caratteristiche, considerate utili nella lotta per la vita.
Ma torniamo agli elefanti.
Hanno scritto Iain e Oria Douglas-Hamilton in un interessante libro, frutto non di speculazione da tavolino ma di anni di osservazione diretta, «Vita con gli elefanti» (titolo originale: «Among the Elephants», London, Collins & Harvill Pres, 1975; traduzione italiana di Mario Manzari, Milano, Longanesi & C., 1975, pp.215-216 e 221-223):

«….Harvey Croze e un amico fotografo furono testimoni della morte di una vecchia femmina in mezzo al suo nucleo familiare nel Serengeti. La sua agonia si protrasse per un pomeriggio in quella stupenda regione ondulata del nord […]. Harvey dapprima notò che essa si trascinava dietro il nucleo familiare; quando essa cadde tutti si ammassarono intorno a lei, mettendole le proboscidi in bocca, spingendola e cercando di sollevarla. Il più attivo era un maschio indipendente il quale si trovava per caso con le femmine e i piccoli, e a volle teneva lontani gli altri mentre egli, da solo, tentava di aiutare l’elefantessa morente. Essa morì in mezzo alla sua famiglia, e questa, dopo, le rimasse vicino per varie ore. Il maschio, frustrato per non essere riuscito a sollevarla, si abbandonò a un comportamento completamente fuori luogo. Montò la femmina morta come se stesse tentando di accoppiarsi, prima di allontanarsi ala fine insieme agli altri. Una femmina, presumibilmente legata alla bestia morta da unj vincolo tenace, rimase più a lungo degli altri, e si ritirò, con riluttanza, soltanto al cader della notte.
Bill Woodley, il sovrintendente del parco nazionale di Aberdares, nel Kenya, fu testimone di un attaccamento ancora più estremo a un animale morto: egli mi raccontò di aver osservato femmine e piccoli difendere il corpo di una giovane femmina per tre giorni dopo che essa era stata uccisa a fucilate; ancora più bizzarra è la descrizione, riportata da Rennie Bere nel suo libro “The African Elephant”, di una femmina la quale si rifiutò di abbandonare il cadavere in decomposizione del suo piccolo neonato, e se lo trascinò dietro per giorni tenendolo sulle zanne. Gli unici altri animali che ho sentito dire che fanno questo sono le femmine dei babbuini, le quali possono portarsi dietro un piccolo morto per oltre una settimana. […]
Il professor Grzimek ha riportato quattro resoconti di seconda mano di elefanti, sia maschi che femmine, che hanno ucciso degli esseri umani e in seguito li hanno ricoperti di rami e terra. La più interessante di queste descrizioni riguarda un maschio. Il fatto avvenne nel parco nazionale Albert dell’ex Congo Belga nel 1936. Un turista si avvicinò a piedi a questo elefante, con la sua macchina fotografica. Nonostante che un certo numero di dipendenti del parco nazionale gli avessero segnalato l’elefante come estremamente pericoloso, egli insistette nel tentativo di scattare alcune foto e il maschio lo caricò. Disgraziatamente l’uomo era zoppo e non fuggì via abbastanza rapidamente. Proprio mentre egli si voltava per scappare, l’incaricato del parco scattò l’ultima istantanea. Il turista fu ben presto raggiunto e l’elefante lo abbatté con un colpo di proboscide. Testimoni oculari sostengono che erra morto prima di toccare terra, ma per sincerarsene l’elefante si inginocchiò su di lui e gli trapassò il corpo infilandogli una zanna sotto la scapola. I sopravvissuti tornarono dopo che l’elefante se ne fu andato e trovarono che il corpo del turista era stato ricoperto di piante,.
Ebbi la fortuna di incontrare il vendicatore del turista, il professor L. van den Benghe, il quale poi raggiunse l’elefante e lo uccise. Scoprì che la causa del suo temperamento intrattabile era una ferita profondamente ulcerata, piena di pus, nella testa causata ovviamente da una pallottola.
Il comportamento della sepoltura non si limita ai cadaveri degli uomini. In una relazione del parco nazionale del Kenya si trova la descrizione della carcassa di un rinoceronte che, come testimoniavano le orme nelle vicinanze, era stata trascinata a una certa distanza dagli elefanti e quindi ricoperta di erba e rami.
Un altro osservatore attendibile George Schaller, osservò il comportamento della sepoltura nell’elefante indiano e la descrisse in “The Deer and the Tiger”. Schaller aveva legato un bufalo a un albero, come esca per le tigri. Una tigre femmina lo uccise e rimasse ad aspettare mentre i suoi cuccioli mangiavano. Ben presto dal sottobosco sbucò un elefante. I cuccioli fuggirono e allora l’elefante strappò dei rami e ricoprì i resti del bufalo.
La veridicità dei acconti di elefanti che hanno seppellito i loro simili resta dimostrata. Myles Turner una volta si guadagnava da vivere facendo da guida a gruppi di cacciatori. Durante un safari un cliente sparò a un grosso elefante maschio che faceva parte di un branco di circa sei. I sopravvissuti immediatamente circondarono l’animale morto e rimasero su di lui. Myles disse al suo cliente che gli elefanti si sarebbero dispersi dopo alcune ore; nel frattempo loro potevano ritirarsi un po’ e consumare il pranzo. Quando tornarono qualche ora dopo un maschio si trovava ancora accanto alla carcassa. I cacciatori riuscirono a impaurirlo e a metterlo in fuga. Allora avanzarono fino ala bestia morta e con loro sorpresa scoprirono che gli altri elefanti gli avevano tappato con del fango la larga ferita alla testa e avevano ammassato sul corpo terra e foglie.
Un fatto simile, questa volta da parte di femmine e piccoli, fu osserva da Irven Buss, uno dei primi scienziati che si dedicò alo studio del’ecologia degli elefanti. In Uganda, si erra proposto di immobilizzare un elefante e fissargli addosso una trasmittente. Sebbene non riuscisse al suo scopo, ebbe però l’occasione di osservare alcuni eventi singolari. Il primo animale a cu sparò la capsula era una femmina e le propinò una dose eccessiva. Gli altri componenti del gruppo serrarono le file formando una falange difensiva, col risultato che egli non riuscì a somministrare alcun antidoto e di lì a poco la femmina morì. La matefamilias condusse via il gruppo, ma poi ritornò per ricoprire la femmina morta di rami e erba.
Da ultimo devo includere in questa rassegna l’esperienza dell’etologo Wolfdietrich Kühme che compì alcune osservazioni su tre elefanti in cattività nello zoo di Kronenburg in Germania. Il maschio, quando diventava aggressivo, era solito scagliar paglia e oggetti al di là della ringhiera che lo rinchiudeva. Una volta Kühme  si stese per terra appena fori della sua portata, dall’altra parte della ringhiera. Il maschio allora gli gettò della paglia finché non ne fu quasi completamente ricoperto.
Nonostante la natura frammentaria e casuale delle prove, è chiaro che gli elefanti spesso mostrano un interesse più che passeggero per le carcasse decomposte di membri della loro specie, anche quando ben poco è rimasto tranne lì’odore. Si può soltanto meditare sul significato di sopravvivenza presente in uno qualsiasi di questi casi di comportamento straordinario. È possibile che l’esplorazione del’olfatto possa fornire delle informazioni sul modo in cui l’animale è morto che potrebbero probabilmente essere preziose, ma allo stato attuale ciò deve restare una congettura.»

Sono fatti notevoli, che non possono non lasciarci pensosi e mettere in crisi le nostre pigre e presuntuose certezze. Forse ci siamo abituati a pensare un po’ troppo, da Cartesio in poi, a noi stessi come alla sola specie pensante e capace di emozioni e sentimenti.
C’è un famoso quadro di Nicholas Poussin, «Et in Arcadia Ego» - il quale ha dato luogo ad interminabili discussioni esegetiche - che rappresenta alcuni pastori greci nell’atto di interrogarsi davanti a un sepolcro, simbolo di una umanità ignara che s’imbatte per la prima volta nel grande mistero della morte.
Ebbene, i fatti sopra riportati possono metterci una salutare pulce nell’orecchio circa il fatto che gli esseri umani non siano i soli a provare sgomento e ad interrogarsi in profondità sul significato dello spegnersi della vita e della sconvolgente trasformazione di un essere vitale, con il quale esistevano vincoli di affetto, in un corpo inerte che non risponde più alle sollecitazioni e rimane ostinatamente muto ad ogni richiamo. Quel tentativo, da parte degli altri membri del branco, di sostenere e sollevare il corpo dell’elefantessa morente è commovente e, al tempo stesso, altamente significativo. E ancora di più lo è il comportamento, solo in apparenza assurdo, di quel maschio che, pieno di frustrazione e di angoscia, si comporta come se volesse accoppiarsi con quel grande corpo ormai privo della scintilla vitale.
Si ha l’impressione che anche per gli animai la morte di un compagno sia un evento traumatico che li interroga a fondo e che essi, istintivamente, tendono a rifiutare: come se un qualche barlume di consapevolezza dicesse anche a loro, come a noi, di non essere stati fatti per la morte, ma per la vita; e che la vita, non la morte, è il destino ultimo di ogni essere.
Queste speculazioni possono apparire arrischiate, ma chi ha vissuto a lungo con un fedele e affezionato animale domestico sa bene, con un grado di certezza che non deriva da letture o da ragionamenti, che vi è in esse un fondo di verità indubitabile.
Quanto, poi, all’istinto degli elefanti di dare sepoltura ai cadaveri, anche di animali d’altra specie (e l’uomo, per essi, è semplicemente un animale d’altra specie), questo è un fatto che suggerisce speculazioni ancora più audaci. Si direbbe che, nell’intelligenza e nella sensibilità degli elefanti, vi sia una sorta di rispetto per la maestà della morte, anche della mote del “nemico” ucciso (ma per gli elefanti, animali erbivori e privi di nemici naturali a causa della loro possanza, è difficile immaginare che possiedano la categoria del “nemico”: se un elefante carica un essere umano, ad esempio, è sempre per una ragione specifica e contingente). È come se, per essi, apparisse intollerabile l’idea di lasciare il corpo di un mammifero esposto al banchetto degli sciacalli, delle iene e degli uccelli da preda.
A noi sembra strano, forse perché siamo imbevuti di pregiudizi antropocentrici; ma le testimonianze relative a quella fenomenologia sono indiscutibili. L’unica cosa che si può discutere è, ovviamente, il modo in cui interpretarle; ma è certo che alla nostra possibilità di comprendere non giova il preconcetto che solo ed esclusivamente l’uomo sia suscettibile di reazioni emotive complesse e articolate di fronte al mistero della morte.
Chi ha studiato, ad esempio, l’intelligenza dei delfini, come l’etologo John C. Lilly (ne abbiamo parlato in un precedente articolo), sa che questi mammiferi marini possiedono una mente duttile e acuta, capace di operazioni decisamente complesse; e che il loro comportamento, specie verso l’uomo, va decisamente oltre ciò che, sbrigativamente, si suole chiamare “istinto”, per coinvolgere la sfera dei sentimenti e dei pensieri.
Chi siamo noi per dire che certi comportamenti sono solo il risultato di reazioni inscritte nel codice genetico degli animali, cui essi si abbandonano in modo del tutto meccanico e inconsapevole? Molti indizi sembrano attestare il contrario: che, cioè, fra noi ed essi vi sia una differenza quantitativa, più che qualitativa, a livello spirituale. Siamo proprio sicuri che gli animali siano privi di anima e di spiritualità?
Proseguendo lungo questa strada e sviluppando tale linea di ragionamento, non tarderemo a porci delle domane analoghe anche per le creature vegetali, per l’acqua, per lo stesso mondo che - giudicandolo da un punto di vista puramente esteriore - si usa definire “inorganico”, stelle e pianeti compresi.
Siamo proprio certi che un albero non sappia di esistere e che non provi gioia per il tepore del sole primaverile, dolore per la mutilazione di un ramo? Siamo proprio sicuri che un lago sia indifferente al fatto che nelle sue limpide acque venga gettato il cadavere di un animale o di un essere umano; o che un ruscello di montagna non goda della forza giovanile e della libera avventura che lo spinge a grandi balzi giù, verso la valle?
Potremmo continuare, ma preferiamo fermarci qui.
Non vogliamo fare della facile poesia, quanto piuttosto sollevare interrogativi che chiedono delle risposte.
Forse non siamo così soli, nell’Universo, come finora ci  è sembrato di essere.
Forse, prima ancora di occuparci di eventuali contatti con civiltà aliene (cosa, di per sé, niente affatto inutile o peregrina), dovremmo imparare a guardare con più attenzione, e con occhio più equanime e sereno, i nostri fratelli minori, gli animali, e le creature tutte che condividono con noi la presenza su questo piccolo, meraviglioso pianeta chiamato Terra.