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Nell’era del virtuale, per Baudrillard, la realtà scompare e diviene il suo contrario

di Francesco Lamendola - 24/01/2012


 

Il filosofo francese Jean Baudrillard (1929-2007) è stato uno dei più convinti critici della postmodernità e della società simulacro; se lo scetticismo e il relativismo filosofico mettono in dubbio il concetto di verità, egli ha messo più che in dubbio il concetto di realtà, affermando che, nell’era della comunicazione virtuale (televisiva, radiofonica, giornalistica e informatica), i fatti scompaiono e cedono il posto a una apparenza che è il loro esatto contrario.

Un classico esempio di questa scomparsa e di questo capovolgimento è stato offerto, secondo lui, dalla guerra del Golfo del 1991: anche se milioni di telespettatori in tutto il mondo vedevano, o credevano di vedere, la guerra in diretta, grazie alle più sofisticate tecnologie della comunicazione, in realtà ciò che essi hanno visto non era la guerra “vera”, ma una sua oscena contraffazione; un accavallarsi di notizie, di immagini spettacolari, ma asettiche e selezionate ad arte, sì da ottenere il massimo della disinformazione con la maggiore quantità possibile di messaggi.

Il risultato è stato che, nelle case di tutti quei cittadini, ciò che è entrato per mezzo del teleschermo non è stata la guerra “reale”, ma un’altra guerra, del tutto immaginaria; e che, proprio quando il pubblico era convinto di avere assistito “in diretta” alla sua manifestazione, non ha fatto altro che subire un programma telecomandato, edulcorato, tecnologizzato, che non solo non rifletteva l’andamento della realtà, ma ne era l’antitesi perfetta.

Più in generale, Baudrillard sostiene che è in atto una diffusione artificiale e totalitaria del Bene, pianificata dal potere mediatico allo scopo di rafforzare la coesione sociale interna: sia che si tratti di mostrare le immagini raccapriccianti di una calamità naturale che colpisce un lontano Paese asiatico o africano (magari per predisporre l’opinione pubblica ad accogliere favorevolmente un intervento armato delle nazioni occidentali, mascherato da “missione umanitaria”); sia che si tratti di esortare i telespettatori a contribuire alla raccolta di fondi in favore delle vittime di una carestia, di un terremoto o di uno “tsunami”,  lo scopo vero è sempre quello: falsificare la realtà, farne scomparire la vera immagine e sostituirla con una irreale, di maniera, manipolata, da utilizzare per qualche secondo fine che non ha nulla a che fare con l’autentica informazione.

E tutta la modernità, per Baudrillard, si basa su questa tecnica “oscena”: il che lo ha spinto, da un lato, a una critica implacabile, radicale, millenaristica della civiltà moderna; dall’altro lo ha avvicinato a una certa tradizione neo-surrealista, tanto da fargli accettare la nomina a Satrapo del Collegio dei Patafisici, nel 2001, e da porlo come l’ispiratore ovvero il padre spirituale di certa cinematografia (si pensi a «Matrix», tanto per fare un titolo) basata sulla volontà di demistificare le ingannevoli apparenze del mondo virtuale.

Per lui, i mezzi di comunicazione di massa, ma specialmente la televisione, operano un sistematico rovesciamento della realtà, per cui il cittadino della società moderna viene a trovarsi nella paradossale situazione di non essere più il soggetto della propria informazione, ma l’oggetto: è la televisione, infatti, che lo “pensa”; e una riprova di questo assunto, secondo lui, si è vista con la vicenda dell’attacco terroristico alle Twin Towers dell’11 settembre 2001: un evento mediatico che ha finito per oscurare e nascondere completamente, nonché per capovolgere nel suo contrario, l’evento reale.

Benjamin Wolley, saggista e giornalista televisivo inglese, ha ben sintetizzato gli aspetti centrali della critica di Baudrillard alla modernità e specialmente all’uso della tecno-scienza (critica che egli, personalmente, non condivideva del tutto); e, al classico del filosofo francese «Simulacri e simulazioni», del 1981, ha risposto con il volume «Mondi virtuali», del 1992, di cui riportiamo un passaggio significativo (titolo originale: «Virtual Worlds»; traduzione italiana di Davide Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Milano, 1993, pp. 236-39):

 

«Laddove altri critici, come per esempio Charles Jencks, guardano al’esperienza postmoderna con fiducia e ottimismo, celebrandone i pluralismo e la giocosità, Baudrillard ne è disgustato. Al centro di questo disgusto sta la scoperta che la realtà non esiste più, e che anzi è diventata il suo contrario,pura finzione. Il concetto di realtà oggettiva e indipendente dall’osservatore è un’ipotesi dell’era moderna, che non poteva più reggere alla pressione degli sviluppi tecnologici  ed economici del tardo ventesimo secolo.  Persino la “teoria critica”, opersino lo strutturalismo, avevano operato in base al principio che, ala conclusione tutti i discorsi, sarebbe rimasta finalmente l’affermazione definitiva di ciò che si andava cercando: la base della verità, ossia la realtà. Ma ora non più. Secondo Baudrillard, la realtà, come  guerra del Golfo, è un simulacro, una copia perfetta di qualcosa di cui non è mai esistito l’originale.»

Baudrillard dà inizio al suo classico saggio sul postmoderrno, “Simulacri e simulazioni”,  con una citazione dal Qoelet: “Il simulacro non è mai  ciò che nasconde la verità; ma è la verità che nasconde il fatto che non c’è alcuna verità. Il simulacro è vero”. Per Baudrillard,  (ma lo stesso dovrebbe esser vero per qualsiasi autentico analista  del postmoderno), “la più bella allegoria” della simulazione  è un’idea che so trova in un racconto di Borges, quella dei cartografi imperiali che disegnano una mappa dell’impero così precisa che ricopriva esattamente tutto il suo territorio. Commenta Baudrillard: “Oggi l’attrazione non è più quella costituita dalla mappa, non  più il doppione e lo specchio del concetto.  E a simulazione non è più la simulazione di un territorio, o di un’entità referenziale, o di una sostanza.  È qualcosa che, attraverso modelli, genera un reale che on ha né origini né realtà: un’iperrealtà. Mentre nel racconto di Borges la mappa prima subisce  lo stesso decadimento del territorio che ricopre, ma alla fine quest’ultimo riafferma se stesso, adesso è il territorio che scompare, ed è la mappa che sopravvive. Peggio ancora: adesso l’impero è capace di costruire esso stesso il reale, così da adattarsi perfettamente ala forma della mappa.

Come ogni buon critico marxista (sebbene egli abbuia abbandonato il marxismo, che resta necessariamente una condizione modernista, un modo di essere ottimistico ala cui base rimane la convinzione che, sotto tutte le simulazioni, la realtà deve in qualche maniera sopravvivere, Baudrillard vede il crollo della realtà svilupparsi da una serie di stadi  storici ben distinti fra loro. Questi stadi riguardano la storia della significazione, ossia del modo con cui vengono impiegati i segni: per esempio, della relazione che assume un quadro con ciò che rappresenta, o che assume una frase col suo contenuto. I diversi stadi segnano la graduale separazione  de segno da ciò che esso significa, la separazione fra natura e cultura, la separazione fra “verità” e realtà. Nel primo stadio il segno rispecchia una realtà di fondo, nel secondo nasconde quella realtà, nel terzo nasconde l’ASSENZA di quella realtà. È tutt’altro che facile far corrispondere a ciascuno di questi stadi particolari cambiamenti storici; e del resto Baudrillard no compie sforzi eccessivi per fornire questo tipo di spiegazione. La loro importanza sta tutta nel fatto che essi offrono la direzione verso la quale corre lo stadio finale (anzi terminale, per Baudrillard): lo stadio della simulazione pura, quando cioè il segno cessa di significare qualcosa di reale. La cultura si mette a produrre segni che non significano nulla, o che hanno soltanto una significatività spuria. L’industria, nella società dei consumi, è in gradi di produrre praticamente  qualsiasi cosa che si desideri: macchine che lavano i piatti,  lampade che abbronzano la pelle, birra che non fa ubriacare chi la beve, grassi perivi di grasso. La tecnologia è arrivata al punto di poter soddisfare più che adeguatamente i bisogni fondamentali della grande maggioranza della popolazione, sicché l’unica motivazione che spinge al consumo rimasta il desiderio o il capriccio del consumatore. Il desiderio come alternativa al bisogno ha un aspetto positivo, che è quello di essere l’equivalente motivazionale di un assegno in bianco: il produttore lo può riempire a suo piacere. Poi è la pubblicità che si assume il ruolo di generare il desiderio, cos che riesce a fare non già promuovendo l’utilità del prodotto che cerca di vendere, bensì manipolando il suo significato. Per esempio: poiché contiene burro di cacao, una tavoletta di cioccolato viene venduta associandola all’idea di un paradiso tropicale; il quale paradiso, beninteso, non ha una sua realtà geografica, ma ha un qualche significato solo perché fa pensare ai film di Hollywood o ai dépliant delle agenzie turistiche, cose a loro volta associate ai romanzi di fine Ottocento, alle avventure coloniali, e vi di seguito. La tavoletta di cioccolato in sé diventa il significante di questa rete di associazioni, e “significa” tutto questo. Con ciò non si vuol dire che la pubblicità del cioccolato sia falsa, o fuorviante: il punto è che senza quel “significato” non vi sarebbe più il prodotto, e la tavoletta di cioccolato sarebbe un oggetto senza senso. È dunque il desiderio che divine materia del significato e della manipolazione dei segni; e ciò che tiene in vita la società dei consumi è l’abilità dei produttori nell’eseguire queste manipolazioni, ossia nel produrre significato. Ma lo stesso vale per la cultura nel suo insieme, e non solo per la fabbricazione  dei prodotti di consumo: vale per la politica, per i divertimenti, per le arti, in una parola  per tutto ciò che l’operosità umana sa produrre.  Il risultato è l’iperrealtà di Baudrillard: “Quando il reale non è più ciò che era un tempo, ecco che la nostalgia  assume il suo pieno significato. Si ha allora una proliferazione di miti sull’origine e sui segni della realtà; su verità di seconda mano, sull’oggettività, sull’autenticità. (…) E si ha, si direbbe quasi creata dal panico, una gran produzione di reale di referenziale”.»

 

Baudrillard, come ricorda Wolley, fa un esempio molto efficace del concetto di iperrealtà: quello di Disneyland. Nelle varie ”città” della Disney, sparse nel mondo, che si presentano come dei piccoli mondi totalitari dove tutto funziona perfettamente e scompare ogni distinzione sociale, il simulacro consiste nel fatto che esse suggeriscono che, fuori di quei mondi finti, esista un mondo vero, esista una realtà vera; invece tutta Los Angeles, gran parte degli Stati Uniti e della stessa Europa sono ormai dei mondi finti, che si uniformano al modello di quella America “vera” che non è quella ordinaria, ma quella, appunto, disneyana.

La realtà scompare e viene sostituita dal contrario di quella che essa era, o era creduta, o che magari non è mai esistita; una anti-realtà, una iperrealtà, la cui sola ragion d’essere è di suggerirci, per contrasto, che la realtà vera esiste ed è tutt’intorno, mentre noi siamo invece sprofondati nella sua caricatura, nella sua menzogna, nel suo contrario.

Noi Italiani abbiamo una particolare propensione per quella “terra di mezzo” che non è realtà, ma nemmeno semplice fantasia, che è la realtà virtuale: troppo spesso ci piace trastullarci non già con le cose, ma con l’immagine virtuale di esse; finendo, talvolta, per perdere l’orientamento e per adorare, come Narciso, l’immagine riflessa, piuttosto che la cosa reale.

Tutta la stagione politica del berlusconismo si è basata su questo gioco degli specchi, in cui la realtà virtuale finiva ogni volta per occultare e stravolgere la realtà “vera”: si pensi solo, per fare un unico esempio, al caso della città dell’Aquila, tragicamente colpita dal terremoto e subito resa “visibile” a livello internazionale dalla decisione di tenervi, a breve distanza dal sisma, un importante consesso di capi di Stato; dopo di che la città vera, con i suoi problemi veri, legati alla ricostruzione e alla ripresa delle sue attività produttive, è stata bellamente dimenticata da tutti, perché ormai i riflettori si erano spenti o erano stati girati altrove.

Il discorso di Baudrillard, tuttavia, è molto più sottile (o più radicale, se si preferisce): egli nega puramente e semplicemente, che, nel contesto della modernità, si possa ancora parlare di una “realtà”: se pure c’era, ora non c’è più; al suo posto, la sua contraffazione virtuale, il suo simulacro ingannevole, da tutti, però, identificato come la cosa “reale”. Tuttavia, senza scomodare il Fenomeno e il Noumeno di Kant, potremmo qui osservare che una cosa non può diventare il suo contrario, se non esiste: per diventare il suo contrario, bisogna che esista effettivamente.

Ma Baudrillard lo nega: dice che l’associazione fra segno e cosa reale è ormai talmente arbitraria, che i segni hanno finito per “funzionare “ da soli, ossia per non esprimere altro che se stessi: ed è la realtà, a quel punto, che deve uniformarsi ad essi, pena il non venire più “creduta”.

Certo, sono tesi che fanno riflettere; specialmente oggi, nell’epoca della clonazione, della fotografia digitale, delle simulazioni computerizzate. Stiamo realmente diventando la (brutta) copia di una umanità che, di fatto, ha smesso di esistere, sostituita da una copia più “perfetta” dell’originale?