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Rivoluzione conservatrice e musica folk

di Luca Leonello Rimbotti - 01/02/2010


 

Che la modernità progressista abbia ucciso l’alta cultura è un fatto assodato: in Europa, e nel mondo occidentale in genere, da decenni non esiste più uno straccio di poeta, romanziere, filosofo, musicista, artista, che sia degno di stare al pari della media dei secoli passati. Non diciamo il genio, ma neppure il talento si aggira più dalle nostre parti. È il mondo delle “veline”, bellezza. È l’ignoranza democratica al potere. Sono i fasti del liberalismo trionfante, cafone e incolto: che altro pretendevate? Chi vuole frammenti di cultura deve andare a cercarseli da altre parti. Nel passato. Dappertuto in Europa, defilata ma solida, esiste una contro-cultura che rilavora il passato e lo rende attuale. È il mondo della musica folk. Non sono in molti ad accorgersene. Si tratta di un fenomeno all’opera da un pezzo, ma sempre sottotraccia, sempre messo all’angolo dalla visibilità mediatica del pop da cassetta. A un certo punto, nei decenni del lungo dopoguerra, il procedere distruttivo del progressismo mise davanti al naso di molti l’evidenza che le antiche tradizioni popolari se ne stavano andando alla svelta, che la metropoli industriale soffocava la campagna e che insomma l’identità dei popoli veniva sgretolata anno dopo anno. Sorsero così molti spengleriani in ritardo di parecchi decenni, ma va bene lo stesso.

Nell’universo musicale si sono create col tempo solide nicchie di resistenza. La musica popolare, riscoperta dai primi pionieri e poi messa al centro di interi comparti creativi, ha finito col costituire un ridotto culturale al riparo dalla distruttiva macchina modernista. Dove il moderno vuole omologazione, livellamento, melting-pot, il tradizionalismo musicale ha opposto e oppone differenza di culture nazionali, unicità di tradizioni etniche simili ma diverse, orgoglio dell’appartenenza ad antichi comunitarismi. E a volte questi sforzi sono stati anche premiati da un buon successo. Basta pensare alla musica bretone, rilanciata sin dagli anni Sessanta da Alain Stivell. Il menestrello, lo stornellatore, gli arcaici cantari, si sono così rianimati, in qualche modo ridando voce a quello straordinario bacino di valori che ancora oggi – nonostante tutto – è la provincia europea. Là dove il sole nero della globalizzazione e dell’aggressione alle identità dei popoli batte di meno.

In quest’opera di riscoperta della tradizione musicale nazionale, la Gran Bretagna è stata ed è all’avanguardia. Bisogna dirlo. Sarà perchè, lassù dove il cristianesimo arrivò tardi e male, certe forme di sapere tradizionale e di Sehnsucht pagana sono sopravvissute meglio che da noi; sarà perchè le isole britanniche sono per l’appunto isole, ben protette da certi miasmi giacobini: fatto sta che il folk da quelle parti è cultura diffusa, non è operazione artefatta o solo commerciale, rappresenta proprio un modo d’essere: rivendicato con orgoglio. La moderna musica britannica ha spesso attinto ai patrimoni di tradizione popolare e non di rado è stata anche premiata dal successo di massa: per dire, quanti bei ritagli di musica celtica si trovano in gruppi rock anche di grande notorietà, come ad esempio i Jethro Tull?

Ma il cuore della faccenda è più interno. Un libro strano e originalissimo ci guida dentro le pieghe di una voglia nuova di tradizione, di cui l’Europa ha bisogno come il pane: niente vecchiumi cadaverici, intendiamoci, nessun nostalgismo di nuovo conio…la tradizione è essenzialmente un presente attinto dal passato, ma in eterno rinnovamento. Il libro Fairest Isle, l’epopea dell’electric folk britannico, appena pubblicato dalle Edizioni Aereostella di Milano, è scritto da Antonello Cresti, giovane musicologo e musicista, uno dei pochi guru nostrani dell’underground e convinto missionario della Britmania in Italia. Dunque è nella controfaccia del giovanilismo disimpegnato e superficiale, che si trovano le orme dell’unica rivoluzione a quanto pare ancora possibile: conservare ad ogni costo il costume, il gesto, le abitudini di comunità periferiche, ancora fuori dalla presa del bestione cosmopolita. Qui fermenta una rivolta di “classe”, ma nel senso di stile. Si va in cerca della qualità, della buona musica, del bel verso, e li si trovano dove regna ancora sovrano il retaggio degli arcaismi: il paesaggio della provincia, delle campagne, l’immutabile inquadratura del villaggio, della costa intoccata, delle solitudini incontaminate. «Benvenuti dove la rivoluzione sposa la tradizione», recita l’invito a leggere il libro: musica per le nostre orecchie. C’è dunque una tendenza britannica, l’electric folk, che adora la terra degli avi come Hölderlin adorava la sua Heimat. Leggiamo, allora: «far risorgere una nuova Inghilterra attraverso l’utilizzo di ambientazioni sonore apparentemente inattuali e conservatrici. Gli scrittori e i pensatori che operarono nella Germania tra le due guerre e che definirono il loro movimento Rivoluzione Conservatrice non potevano immaginare che avrebbero avuto simili, inconsapevoli e temerari figli…». Vediamoli dunque, questi eredi di Jünger e di Moeller. Il loro padre spirituale è stato Ewan MacColl, un bizzarrro marxista morto nel 1989 che, come Herder e i fratelli Grimm, si mise a collezionare vecchie ballate e antiche sonorità delle isole britanniche, dando il via al folk revival. In Inghilterra tutto è davvero diverso: persino il marxismo – nel paese che ha sempre ignorato Marx, pur avendolo in casa – diventa nazionalpopolare. La musica così rigenerata si volge con naturalezza in arma anche politica: «l’antico patrimonio musicale delle isole britanniche, da strumento di esaltazione di uno sfocato nazionalismo diveniva cioè il mezzo di rivalsa verso il capitalismo e la tecnocrazia». Averne avuti anche noi, di simili “marxisti”…se si pensa all’utilizzo mediocremente  classista della nostra musica popolare attuato – verso gli anni Settanta – dai tanti folksinger de noantri in fila alle “feste dell’Unità” dei bei tempi…quelli che bastava mescolare i canti delle mondine a Bella ciao, e il gioco era fatto…

Il folk british, diciamolo, è un’altra cosa. Persino la sinistra british è un’altra cosa. Sulla scorta di MacColl – marxista sì, ma fiero difensore dell’identità nazionale e nemico di ogni infiltrazione del sound americano – ha aperto la breccia a tutta una serie di artisti controcorrente. Se dalla Liverpool industriale e dalla Londra progressista uscivano le faccine per bene dei Beatles o quelle fintamente cattive dei Rolling Stones, dalla profonda campagna britannica rinasceva il canto popolare. In mancanza di una scuola musicale nazionale (la Gran Bretagna, infeconda nella “musica classica”, non ha avuto i suoi Respighi, De Falla, Sibelius, Glinka: i riscopritori della danza e del suono della tradizione di popolo), il Regno Unito ha scoperto una più moderna via pop alla “rivoluzione conservatrice”. L’incontro tra la cantante Sandy Denny, (morta prematuramente e famosa per aver inciso un pezzo coi Led Zeppelin, di cui era la “quinta runa”), insieme al gruppo londinese dei Fairport Convention, nato nel 1967, dette vita alla prima elettrificazione del folk. Di qui l’idea sovversiva: la modernizzazione dell’antico, l’attualizzazione del passato, la tecnologia a protezione dell’arcaico. Questa versione musicale inglese della formula tedesca Sangue-e-Suolo+V2 è il segreto di quella coincidentia oppositorum che, secondo Cresti, costituisce la carta d’identità della società britannica: conservatrice, ma liberista; monarchica, ma cosmopolita; tradizionalista, ma moderna. Fatto sta che in questo piccolo calderone di  controtendenze, sottratte all’egemonia della “cultura” di massa, avviene il coagulo alchemico: il «vero e proprio inizio consapevole di una fusione tra musiche giovanili, suggestioni controculturali e patrimonio tradizionale». Il suono acustico che si sposa con quello elettrico è una metafora. E i giovani che riscoprono i loro territori di conoscenze popolari, di tradizioni, di antiche appartenenze è una vera e propria traccia politica contro-global.


Dunque l’arpa celtica si è rimessa davvero a suonare e i bardi gaelici a cantare? È un fatto che lo strumentario dei suonatori popolari, le danze e i canti dei pastori e delle comunità rurali trovano sempre nuove vie per esprimersi. In agguato c’è il business, d’accordo, ma qui meno di altrove sembra che il ricatto funzioni. Dal vecchio Donovan a un Gilbert O’ Sullivan – a suo tempo noti anche in Italia -, dai Pentangle ai Fairport Convenction e alla miriade dei gruppi e dei vocalist meno famosi o semisconosciuti, l’armata völkish britannica appare numerosa. Materia per specialisti, ma non solo. Del resto, la riscoperta della musica antica, rinascimentale e barocca, è una costante di artisti anche di gran nome. Basta ricordare il lavoro che da un decennio svolge Ritchie Blackmore – storica chitarra dei Deep Purple -- insieme alla moglie Candice Night: musica rock più suoni e strumenti celtico-medievali. Una formula minoritaria, alla ricerca della qualità. Questo il nuovo stile inglese.

Che è quello vecchissimo: la musica britannica pre-moderna, emigrata in America, divenne nell’Ottocento la ballata oppure l’allegro veloce del violino irlandese, in uso nelle carovane anglosassoni del West e nei saloon dei cow-boy. Poi, passando per New Orléans, prese i panni del blues e poi ancora quelli del rock…tornando alla fine in Europa…Un po’ ciò che è successo per la festa indoeuropea di fine estate: la Samhain celtica è ritornata da noi col nome di Helloween. Notiamo di passata che i nostri incolti figli della “frontiera” americana si innamorano dei patrimoni culturali europei soltanto quando ci vengono rispediti col timbro made in USA

Comunque, schegge del tradizionalismo musicale britannico, di quando in quando, giungono anche da noi in Italia: ad esempio, se Chris Leslie, “l’anima satirica del folk d’oltremanica”, ha fatto negli ultimi anni parecchi concerti in Sardegna, pochi mesi fa il chitarrista acustico John Renbourn, fondatore dei Pentangle, è stato a Fiesole con un suo spettacolo.

Certifica Cresti che questo nuovo “druidismo” musicale viene denominato con la parola wyrd: arcaico lemma sassone col doppio significato di “guardare indietro” e di “cambiare”. Ne deduce che questo «è un genere che, pur guardando costantemente e con riverenza alle proprie origini, non può far altro che mutare ed evolversi». In fondo, questa è la tradizione ossimora che piace tanto anche a noi. I giovani seguaci della musica folk sono il popolo dei pub, dei ritrovi alternativi, dei concerti adrenalinici ad alto tasso di comunitarismo. Molti di loro, nel solstizio d’estate, si recano davanti ai megaliti di Stonehenge per celebrare la pagana festa del sole. Dice: ma questi sono i soliti fricchettoni di retroguardia, oppure le frange borghesi in pieno spleen da New Age…Forse. Anzi, di sicuro. Ma, grazie al cielo, non tutti.