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Il mondo è un gioco divino che l’Essere sogna nelle nostre menti

di Francesco Lamendola - 04/02/2010

 

Nelle filosofie monistiche dell’India (non in quelle dualistiche), «līlā» è un vocabolo sanscrito che designa il gioco divino dell’universo materiale e, al tempo stesso, il potere illusionante che vela il Brahman Assoluto. Si tratta di un concetto puranico, non vedico, alla base del quale riposa la concezione della realtà manifestata come espressione di una dimensione ludica dell’Essere Supremo e, insieme, del suo carattere illusorio, reso possibile da “maya”, vale a dire la falsa credenza che gli esseri siano separati dal Brahman.
Nella «Bhagavad-Gita» si afferma che la natura materiale è prodotta dai tre “guna” - Ignoranza, Passione, Virtù - i quali costituiscono la natura inferiore, «prakrti». Quando l’essere individuale, che in se stesso è imperituro, entra in contatto con la natura materiale, diventa condizionato da questi tre “guna” ((XIV, 5-6); sì, anche dalla Virtù, che genera orgoglio e illusione di sapienza: una forma di condizionamento diversa, ma non meno pericolosa degli altri due – come è bene esemplificato da tanti filosofi e scienziati moderni.
Dunque: se ammettiamo, e sia pure in via di ipotesi, che l’intera realtà materiale non sia altro che una sorta di gioco cosmico della Mente Suprema - gioco che noi finiamo per prendere anche troppo sul serio -, non possiamo esimerci dalla domanda circa la ragione di esso; né possiamo pervenire ad altra ragionevole risposta, che esso corrisponde all’esigenza di salvaguardare la libertà di scelta delle menti finite, che solo così possono compiere una opzione non condizionata fra l’illusione della separatezza e la piena felicità dell’identificazione con l’Assoluto.
Spostandoci nell’ambito del Buddhismo, la filosofia Vijnanavada, meglio nota come Yogacara, che è una delle principali scuole mahayaniche, sostiene che tutto è vuoto, ma si propone anche di spiegare come tale vacuità sia pensata da qualcosa o da qualcuno; diversamente, non si potrebbe dire nulla di essa, assolutamente nulla. Se qualcuno o qualcosa pensa la vacuità, allora significa che l’intera realtà è fatta di pensiero, il che conferma la natura illusoria dell’universo materiale. Questo è stato il nucleo dello sforzo filosofico di Vasubandhu e del suo fratellastro Asanga, due delle menti speculative più sottili di tutti i tempi.
Certo, qui la prospettiva generale è diversa, a causa dell’essenza non teistica del Buddhismo, che lo differenzia profondamente dall’Induismo; pure, non è un caso che esistano rilevanti punti di contatto fra le concezioni idealistiche del primo, come lo Yogacara, e quelle del secondo, come il Vedanta.
La questione è stata così sintetizzata da Félicien Challaye (in: «I filosofi dell’India»; titolo originale: «Les philosphes de l’Inde», traduzione italiana di Carla Vitagliano, Torino, S. A. I,. E., 1959, pp. 150-152):

«La prima tappa nel cammino della verità consiste in questa scoperta: gli oggetti non sono che pensiero. Non esiste veramente l’oggetto.  Ma alla nozione di oggetto è necessariamente legata quella di soggetto.   Là dove non c’è oggetto, non ci potrebbe essere, in tutta la forza del termine, un soggetto: “Là dove non c’è prendibile, non c’è chi prende”.
Asanga combatte il “pregiudizio” dell’io.  Non esiste personalità più di quanto non esistano atomi.  La così detta personalità non è che una serie di esseri istantanei, vuoti di ogni sostanza. L’individuo è solamente una parola, non è una realtà. Lo pseudo-io è costituito dalle immagini degli atti anteriori:; è un prodotto del “karman”. Come il mondo esteriore,  la vita interiore dell’io è un miraggio.  Non ci sono che fenomeni, esistenti in quanto dati immaginari., inesistenti in quanto realtà.
In tal mondo l’oggetto e il soggetto si incontrano in quanto illusione.  La seconda tappa nella via della verità è la rinuncia ad ogni differenziazione tra soggetto e oggetto. C’è credenza illusoria nella dualità: “non esiste dualità”. L’idealismo diventa monismo.
Si arriva così alla formula: “Nulla fuorché pensiero” (“Vijnanamatra”). La sola realtà è il pensiero:; un pensiero senza soggetto né oggetto; un pensiero ricettacolo del tutto (“alaya vijnana”).»
Sylvain Lévi espone in termini penetranti il significato di questa affermazione:
“L’analisi di Asanga scopre, sotto il flusso incessante delle cose, una nuova sensazione, la sensazione del ‘sottosuolo’, serbatoio ne quale vanno ad immagazzinarsi gli effetti acquisiti nell’attesa di trasformarsi in cause. Non è la persona, poiché il Buddhismo nega la personalità; non è l’io, poiché l’io è illusorio. È l’affermazione dell’essere che si trova coinvolto in tutti i nostri giudizi e in tutte le nostre sensazioni… Asanga qui conferma Descasrtes. Egli non dice: “Penso, dunque sono”. Ma sotto la sensazione del “manas” che traduce: “Io penso”, egli isola la sensazione più profonda, che afferma: “Io sono”. In tal modo, senz’essere vera nel senso assoluto poiché è legata all’io, la sensazione dell’”alaya” (coscienza-ricettacolo) contiene una somma dio realtà superiore a tutte le altre, e in tal modo partecipa alla permanenza nell’universo impermalente… All’io fittizio, che viene abolito, si sostituisce la coscienza universale dove l’io e gli altri sono considerati come uguali e identici.”
Possiamo, d’altra parte, chiederci se la parola “coscienza”, qui usata da Sylvain Lévi, non potrebbe essere vantaggiosamente sostituita dal termine di “subconscio universale”.  Poiché proprio in questo sottosuolo vanno ad accumularsi tutte le immagini anteriori dell’universo e tutti gli stati psichici anteriori. Non si tratta, però, di un subconscio passivo.  In esso è il sostegno delle nostre percezioni, ed anche degli organi che le procurano, il substrato di tutte le nostre conoscenze.
Dal punto di vista morale, questo pensiero è un “pensiero retribuzione”, poiché implica il frutto delle azioni buone o cattive che determinano le trasmigrazioni.
Questo pensiero-sottosuolo si sviluppa nella apparente dualità dell’oggetto e del soggetto. Da esso procedono le apparenze del mondo esteriore e del’io, del bene e della fede, delle passioni e della contaminazioni.
Hsuan-tsang ci fa conoscere il modo particolarmente suggestivo del quale Vasubandhu si serve di una similitudine classica quando paragona il pensiero-sottosuolo ad un fiume. Il pensiero-sottosuolo non è né discontinuo, né stabile. È una serie omogenea e senza interruzione; e cambia incessantemente. Come il fiume trasporta delle foglie alla superficie e dei pesci nelle profondità, il pensiero sottosuolo scorre portando con sé le immagini esternabili e gli psichismi individuali. Colpito dal vento, il fiume produce molteplici onde senza che la sua corrente si arresti, come il pensiero-sottosuolo produce innumerevoli fenomeni. E questo fiume trasporta gli esseri “in alto o in basso”, verso i buoni o i cattivi destini.
Il pensiero così inteso, liberato da ogni distinzione fra oggetto e soggetto, si identifica con l’universo, poiché nulla differenzia la conoscenza col suo oggetto. Esso è “tathata”: potremmo dire l’essenza delle cose, se una simile dottrina comportasse il concetto di un essere in sé.  Preferiamo tradurre la parola servendoci di un termine medioevale che indica la qualità intima delle cose: la “quiddità”.
“Il pensiero - dice Asanga - è la ‘tathata’ del pensiero”. La ‘tathata’ è nello stesso tempo essere e non essere. “Essa è - scrive Asanga - la caratteristica assoluta delle cose; è, in realtà, l’inesistenza di tutti i “dharma” (fenomeni),, che sono immaginari, ed è l’esistenza, giacché essa esiste attraverso la loro inesistenza. È insieme esistenza ed inesistenza, poiché questa esistenza e questa inesistenza sono indivise”
Asanga esalta la scoperta di questa “tathata”, al di là di tutti gli errori e di tutte le illusioni: “In verità non vi è null’altro nel mondo, e tutto il mondo  ha le idee confuse a questo proposito. Come dunque è cresciuta questa strana follia del mondo  che fa sì che l’uomo si ostini su ciò che non esiste, trascurando completamente ciò che è? In realtà non vi è null’altro nel mondo…”.
La scoperta della “tathata”, al di là del mondo delle apparenze,  è la terza tappa nel cammino della verità.  La quarta ed ultima tappa, è la messa in opera di questa conoscenza trascendente, la sua applicazione  alla conquista della salvazione.
Il sapiente diventerà un santo, un “bodhisattva”, un futuro Buddha. La salvazione sarà l’ingresso nella buddheità.»

Come si vede, la dottrina profondamente religiosa della «Bhagavad-Gita» e quella, implicitamente ateistica, dell’idealismo Mahayana, convergono in maniera impressionante verso un nocciolo di verità comune: l’universo materiale è illusorio. Lo Yogacara - ma anche il buddhismo della corrente Theravada - vi aggiunge la persuasione circa l’illusorietà dell’io e quindi, inevitabilmente, l’insostenibilità di ogni dualismo soggetto-oggetto, essere-non essere.
Va notato come quest’ultima intuizione si avvicini in maniera sorprendente alle più recenti acquisizioni della fisica delle particelle sub-atomiche e, particolarmente, al principio d’indeterminazione di Heisenberg. Così come non si può dire, della tathata”, né che essa sia, né che non sia, ma in questo suo non esserci consiste la sua esistenza, allo stesso modo non si può dire, ad esempio, che un elettrone sia un determinato luogo, o che non vi sia, ma bisognerebbe dire che a certe condizioni c’è,  e che in altre condizioni non c’è; oppure, ancora, non si può dire che la luce si comporti sempre secondo il modello ondulatorio o secondo il modello corpuscolare, ma che si comporta a volte in un modo e a volte nell’altro.
La differenza, certo notevolissima, fra l’illusorietà del mondo secondo l’Induismo, e quella secondo il Buddhismo, è che per il primo, di là dal velo di “maya”, c’è la realtà del Brahman Assoluto, dunque una nozione profondamente religiosa; mentre per il secondo c’è un principio indifferenziato di esistenza ed inesistenza, di essere e non-essere.
A noi, tuttavia, piace cogliere gli elementi comuni fra le diverse dottrine spirituali e non soffermarci troppo sugli elementi di diversità o di contrapposizione. Dovremmo abituarci a vedere ogni dottrina tradizionale come una scala protesa verso il Cielo e cogliere, quanto più possibile, lo stimolo che ciascuna ci può offrire per oltrepassare la condizione di profonda ignoranza in cui versiamo e per aprirci alle dimensioni superiori dell’esistenza, liberandoci dalle catene che ci tengono avvinti ad una realtà illusoria.
Dovremmo riflettere a lungo sull’interrogativo posto da Asanga: «Come dunque è cresciuta questa strana follia del mondo che fa sì che l’uomo si ostini su ciò che non esiste, trascurando completamente ciò che è?».
Ecco una concetto sul quale tutti coloro che condividono una visione spirituale della realtà potrebbero concordare pienamente. Il problema è proprio questo: liberarsi dall’errore dell’impermanenza e ritornare all’essenziale. In fondo, tutta la Tradizione si può ridurre a questa dottrina fondamentale: bisogna ritornare all’essenziale, dopo aver eliminato vigorosamente tutto ciò che è superfluo ed ingannevole.
E adesso torniamo ala teoria che l’universo manifestato non sia altro che un gioco divino, che l’Essere sogna e nel quale noi ci muoviamo credendolo reale, mentre la sua sostanza è intimamente illusoria. Non è che l’Essere ci voglia ingannare per divertirsi con la nostra illusione: non sarebbe un gioco divertente. Viene anzi da chiedersi come l’Essere riesca a sopportare lo spettacolo della continua ingiustizia e violenza che caratterizzano il nostro agire nel mondo, senza restarne profondamente turbato.
Ma in noi vi è una scintilla o un riflesso dell’Essere; al fondo della nostra essenza vi è la realtà dell’Essere. Noi, dunque, allorché ci liberiamo dall’illusione, strappando alle radici le sue armi preferite - il timore e la brama, ovvero l’attaccamento alle cose - siamo già dei liberati, degli esseri di luce, dei vittoriosi che si proiettano verso l’Assoluto.
Sui nostri volti pieni di cicatrici, dopo dure battaglie, dovrebbe spuntare quel sorriso ineffabile che contraddistingue la consapevolezza liberata dall’illusione, che si fa incondizionata apertura ed equanime, benevola accoglienza verso tutti gli enti.
Dovrebbe trasparire, se volgiamo usare un linguaggio religioso, il sorriso stesso di Dio.